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Via D’Amelio, Avv. Fabio Repici: ‘L’ombra di Bruno Contrada ancora oggi al Viminale’

di Redazione 19luglio1992.com

Pubblichiamo di seguito la trascrizione ed il video completo dell’intervento dell’avv. Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, lo scorso 19 luglio 2019 sul palco di Via D’Amelio.

Giuseppe Lo Bianco: “Io partirei proprio dalla sentenza Borsellino quater che ci dice che Scarantino fu indotto a mentire. Questa parte della sentenza è passata in giudicato, quindi per la verità processuale Scarantino fu indotto a mentire da uomini appartenenti allo Stato. Sul banco degli imputati per ora ci sono un funzionario di Polizia e due sottoufficiali della Polizia. Avv. Repici, è credibile che solo a loro possa essere addebitata la responsabilità di questo depistaggio?”

Fabio Repici: “Buonasera a tutti. Ti rispondo a breve, perché prima devo fare una premessa. Io sono abituato a parlare sempre senza filtri e secondo quelli che sono i miei pensieri. Anche in modo crudo e anche in modo urticante se del caso. Questo che è il mio naturale modo di esprimermi in questa sede diventa, secondo me, un dovere morale. E quel titolo che avete dato “Verità di Stato, verità di tutti” a me fa dire un’altra cosa. Che l’unico modo per poter essere coerenti in giornate come queste e nella memoria, nel ricordo di sei persone che qui sono state ammazzate, è dire tutta la verità e dire pure tutte le verità che sono urticanti e che si ritiene che siano indicibili. Perché dire le cose a tempo scaduto poi rischia di essere un’azione inutile.

E allora io per prima cosa voglio fare seguito alle parole dei tre testimoni di giustizia che voi avete sentito poco fa, i quali parlavano delle disfunzioni dello Stato nella gestione delle vicende dei testimoni di giustizia. Possiamo aggiungere anche, nella gestione dei collaboratori di giustizia. Non devo certo ricordare l’omicidio commesso nelle Marche nelle vacanze di Natale scorso. Bene, in questo momento, in questo, non venti anni fa, a gestire collaboratori di giustizia e testimoni di giustizia, sotto l’egida del sottosegretario Luigi Gaetti che è l’uomo del Governo che ha avuto la delega per la lotta alla mafia, è un fedelissimo collaboratore di Bruno Contrada del 1992, il dott. Giuseppe De Salvo. Mi chiedo e chiedo a voi: è ammissibile, si può concepire, si può tollerare oggi, qui in Via D’Amelio, mentre ricordiamo Paolo Borsellino, che l’ombra di Contrada ancora oggi sia al Viminale a gestire la vita e, se del caso, la morte di testimoni e di collaboratori di giustizia? Io ritengo che sia una cosa indegna e fino a quando quell’uomo non viene tolto da lì, lo dico in faccia al presidente Morra, compagno di partito di Luigi Gaetti, mi dispiace, non avete proprio la possibilità di rendervi credibili. Non c’è. E questo, altro che cambiamento, questo è il peggior reazionarismo che sia possibile. Il peggiore di tutti. Perché sennò, altrimenti, rimane solo la propaganda. Abbiamo desegretato… avete reso accessibili atti conosciuti da decine, decine, centinaia di persone negli ultimi decenni. Chiusa la premessa. Continuiamo nella verità.

Perché poi nel processo Borsellino quater, di che cosa parlavamo se non dei depistaggi fatti anche dal Sisde nel 1992? Quell’uomo, Giuseppe De Salvo, era il capocentro del Sisde della mia città nel 1992, a Messina. È mai possibile che il “Governo del Cambiamento” lo tiene lì? Ma con quale faccia potete fare una cosa del genere?

