18 luglio 2024, Grosseto – Le stragi commesse nel biennio 1992-93 hanno prodotto nei primi anni a seguire una nuova presa di coscienza. La mafia era presente anche là dove non ce lo aspettavamo, proprio in quelle stanze dove lo Stato doveva organizzare la difesa dalla malavita organizzata. Il giorno del funerale dei cinque agenti della scorta di Paolo Borsellino: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, le urla inequivocabili gridate alle orecchie dei politici fino a quelle del Presidente della Repubblica: “Fuori la mafia dallo Stato”, furono la dimostrazione di quanto fosse chiaro alle persone comuni la causa del male.
Ancora con il fumo dell’esplosivo che saliva da via D’Amelio, da parte di alcuni falsi servitori dello Stato iniziò una lotta feroce per mantenere quel fumo come arma contro la verità. E, come dice un vecchio adagio, la giustizia senza la verità è una tragica beffa ai danni dell’uomo. Solo la tenacia di familiari lasciati soli, persino accusati da quei manovratori che non vogliono granelli di sabbia negli ingranaggi della loro attività di razzia sociale, ha lasciato accesa la luce sulle contraddizioni del potere. I mafiosi godono del male, dei ragazzi lasciati nell’ignoranza, di una politica che delude le comunità, nel loro intento di essere percepiti essenziali, inevitabili. Con la strategia della paura condizionano la vita di migliaia di persone, sguazzano nel degrado e, soprattutto, cercano di cambiare la speranza delle persone in un destino che vogliono tenere stretto nelle loro mani.
In questi trentadue anni la mafia è cambiata, spesso anticipando i tempi, grazie all’efficacia e alla tempistica con cui prende decisioni, alle rigide regole interne e alla loro rigida applicazione. Un pentito, ora all’ergastolo, confessa che lo schema della mafia che recluta pescando dal serbatoio della dispersione scolastica, non è rappresentativo di tutta la realtà. Ci sono illustri professionisti, con invidiabili stipendi, che vengono attratti nel gorgo delle relazioni mafiose da una sola motivazione, il potere. Dicono i più esperti che nella mafia non si entra, ma ci si scivola dentro. Non è un’illazione, ma sono dati di fatto, che al contrario di quanto succedeva in precedenza, quando erano i mafiosi a cercare i politici, ora sono alcuni politici che vanno a cercare protezione proprio dai mafiosi. Una diabolica saldatura di interessi che unisce il mantenimento del malaffare mafioso con i vantaggi personali di alcuni amministratori che hanno smarrito il senso del loro servizio.
Da Capaci, via D’Amelio, Via dei Georgofili, etc. il fumo che oscura la giustizia non si è ancora dissolto e impedisce di far luce sull’intera verità. Ma resiste anche il grido di quel lontano funerale attraverso le voci dei familiari delle vittime e di una grande comunità cresciuta intorno a loro che non si rassegna, che non vuol abbassare la voce. Oggi, forse, l’indignazione non è più sufficiente, occorre uno scatto di fantasia culturale e sociale, un popolo che trasformi la rabbia in un’alternativa che si può immaginare, scorgere e intravedere per seguire quel “(…) movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” (Paolo Borsellino).
Marcello Campomori