Prendendo spunto dal rimpallo di responsabilità che si è verificato tra DAP e Magistratura nel caso della scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria, chiariamo chi decide sulle richieste di scarcerazione. Che rapporti -e ripartizione di competenze- ci sono tra DAP, Magistratura di sorveglianza ed altre eventuali Autorità Giudiziarie (Corti di Assise ad. Es.)? Quanto è importante la conoscenza del fenomeno mafioso (rapporti mafia-carcere, mafia-stato) in capo a chi è chiamato a decidere?
Cosa cambia con il D.L. 28/2020?
Riportiamo di seguito il testo e il video del secondo intervento del dott. Sebastiano Ardita.
Alessandra Antonelli:
Volevo chiederle dottore, visto che in un caso specifico almeno c’è stato un po’ un rimpallo di responsabilità tra il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e la magistratura di sorveglianza, ci può spiegare bene di chi sono le competenze per le decisioni su queste scarcerazioni, quali sono i rapporti tra le varie autorità giudiziarie coinvolte, che non è soltanto la magistratura di sorveglianza.
Poi, le volevo anche chiedere quanto è importante che i giudici, l’autorità che è chiamata a decidere, conosca a fondo il fenomeno mafioso e quindi i rapporti mafia-carcere, i rapporti mafia- Stato e con il decreto-legge n. 28 del 2020 cambia qualcosa secondo Lei, e che cosa.
Sebastiano Ardita:
Grazie. Molto, molto intelligenti [le domande], dimostrano che avete colto il senso dei problemi che oggi si stanno discutendo qui.
Allora, cominciamo dalla prima domanda, la questione del riparto dei compiti e delle responsabilità. È chiaro ed evidente che i provvedimenti con i quali si stabilisce, si decide sulla libertà dei detenuti spettano soltanto alla magistratura di sorveglianza. Il DAP deve svolgere un altro compito. Il suo compito è garantire che la detenzione risponda ai principi fondamentali dell’ordinamento penitenziario e della costituzione. Cioè, deve garantire che sia svolta in sicurezza e assistendo, garantendo ai detenuti tutti diritti fondamentali. Questo è il compito del DAP. Lo dico perché dobbiamo sgombrare il campo qua da alcuni possibili errori di impostazione. La mia analisi parte da una posizione che, naturalmente, tiene conto di quella che è la mia sensibilità rispetto al fenomeno mafioso, ma sono convinto che al DAP, nelle funzioni di gestione amministrativa del DAP, non serva fare l’antimafia. Non esiste che chi sta al DAP deve fare antimafia. Chi sta al DAP deve applicare le leggi dello Stato. Poi esiste un sistema di prevenzione antimafia che ha i suoi interlocutori, i quali saranno capaci naturalmente di prendere spunto dalla buona gestione penitenziaria fatta dal DAP per consentire che le finalità dell’antimafia siano conseguite.
Nel caso di specie, quello che bisognava garantire era una condizione di sicurezza sotto il profilo epidemiologico e sotto il profilo anche sanitario che riguardava la generalità dei detenuti rispetto al rischio di contagio e i singoli detenuti che sono sottoposti a cure mediche, essendo soggetti i quali soffrono di patologie. Qui il problema sta proprio nel fatto che, evidentemente, la parte amministrativa, la parte governativa DAP non è riuscita a garantire condizioni di sicurezza penitenziaria dal punto di vista epidemiologico e sanitario. Evidentemente questo fatto, con tutte ovviamente le considerazioni, al netto delle considerazioni e della legittima critica che si può fare ai provvedimenti giudiziari, ha inciso anche sul giudizio finale.
Parliamo di cose concrete. Perché se no, non ci capiamo. Siccome io per nove anni ho diretto l’ufficio detenuti, e non l’ho diretto in quanto esponente della cultura antimafia; l’ho diretto cercando di applicare le regole dello Stato che prevedono che i diritti individuali sono diritti sacrosanti, che i detenuti naturalmente vanno gestiti con categorie di rispetto e di civiltà della pena. Solo questo garantisce che poi non ci siano le rivolte e non ci siano le scarcerazioni. Perché se non, nel sistema penitenziario, se c’è una mancanza, un difetto poi ovviamente si cade nell’eccesso opposto. Si violano i diritti dei detenuti? Arrivano le scarcerazioni. È automatico perché è come in una sinusoide, una volta che ci si allontana dal centro, dalla linea di guida, dalla linea retta che dovrebbe guidarci poi si finisce per sballare nella direzione opposta.