Strage di Stato. Vedete, io ho provato a spiegare l’enormità della sentenza emessa il 20 aprile 2017 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta con un paragone storico. Io non so se ero nato, stavo nascendo o avevo emesso i primi vagiti ma a seguito della strage di Piazza Fontana un libello che si chiamava “La strage di Stato” non era altro che il prodotto di un bollettino di controinformazione, peraltro contenente parecchi errori, ma era controinformazione rispetto ai depistaggi di Stato. Nel 2017 una sentenza ha scritto che quella è anche una strage di Stato ed è scritto in una sentenza emessa in nome del popolo italiano, all’esito di un processo che Salvatore ha raccontato un sacco di volte e meriterebbe ampia trattazione. Perché quella sentenza è meritoria e io ritengo che sia stata la nostra vittoria, Salvatore. Quel processo l’hanno vinto due parti: la parte civile Salvatore Borsellino e l’imputato Vincenzo Scarantino. Perché fino all’ultimo giorno di quel dibattimento, nelle repliche del Procuratore della Repubblica dott. Bertone la Procura aveva fatto di tutto perché Scarantino, costretto a firmare verbali di cose che non sapeva in nessun modo, fosse condannato dopo essere stato vessato, torturato e davvero coartato con ogni mezzo illecito. Gli unici due che sostennero che sarebbe stata una vergogna di Stato la condanna di Vincenzo Scarantino furono Salvatore Borsellino e il difensore di Scarantino. Nessun altro degli esponenti dell’accusa pubblica (la Procura della Repubblica) e privata (tutte le altre parti civili) fecero una cosa del genere. E qui, allora, aggiungo un’altra cosa a quella verità sulla strage di Stato. Perché voi ricorderete che era il 2007 quando tutto è nato qui in relazione a queste manifestazioni che ogni anno ci vedono convergere in questo luogo, era il 2007 quando gli italiani lessero un documento scritto da Salvatore Borsellino: “19 luglio 1992: una strage di Stato”. Ma voi ricordate quali furono le reazioni contro Salvatore Borsellino? Fu preso pubblicamente per pazzo dai migliori “maîtres à penser” dell’antimafia. Era un pazzo a sostenere quelle cose. Era tanto un pazzo che quelle cose, dieci anni dopo, le abbiamo trovate scritte in una sentenza.”

Repici ha poi evidenziato come sia stato scandaloso che la Commissione regionale antimafia, che si è occupata del depistaggio di Via d’Amelio, non abbia mai audito Salvatore Borsellino.

