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“La Repubblica delle Stragi”: Un Viaggio nelle Stragi, i Depistaggi e la Lotta per la Verità in Italia raccontata da Fabio Repici

Nell’intervista realizzata da Antonio Nasso abbiamo l’opportunità di ascoltare una voce autorevole e profonda sul fenomeno mafioso e terroristico in Italia: l’avvocato Fabio Repici, difensore di innumerevoli familiari di vittime di mafia. La sua intervista ha svelato un quadro inquietante della storia giudiziaria e politica recente del nostro Paese, delineando una “Repubblica del ricatto” fondata su “segreti su stragi, depistaggi e trattative”.

Un Impegno Trentennale al Fianco delle Vittime: La “Costante Strutturale” del Depistaggio

L’avvocato Repici ha iniziato la sua carriera occupandosi di casi di omicidio e depistaggi già nel 1996, quando era ancora praticante avvocato. Il suo primo caso significativo fu quello di Graziella Campagna, una ragazzina uccisa in provincia di Messina. Il processo, iniziato nel 1998, rivelò subito una verità scomoda: l’accertamento della verità sull’omicidio di Graziella era stato condizionato da vicende “ignominiose”. Il giudice che nel 1990 emise la sentenza di proscioglimento per i due assassini – Gerlando Alberti Junior e Giovanni Sutera (poi condannati in via definitiva solo nel 2009, quasi 24 anni dopo il delitto) – fu poi arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, avendo frequentato e ricevuto favori dal capomafia che aveva coperto la latitanza degli assassini. Questo caso limite dimostra come la sentenza di favore stessa divenne “corpo di reato”.

Da Graziella Campagna, l’impegno di Repici si è esteso ad altri casi emblematici, difendendo i familiari di:

  • Beppe Alfano (giornalista assassinato da Cosa Nostra nel 1993).
  • Il poliziotto Nino Agostino e la moglie Ida Castelluccio (uccisi nel 1989, caso legato a uno dei “primi grossi depistaggi” di Arnaldo La Barbera).
  • L’educatore penitenziario Umberto Mormile (ucciso nel 1990).
  • Il procuratore Bruno Caccia (ucciso nel 1983).
  • Il magistrato Paolo Borsellino (ucciso nel 1992)
  • L’urologo Attilio Manca (morto nel 2004, per il quale un processo è ancora in corso a Roma).
  • La giovanissima Cristina Mazzotti (sequestrata e morta nel 1975, il cui processo è ancora in corso a Como).

Questa lunga esperienza ha rivelato a Repici una “costante strutturale”: i familiari delle vittime di mafia e terrorismo sono spesso costretti a farsi carico da soli dell’accertamento della verità, supplendo alle “inerzie istituzionali”. Questa situazione, a suo dire, evoca una “malsana analogia” con le Madres de Plaza de Mayo in Argentina, con la differenza agghiacciante che in Italia ciò avviene in una “democrazia non esattamente in piena salute”.

I Meccanismi del Depistaggio: Dalla Complicità all’Ocultamento del Potere

I problemi riscontrati nei processi sono molteplici e sistemici:

  • Complicità diretta tra i responsabili dei delitti e membri della magistratura o della polizia giudiziaria (come nel caso Graziella Campagna).
  • Negligenza, timori o favoritismi quando i delitti “toccano ambienti in qualche modo legati al potere”. Se per la “criminalità di strada” la macchina giudiziaria funziona “esageratamente duro”, le cose cambiano quando si tratta di “esponenti importanti delle organizzazioni mafiose o degli apparati terroristici”.
  • Un esempio “surreale” è il caso della strage alla stazione di Bologna (1980): il procuratore di Bologna dell’epoca, dottor Sisti, era un “amico di famiglia” di Paolo Bellini (condannato per la strage), e la sera dopo la strage andò a riposarsi in un albergo del padre di Bellini.
  • Per l’omicidio di Umberto Mormile, il depistaggio consistette nell’“assassinio morale” della vittima, accusata di essere corrotta e uccisa per essersi rifiutata di fare favori all’ndrangheta. La verità, accertata solo recentemente grazie alla Procura di Reggio Calabria e al dottor Lombardo, è che Mormile fu ucciso perché aveva scoperto gli incontri clandestini in carcere tra il boss Domenico Papalia e agenti dei servizi segreti, incontri che “non possono avere ragioni propriamente commendevoli”. Il potere ufficiale e il potere criminale, sottolinea Repici, hanno spesso trovato “convergenze di interessi” che hanno portato all’eliminazione di personaggi “di ostacolo”.