Cosa doveva fare in questo caso un direttore dell’ufficio detenuti? Io vi dico quello che avrei fatto io. Qui si dice che da gennaio del 2020, non solo il problema era noto alle autorità pubbliche, quindi alle autorità governative, c’era addirittura una proiezione del rischio in termini anche catastrofici, possibile su tutto il territorio nazionale. Evidentemente, anche il DAP doveva essere informato di questi fatti e doveva inevitabilmente fare due cose: prima uno studio del fenomeno, cioè capire gli effetti, che rischio si correva in carcere; secondo, individuare un sistema che consentisse una prevenzione all’interno degli istituti penitenziari, facilitata dal fatto che il carcere ha già delle separazioni rispetto a quella che è la realtà esterna. Cioè, il modello che è stato attuato di distanziamento sociale in qualche modo riproduce un meccanismo di privazione della libertà. Quindi, in carcere c’è già questo meccanismo. Occorre, però, riuscire a attuarlo in maniera intelligente. E allora, come si attua? Si attua ipotizzando dei percorsi, dei soggetti esterni che vengono, che accedono alle strutture penitenziarie, dei percorsi che prevedono l’utilizzo anche degli strumenti di prevenzione, mascherina e guanti, disinfettanti, circuiti, distanza tra soggetti esterni e soggetti interni. È evidente che dentro il carcere, in periodo di Covid, di restrizione Covid, non entra più nessuno. E quindi, chi dice che il carcere è un luogo in cui entra ed esce tanta gente, ci fa un po’ sorridere, perché è fin troppo chiaro che nel periodo in cui si è applicata la prevenzione sul territorio nazionale, nel carcere questa prevenzione sarebbe dovuta essere moltiplicata. Attuando un modello del genere, che avrebbe previsto ovviamente anche una limitazione o una rimodulazione dei rapporti coi familiari attraverso, appunto, i rapporti telefonici, Skype, diciamo dei temporanei strumenti sostitutivi del colloquio. Con questo pacchetto di misure di riforma, occorreva comunicare ai detenuti qual era il progetto che c’era su di loro, il fatto che lo Stato si preoccupava della loro salute, innanzitutto, del fatto che questo Covid non avrebbe inciso particolarmente all’interno delle realtà penitenziarie perché c’era un piano per risolverlo, che i rapporti coi familiari erano temporaneamente sospesi, ma che comunque sia sarebbero stati comunque coltivati… Insomma, bisognava rassicurare le persone. Mettetevi nei panni di una popolazione detenuta, la quale ovviamente non conosce nulla, viene bombardata dalla televisione che racconta dei pericoli possibili e improvvisamente riceve la comunicazione che i parenti non possono più fare colloqui. Quindi, pensa che sia successo l’irreversibile, teme da un momento all’altro di ricevere il contagio.
Ecco, la comunicazione, la programmazione, lo studio sono tutte circostanze fondamentali. Perché uno studio epidemiologico fatto nella direzione che indicava il dottor Ferraro che ho citato poc’anzi, il quale citava i dati di Mauro Palma, avrebbe impedito di far fare alle autorità pubbliche delle scelte su presupposti quantomeno indimostrati, se non addirittura gravemente sbagliati. Presupposti che, perseguiti come se fossero novità, hanno portato alla scarcerazione di settemila, oltre settemila detenuti, fra cui anche boss di mafia.
Quindi, cosa significa questo? Perdita di credibilità nel sistema penale, perdita di effettività della pena, e soprattutto spreco enorme di risorse pubbliche. Al di là di tutto quello che è accaduto, naturalmente, si innestano le rivolte, le quali sono comunque da connettere, sia pure ovviamente in un’ottica di inevitabile etero gestione; perché è chiaro che la rivolta prende spunto da una condizione di panico generalizzato e di timore della popolazione detenuta, non informata e non sicura delle proprie condizioni di salute. Ma è anche evidente che questo panico viene cavalcato, perché altrimenti non si spiegherebbe la sincronicità di certe scelte, il rapporto interno-esterno. Ma poi, non c’è bisogno di fare l’analisi di questi fatti. Il penitenziario (ma questo penso o credo che non importi proprio a nessuno) è una realtà che si fonda sull’esperienza. Se sei stato dentro il carcere, lo hai gestito, conosci la realtà, riesci a gestirlo e trai dal passato, dall’esperienza degli altri, gli strumenti per risolvere i problemi attuali. Le rivolte sono state un pezzo di storia della nostra Repubblica terribile terrificante e sono nate sempre con un grandissimo coordinamento esterno. Sono state un attacco allo Stato studiato nei dettagli.