Fabio Repici: “E aggiungo, perché è il mio carattere, io seppure piccolo ho l’inclinazione all’elefante nelle cristallerie, c’è stata anche un’inchiesta della Commissione antimafia regionale sulla strage di Via D’Amelio e sui depistaggi che ne conseguirono. Bene, ma qualcuno di voi lo sa che Salvatore Borsellino non è stato audito, non è stato convocato da quella commissione? A voi pare una cosa minimamente commendevole? E sapete perché? Ve lo dico io. [Rivolgendosi a Salvatore Borsellino] No, non perché sei pazzo, perché ormai purtroppo a quella calunnia hanno dovuto abdicare. Per un altro motivo. Che collaboratore di quel presidente è il figlio del Procuratore della Repubblica di Caltanissetta che aveva replicato contro di te: Vittorio Bertone, figlio del dott. Amedeo Bertone. Collabora con il presidente della Commissione antimafia regionale e ha omesso di convocare il fratello di Paolo Borsellino. Questo per dire qual è il livello delle cose e per dire anche, e permettimi Peppino se chiamo in causa anche la tua categoria, qual è il disastro della situazione in questo momento in cui certe verità indicibili cominciamo a leggerle nelle sentenze (Corte d’Assise di Caltanissetta 20 aprile 2017, Corte d’Assise di Palermo 20 aprile 2018 sentenza sulla trattativa) e come queste cose, invece, come se passasse la scolorina, non le leggiamo poi sui giornali. C’è qualcuno di voi che sa che come se fosse un’unica cinghia di trasmissione c’è un collegamento tra la Commissione antimafia regionale e la Procura della Repubblica di Caltanissetta? Che a convocare i testimoni della commissione sia il figlio del Procuratore? Fosse accaduto con Berlusconi e, che ne so, Nordio o qualcuno dei magistrati che amava lui, cosa sarebbe successo? La rivoluzione in piazza. E invece, lo fanno quelli che stanno ufficialmente dalla nostra parte e nessuno lo racconta. Questo per dire un’altra cosa, e poi mi taccio perché già ne ho dette troppe. Noi abbiamo raggiunto davvero, a livello giurisdizionale, e secondo me seguiranno ancora perché c’è un processo in corso a Reggio Calabria, quello di cui si sta occupando il dott. Lombardo, ‘ndrangheta stragista, dei risultati davvero impressionanti che pochissimi pensavano che sarebbero stati raggiunti, davvero pochi. Io ero uno dei pochi che testardamente dicevano “guardate che si può arrivare”. Ma eravamo davvero pochi. E ora che quei risultati sono arrivati e che certe sentenze, in modo rivoluzionario rispetto alle aspettative di alcuni, scrivono quelle cose, è arrivato un nuovo momento, al quale dobbiamo stare attenti. Lo dico da operatore dei processi e da testimone privilegiato di certe vicende. Ormai il negazionismo non ha più residenza nel nostro Paese. Non ci sarà più nessuno che potrà dire “no, è una teoria balzana quella di pensare che è stata solo Cosa Nostra a Via D’Amelio, che è stata solo Cosa Nostra a Firenze, Milano, Roma, che è stata solo Cosa Nostra a Capaci, eccetera, eccetera, eccetera”. E poiché quel discorso non è più fattibile, ne sta subentrando un altro. Sta cominciando un discorso che è di “intossicazione investigtiva”. E così leggiamo, oggi, che si svegliano dei vecchissimi collaboratori di giustizia e raccontano un nuovo vangelo che però ha alcune caratteristiche che, a guardare le sfumature, lasciano impressionati. Scompaiono, anche lì, come con la scolorina, alcuni soggetti sul cui ruolo erano state raccolte risultanze insuperabili circa il loro compito di raccordo fra organizzazioni criminali e apparati deviati dello Stato, essere proprio loro gli “uomini cerniera”, che erano stati coloro che erano proprio al centro di quel biennio stragista-trattativista. Faccio un esempio: Pietro Rampulla, condannato con sentenza definitiva come l’artificiere della strage di Capaci, colui che secondo Giovanni Brusca il 23 maggio si giustificò per essere assente perché aveva un impegno di famiglia. E quindi non poté andare a Capaci, dopo essere stato lui a organizzare tutto. Io mi chiedo se anziché nella collinetta vicino a Brusca non fosse nei pressi, all’insaputa di Brusca a fare il suo vero lavoro. Il punto è che nuove risultanze investigative che noi leggiamo con recuperi di memoria di pentiti “intossicati” e cosa ci vengono a dire? Che l’uomo che aveva imparato a fare le stragi sotto la sua militanza nell’eversione neofascista erano uomini che in realtà non hanno partecipato alle stragi, che non avevano alcuna competenza tecnica. Questo lo abbiamo letto in atti recenti. E guardate che se prendete i terminali di queste operazioni di “intossicazione investigativa” che sarà “intossicazione giudiziaria” gli uomini, le sedi, i soggetti, sono sempre gli stessi. Si può fare una cartina che si ripeterà sempre, di anno in anno, sempre le stesse figure. E qui, e concludo davvero, mi permetto di segnalare a proposito della diserzione dell’informazione, e anche della politica, e anche delle commissioni antimafia, nazionale e regionale, del luogo che più di tutti in questo momento è la centrale di quella intossicazione: Barcellona Pozzo di Gotto. Il luogo dove fu ucciso l’otto gennaio 1993 Beppe Alfano, proprio perché aveva messo il dito in quell’agglomerato che non era trattativista perché non c’era bisogno. Lì, il capo mafia e il capo delle organizzazioni istituzionali erano la stessa persona. Ecco, su Barcellona Pozzo di Gotto che è la base di molti dei discorsi che hanno portato alle stragi (io vi ricordo che il telecomando per la strage di Capaci partì proprio da lì) e anche alle stragi del 1993, Gabriele Chelazzi una gran parte del suo lavoro l’aveva fatta proprio su Barcellona Pozzo di Gotto prima di morire. Di Barcellona Pozzo di Gotto non si ricorda più nessuno. Ci si occupa di vicende poco amene come il “sistema Montante”, come se fosse la questione che decide oggi gli equilibri criminali e in realtà si fa una penosa propaganda che serve proprio a distogliere lo sguardo e l’attenzione dai problemi più reali.