Il “Borsellino Quater”: La Falsa Verità di Via D’Amelio e il più Grande Depistaggio Giudiziario

Uno dei momenti più oscuri e significativi della storia giudiziaria italiana è il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio (1992). Repici ha assistito Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo Borsellino) fin dalla fase delle indagini del processo Borsellino Quater.

  • La svolta di Gaspare Spatuzza: A giugno 2008, la collaborazione di Spatuzza, uomo principale nel gruppo di fuoco delle stragi del ’93-’94 e braccio destro dei fratelli Graviano, rivelò che la ricostruzione basata sulle presunte confessioni di Vincenzo Scarantino era “completamente falsa”. Questo portò al disvelamento di “uno dei più grossi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Repici sottolinea come questo disvelamento sia avvenuto “per merito primario non di un rappresentante istituzionale ma di un mafioso”.
  • Le indagini viziate all’origine: Le indagini furono inquinate da un atto illegale: il procuratore di Caltanissetta, Tinebra, incaricò un alto dirigente del SISDE, Bruno Contrada, di svolgere attività investigativa. Questo è una violazione delle norme costituzionali, poiché i servizi segreti dipendono dalla Presidenza del Consiglio, e delegarli alle indagini significa che “il governo controlla le indagini”, anziché lasciarle alla polizia giudiziaria sotto la direzione del pubblico ministero, come previsto dalla Costituzione.
  • La costruzione del falso pentito Scarantino: La Squadra Mobile di Palermo, guidata da Arnaldo La Barbera (già noto per il depistaggio sull’omicidio Agostino-Castelluccio), in cooperazione con il SISDE, si dedicò a costruire un ruolo di rilievo mafioso per Vincenzo Scarantino, un “piccolo delinquente di borgata” del tutto incompatibile con i vertici di Cosa Nostra. Scarantino fu sottoposto a una vera e propria “caccia all’Uomo” e “tortura” psicologica (attraverso “continui colloqui investigativi” e una custodia in carcere mirata) per costringerlo a rendere false dichiarazioni, così da “depistare l’accertamento in sede giudiziaria sulla strage di via D’Amelio”.
  • La “blasfemia” del metodo Falcone: Le prime dichiarazioni false di Scarantino portarono nel luglio 1994 a numerose catture di presunti esecutori, e in una conferenza stampa al Viminale, si fece “l’apologia” della sua collaborazione, sostenendo persino di aver seguito il “metodo Falcone”, un’affermazione che Repici definisce “blasfema”.
  • I “dati di verità” e l’estraneo a Cosa Nostra: La sentenza del processo Borsellino Quater (scritta dal presidente Antonio Balsamo) riconobbe che le falsità di Scarantino contenevano “dati di verità”. Repici, ascoltando Spatuzza in aula, comprese che la fonte di quelle informazioni vere doveva essere un “estraneo a Cosa Nostra” presente nel garage di via Villa Favorita, dove l’auto fu imbottita di esplosivo. Spatuzza descrisse la “fatica morale” nel parlare di questa persona, che doveva essere “o un esponente di apparati di Polizia o un esponente dei servizi segreti”. In un verbale, Spatuzza indicò come “somigliante” un importante esponente del SISDE di Palermo. Questo suggerisce una “filiera istituzionale” coinvolta nella fase esecutiva della strage.
  • Il “limbo finto” di 16 anni: I primi due processi si basarono sulle false dichiarazioni di Scarantino, portando a condanne che divennero definitive. Solo nel 2008, con l’arrivo di Spatuzza, si iniziò a ribaltare una “verità” durata ben 16 anni. La sentenza del Borsellino Quater diede ragione a Repici e Salvatore Borsellino, riconoscendo che Scarantino era stato “determinato a compiere a rendere quelle dichiarazioni false proprio dagli uomini che ne avevano il controllo”, ovvero i poliziotti della Squadra Mobile.
  • Lo scopo del depistaggio: A differenza di quanto si potesse pensare (ovvero consegnare rapidamente dei colpevoli all’opinione pubblica), il depistaggio servì a “nascondere la verità” e “occultare responsabilità istituzionali”.