Ora, chi dà del complottista a coloro i quali giustamente rilevano che c’è stata una concentrazione di rivolte, si assume una grossa responsabilità. Non voglio dire altro. E comunque non conosce la storia. Purtroppo, però, il penitenziario viene trattato come se fosse un luogo del quale interessa poco o niente. Perché è un luogo nel quale (lo dico perché non l’abbiamo letto fino a oggi) operano oltre 50.000 persone, servitori dello Stato che hanno agito, hanno vissuto e lavorano in condizioni fisiche di rischio, di invivibilità che nessuno degli italiani si sogna di vivere nella sua realtà lavorativa.
Questa gente, la polizia penitenziaria, che appartiene a una famiglia, la famiglia della mia zona penitenziaria, è stata violentata nel nostro Paese da cinquant’anni dal terrorismo, dall’incuria delle amministrazioni, dalle incapacità dei governi di comprendere le realtà della vita penitenziaria, dalla mortificazione di ruoli. Dopo tanti anni, hanno creato un ruolo di commissari, hanno preso tanti giovani nel nostro Paese e li hanno mortificati, senza riconoscere loro la parificazione rispetto agli altri corpi di polizia. Non hanno ascoltato, coloro i quali avevano la responsabilità per farlo, per anni la voce della polizia penitenziaria che diceva guardate che i sistemi di governo della sicurezza interna non rispondono a razionalità. Ridateci la possibilità di controllare noi le carceri. La realtà della famiglia penitenziaria, della polizia penitenziaria che, occorre ricordarlo, conta vittime del terrorismo e non soltanto della mafia, in una quantità che non ha certamente nulla da invidiare alle altre categorie pubbliche, non è governata dall’interno. Cioè, benché ci siano fior di funzionari e fior di commissari di polizia penitenziaria, e di educatori e di medici che hanno svolto la loro attività all’interno della realtà penitenziaria, è governata dall’esterno. Perché arriva qualcuno inviato dal governo che non conosce questa realtà e dovrebbero metterla in piedi. Ma voi pensate che sia facile farlo? Cioè, voi pensate che una macchina così complessa, una comunità umana così coesa in cui tutti si conoscono, possa essere ogni due-tre anni, un anno, governata da uno che viene inviato dall’esterno, che ha un buon nome. Purtroppo, non può rispondere, non può conoscere questa realtà, questo mondo.
Questo è quello che è accaduto negli ultimi vent’anni, da quando i magistrati non hanno più svolto le funzioni in modo quasi esclusivo nell’amministrazione penitenziaria. Perché poi c’è una non conoscenza nella non conoscenza. Anche il mio mondo, il nostro mondo, il mio mondo quello che vivo attualmente, quello dell’autogoverno non riesce a rendersi conto di certe cose. I padri dell’amministrazione penitenziaria, e chiudo perché sto prendendo un sacco di tempo, si chiamano Girolamo Tartaglione, Girolamo Minervini, Riccardo Palma. Sono persone che sono morte all’interno del DAP, uccisi dal terrorismo. Sono stati venti, trent’anni, facevano parte della famiglia della mia zona penitenziaria, conoscevano tutto di questo mondo e quindi erano in grado di governarlo. Dall’epoca dello spoils system, dei sistemi moderni, dalla fine degli anni ’90, da D’Amato in poi, hanno mandato dirigenti che non conoscono questa macchina e che hanno continuamente imposto sistemi di governo che non sono quelli maturati, sviluppati, distillati nel corso degli anni. Quella è una macchina molto complessa. Occorre conoscerla bene.
Ho portato via già molto tempo e me ne scuso. Quello che volevo dire è che oggi, senza ascoltare la voce degli uomini della polizia penitenziaria, dei funzionari, dei direttori delle carceri che sono stati la colonna vertebrale del sistema, coloro che hanno garantito questa sicurezza e questo tipo di realtà, credo che non andiamo da nessuna parte.
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