Giuseppe Lo Bianco: Quali sono i buchi neri, oggi, sui quali è possibile concentrare un’attenzione investigativa con un minimo di possibilità di successo?

Fabio Repici: “I buchi neri sono parecchi. Il primo è proprio quello a cui si alludeva all’inizio. Non è pensabile che l’operazione depistaggio che è stata ideata prima ancora della strage sia addebitabile unicamente alla responsabilità di Arnaldo La Barbera e dei suoi subordinati. Non è possibile. E allora il primo buco nero è la filiera gerarchica del Viminale fino alle superiori stanze. Guardate che, fosse accaduto in un altro paese, io non so cosa sarebbe successo, ma Agnese Borsellino ha dichiarato a verbale sotto giuramento che tornando da Roma, dalle stanze del Viminale, suo marito due settimane prima di essere maciullato le disse “Al Viminale ho respirato aria di morte”. Cioè, non dice di averla respirata al fondo Magliocco o al fondo Favarella, al Viminale! Cioè, al Palazzo della Polizia! Dove era stato convocato giusto mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, e lo stava interrogando quasi con il contrario avviso del Procuratore Giammanco, che gli aveva negato fino a quel momento la coassegnazione del fascicolo e aveva mandato un collega a controllare l’operato di Paolo Borsellino, per dirla tutta. Perché le dobbiamo dire tutte. E, tornato da lì, nel momento in cui aveva raccolto da Gaspare Mutolo le confidenze su quali fossero i pericoli attuali in quel momento, e gli fa sicuramente due nomi. Uno è Bruno Contrada. Cioè l‘uomo che il 20 luglio viene chiamato dal Procuratore Tinebra a partecipare al depistaggio. Bruno Contrada era l’oggetto delle attenzioni investigative di Paolo Borsellino. E l’oggetto delle sue attenzioni investigative viene chiamato a investigare sulla sua uccisione. Illegalmente, cioè fuori dalla legge. Con una storia che, peraltro, è rimasta un altro buco nero. Ma come mai è possibile che un minuto e quaranta secondi dopo l’attentato, al largo delle acque di Palermo, in barca, Bruno Contrada, anzi un compagno di Bruno Contrada, riceve per telefono la notizia dell’attentato. Com’è possibile?! Eppure, questo è avvenuto. E allora, la prima cosa è la filiera gerarchica. E guardate che non sono tutti morti. Perché non è vero che sono tutti morti. Il Vicecapo della Polizia dell’epoca che è vivissimo, sembra una riedizione di Giulio Andreotti, proprio somaticamente, fisiognomicamente, l’abbiamo sentito qualche mese fa al dibattimento del processo Bo. E guardate che fu responsabile di una delle vicende più incredibili collegate all’uccisione di Paolo Borsellino. Perché, vedete, a fare le indagini furono chiamati i peggiori funzionari di Polizia dall’esterno. Uno è quel dott. Vincenzo Ricciardi la cui testimonianza rimarrà veramente pietrificata nel processo Borsellino quater. Beh, Paolo Borsellino prima di morire aveva richiesto la collaborazione di un altro funzionario di Polizia che si chiamava, si chiama per fortuna, Calogero Germanà. Calogero Germanà, da funzionario della Criminalpol a maggio stava investigando su una vicenda che aveva molto a cuore Paolo Borsellino e che probabilmente ci consente di individuare anche l’amico che l’aveva tradito, secondo le parole dei suoi colleghi Camassa e Russo. Si tratta del tentativo di aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile, laddove ci fu