La “Repubblica del Ricatto”: Silenzi, Segreti e Potere Attuale

Repici è convinto che “certi silenzi, certe conoscenze dei depistaggi e certi depistaggi diano un potere ricattatorio impressionante”. La storia italiana, specialmente negli ultimi decenni, è stata fondata sul “potere dei silenzi e dei ricatti”. Questa situazione è ancora oggi evidente:

  • Benefici per i condannati delle stragi: Nonostante le condanne irrevocabili, i responsabili della strage di Bologna (85 morti e centinaia di feriti) come Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, hanno goduto di benefici penitenziari e non stanno scontando l’ergastolo, pur continuando a “negare ogni responsabilità” e quindi senza aver avuto una vera “resipiscenza”.
  • Legami tra politica e stragismo: Repici cita la presenza di Giorgia Meloni a una manifestazione innocentista per Luigi Ciavardini nel 2014, o il fatto che la sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti sia figlia di Pino Rauti, “uno dei teorici della strategia della tensione del golpismo italiano”. Ancora più grave, l’ex portavoce di un ministro era Paolo Signorelli Junior, nipote di un ideologo del neofascismo e condannato per militanza in un’associazione eversiva, che in messaggi esaltava figure come Mario Tuti, Concutelli e Ciavardini.

La Battaglia per la Verità non è Finita: Frammenti di Speranza

Nonostante decenni di lotta, la ricerca della verità è tutt’altro che conclusa. Repici ritiene che ci siano ancora possibilità di nuovi accertamenti giudiziari, basati su elementi come le intercettazioni di Giuseppe Graviano del 2017, dove il boss parla delle stragi. Graviano è ancora vivo e sa “un bel po’ di cose che ancora non conosciamo sulle stragi del ’92 e su quelle del ’93”.

Repici conclude con un messaggio potente: i familiari delle vittime non cercano vendetta, ma una “voglia di verità” e un “diritto alla verità”. Questa è la loro “principale delle battaglie”.

Cosa sappiamo (e non sappiamo) della strage di via D’Amelio:

  • Ciò che sappiamo: L’uomo di Cosa Nostra con la responsabilità della gestione esecutiva è stato il boss Giuseppe Graviano, che si occupò del reperimento degli uomini d’onore.
  • Ciò che non sappiamo con certezza: Chi ha premuto il telecomando e dove si trovasse l’uomo che premette il pulsante.
  • I “contatti esterni”: Manca ancora parecchia verità sui contatti tra Cosa Nostra ed “esponenti esterni” prima e in vista delle stragi. Repici ritiene che qualcuno convinse Totò Riina a commettere la strage di via D’Amelio in un momento in cui Cosa Nostra aveva “tutto l’interesse contrario”, per impedire l’approvazione di leggi come il 41-bis o la decadenza del decreto legge post-Capaci. Le stragi, secondo Repici e quanto testimoniato da Giovanni Brusca (sulla strage di Capaci e l’impedimento dell’elezione di Andreotti a Presidente della Repubblica), sono state commesse per “ristabilire dei nuovi equilibri del potere” e forgiare la “Seconda Repubblica”.
  • L’Agenda Rossa: Repici è convinto che l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino, scomparsa dalla sua auto dopo la strage, fosse “l’arma di ricatto maggiore nella storia della seconda Repubblica”. Chi ne è entrato in possesso “ha scalato le vette del potere”, raggiungendo posizioni di vertice nelle istituzioni dello Stato, negli apparati di sicurezza, nelle forze di polizia o nella grande impresa.

L’intervista si chiude con una citazione di Eduardo Galeano, sul valore dell’utopia come orizzonte, e di Max Weber, sul tentativo di raggiungere l’impossibile per ottenere il possibile. Un monito a non smettere di cercare la verità, anche quando sembra irraggiungibile.

Intervista tratta dal canale https://www.youtube.com/@altro_medium di Antonio Nasso