«Era il 12 febbraio 2005 e gli agenti di Pubblica sicurezza bussavano alle porte di un lussuoso appartamento ai Parioli di Roma. Portavano con sé un’ordinanza di custodia cautelare per un anziano ingegnere. La Procura della capitale lo accusava di essere prestanome di mafia e ’ndrangheta per portare a compimento l’affare del nuovo secolo: riciclare cinque miliardi di euro, proventi del traffico di stupefacenti, e realizzare il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria. Il professionista non era l’unico indagato. C’erano, con lui, altre quattro persone. Alcune risiedevano all’estero. Un’altra era già in carcere in attesa di essere giudicata per un triplice omicidio.