il notaio massone Pietro Ferraro che in accordo con un tale Enzo della corrente di Calogero Mannino, che era il senatore Enzo Inzerillo, uomo del clan dei Graviano, clan di Brancaccio. Bene, il dottore Germanà investiga su quelle cose, deposita una informativa alla Procura di Marsala e viene chiamato due ore dopo dal Vicecapo della Polizia e convocato immantinente al Viminale. E gli viene chiesto spiegazioni su quella attività. Due settimane dopo gli arriva la comunicazione che dalla Criminalpol si deve trasferire, è trasferito, al commissariato di Mazara del Vallo. Cioè, gli fanno fare un salto di carriera all’indietro di otto anni, perché l’aveva abbandonato nel 1984 quel commissariato che egli aveva diretto. E che cosa succede a settembre? Succede che arrivano Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro insieme, gli Harlem Globetrotters di Cosa Nostra, e fanno il più spaventoso in quanto a qualità, mai visti tanti capi mandamento insieme a sparare. Mai! Mai successo in nessun omicidio eccellente! Mai! Vanno lì a sparare a quel commissario. Spedito lì da chi? Dal Viminale. Beh, queste sono cose che in realtà sono già documentate. Eppure su questo nessuno è stato chiamato a rispondere. Ma è mai possibile che con tutte le cose che sono successe intorno a Via D’Amelio e al depistaggio ancora oggi la Polizia non ha chiesto ufficialmente scusa e non ha messo fuori tanti soggetti che si sono resi responsabili di quelle vicende? È mai possibile? Terza cosa, perché si dovrebbe fare un’enciclopedia, e se la faccio io ne viene una alla Bouvard e Pécuchet, quindi lasciamo stare, ma guardate che fra le tante cose che acutamente segnalava il Procuratore Generale che sono ancora dei buchi neri, c’è il buco nero dei buchi neri. Che ancora oggi lo Stato non è stato capace di dire chi è l’uomo che ha premuto il telecomando che ha provocato la strage. Non si sa! In via deduttiva, forse, se è corretta una certa interpretazione di alcune circostanze, si ritiene che sia stato Giuseppe Graviano. Ma in via deduttiva. E non si sa se è stato Giuseppe Graviano e dove era. Perché, perdonatemi, e qui la chiudo, io escludo, tranne che in quel caso Giuseppe Graviano poteva essere assolto con una perizia per incapacità di intendere e di volere, che Giuseppe Graviano potesse essere dietro quel muretto a fare esplodere qui la strada con il rischio di fare un suicidio. E allora io vi confesso che ogni anno che vengo qui io sento qui incombente quella presenza di quel sito, di quel Castello Utveggio che è il luogo in cui uomini di Cosa Nostra si incontravano con uomini del Sisde e della Polizia di Stato. Ormai le risultanze sono innumerevoli su questo. Ed era il Sisde di Contrada e dei suoi uomini, non tutti morti e non tutti fuori dai giochi, e la Polizia di Stato. Su questo ci sono tante altre vicende che potrebbero essere coinvolte, delle quali si dovrebbe parlare, ma non è opportuno farlo in questa sede e in questo momento. Ma questi sono i buchi neri. E il principale è probabilmente l’anello golpista di quella storia, e cioè la Polizia di Stato e il Viminale.”

 

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LINK esterno:

Scarpinato: ”La strage di via d’Amelio opera di una criminalità del potere”, Redazione AntimafiaDuemila, 19 luglio 2019

 

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