18 agosto 2025 – Il dibattito sulla ‘Ndrangheta a Reggio Emilia ha recentemente trasceso la mera cronaca, addentrandosi nella complessa sfera storica e socio-antropologica. L’affermazione che il cambio del nome di una via, proposta lanciata pubblicamente alla città dall’ex Prefetto Antonella De Miro, non sia la soluzione per sconfiggere la ‘Ndrangheta è, di per sé, ovvia.
Tuttavia, se si supera la superficialità di chi vorrebbe liquidare la contesa affermando che in città le priorità siano altre e di chi vuole liberarsi del passato come di un inutile fardello lasciandosi prendere dall’insensata urgenza delle imminenti scarcerazioni, ci si accorgerà che la disputa attorno al cambio del nome non è una “oziosa dissertazione estiva”. Al contrario, essa rivela con ancora maggior chiarezza, il carattere proteiforme di un’organizzazione come la ‘Ndrangheta e di tutti quei soggetti che, a vari livelli, si pongono al suo servizio. Non soltanto zona grigia, ma tutto quel substrato di cultura mafiosa che le garantisce di continuare ad agire indisturbata.
Per comprendere tutto questo, sono stati utili i differenti contributi di figure di spicco nel contrasto alla criminalità organizzata, arricchiti da importanti riflessioni emerse sui social media. Riflessioni significative, sia a favore che contro il cambio del nome.
A queste voci si sono aggiunte quelle del ex-sindaco e il segretario del PD di Cutro, a seguire un consigliere regionale della Calabria e il candidato sindaco di Crotone. Tutte hanno decisamente contestato la posizione dell’ex Prefetto De Miro, definendola offensiva e lesiva della dignità dei cutresi per i quali, la sola ipotesi di rimuovere il nome della via intitolata a Cutro, sembrerebbe più offensiva del vedere associato il nome del comune calabrese a fatti di mafia. A Reggio Emilia, prima che De Miro rivelasse la natura ‘ndranghetista dell’organizzazione criminale locale, ci si riferiva ad essa semplicemente come “Cutro”, e bastava pronunciare “cutresi” per generare timore. Ci si chiede, dunque, come mai nessuno dei politici che ora cavalcano l’onda dell’onorabilità ferita sia insorto o abbia mai suggerito al comune di Cutro di costituirsi parte civile nei processi.
Come attivisti/e antimafia riteniamo quantomeno singolare che associazioni che hanno sede fuori provincia e addirittura fuori regione e che si dichiarano impegnate nella lotta alle mafie, intervengano nel dibattito opponendosi fermamente alla proposta dell’ex Prefetto, ergendosi a difesa della collettività cutrese reggiana che nessuno ha mai offeso né colpevolizzato. Forse andrebbe loro chiarito il contesto in cui ha avuto origine “Viale Città di Cutro”: un momento storico nel quale la ‘Ndrangheta reggiana pretendeva di fare il bello e il cattivo tempo in città, cercando sponda anche nell’imprenditoria e nella politica locale.
E la politica reggiana? Per ora non si è espressa ufficialmente, ma a farlo è stato il comitato scientifico della Consulta per la Legalità del Comune, composto da figure di altissimo livello. Delle loro opinioni, finora, sappiamo solo ciò che trapela dalle parole del sindaco Massari riportate dai giornali che parlano di un’ipotetica “soluzione integrativa”.
Come gruppo Agende Rosse e come cittadini chiediamo che i pareri del comitato scientifico, e la conseguente posizione della Giunta del sindaco Massari, siano resi pubblici. Albertina Soliani, presidente dell’Istituto Cervi, in un suo intervento sulla stampa, chiede: “dove sono ora i cuori coraggiosi?”.
Il nostro auspicio è che la politica giunga compatta alla decisione di cambiare il nome, rimettendo in discussione una scelta toponomastica che rifletta una decisa azione di contrasto alla criminalità organizzata, tutt’altro che sconfitta. L’attuale nome offre la possibilità alle cosche di esibirlo come simbolo di conquista a detrimento di tanti cutresi onesti che, per tale ragione, da quella via non si sentono rappresentati. Un importante atto simbolico di svolta rispetto a una pagina della storia reggiana oggi tristemente nota e documentata, che non ci lascia più alibi.
Agire con coraggio lo si deve a quelle donne e a quegli uomini che in questi dieci anni si sono impegnati a proprie spese, esponendosi in prima persona, per combattere la cultura mafiosa e il suo radicamento a Reggio Emilia, una parte di quel cuore coraggioso a cui fa riferimento Albertina Soliani è lì. Non riconoscere questo, seguendo la via politica del “quieto vivere”, significherebbe abbandonare gli attivisti e i cittadini a loro stessi.
In questo senso abbiamo accolto la sollecitazione di De Miro e riteniamo dovrebbero accoglierla tutti. Uniti, come si deve essere di fronte a un attacco che colpisce tutti indistintamente, di fronte al quale dobbiamo sentirci tutt* cittadin* di Reggio Emilia, senza inutili campanilismi, paventando assurde discriminazioni o addirittura demonizzazioni di carattere etnico come qualcuno ha scritto. Uniti, facendo fronte comune contro coloro che utilizzano l’argomento della presunta discriminazione nascondendosi nell’ombra di una “cutresità” indistinta, agendo in modo indisturbato e silenzioso.
Uniti, perché il monito del collaboratore di giustizia Antonio Valerio non lascia dubbi: “Non illudetevi che la ‘ndrangheta sia finita con l’operazione Aemilia. A Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso, sotto uno stato di assedio e di assoggettamento ‘ndranghetistico che non ha eguali perché nemmeno i terroristi arrivarono a tanto. Non è finito niente”
Movimento Agende Rosse Gruppo di Reggio Emilia e Provincia
