
di Francesco Caruso (Presidente del Collegio Giudicante del Processo Aemilia, già Presidente dei Tribunali di Bologna e Reggio Emilia) Reggio Emilia, 8 novembre 2025
La presenza diffusa nel territorio reggiano di una potente organizzazione mafiosa non è solo un fatto criminale; comporta anche la diffusione di modelli e valori altri rispetto a quelli storici del territorio.
Dai processi celebrati registrano condanne per centinaia di persone, per il reato di associazione mafiosa e per una miriade di reati qualificati dall’aggravante di agevolazione dell’associazione mafiosa o di impiego del metodo mafioso o comunque consumati nel medesimo contesto.
Le sentenze hanno accertato l’insediamento nel territorio di decine di famiglie ‘ndranghetiste, nel senso stretto del termine e in quello allargato della visione familista del mondo, tipica dell’organizzazione mafiosa.
Ciò significa che in questo territorio sono presenti in numero consistente mafiosi e persone che sono o si considerano:
- parenti, affini, sodali;
- padrini, madrine, compari di anello;
- o solo compaesani di mafiosi.
Le indagini e i processi hanno dimostrato che al culmine della sua espansione quest’organizzazione ha puntato a condizionare scelte politiche, economiche, culturali e informative, ottenendo consensi in settori della società reggiana.
I collaboratori di giustizia di Aemilia hanno spiegato che la storia che avevano vissuto non era di estraneità al contesto cittadino. La struttura di cui avevano fatto parte si poneva come articolazione, sottosistema, per certi versi spavaldamente alternativo alla storia della città, sfidata e messa in discussione dalla modernità mafiosa, presentata come in espansione nel mondo.
A chi si ostina a sottolineare il significato epocale del processo Aemilia, i suoi effetti non solo sul piano della repressione del crimine mafioso ma sul piano culturale, simbolico, sociale, si risponde a volte con malcelata insofferenza, quasi sia stato il processo e non la realtà che esso ha disvelato a turbare gli equilibri della città.
Reggio Emilia è città simbolo della resistenza al fascismo. Il fascismo fu espressione di un modello politico criminale simile alle prime bande private mafiose al servizio dei signori, dei baroni, dei politici malavitosi della Sicilia e della Calabria della seconda metà dell’Ottocento.
In antitesi al modello fascio/mafioso, Reggio è stata città del progresso sociale avanzato, della solidarietà, della democrazia.
In questa realtà si è esercitata la penetrazione dal basso del modello di una mafia imprenditrice, capace di contendere l’egemonia culturale delle istituzioni cittadine, da sostituire con il culto della forza, dell’intraprendenza illimitata, del diritto del più forte, del più furbo, del più capace di violare impunemente le leggi e di piegarne l’applicazione.
Il processo Aemilia ribalta l’ordine mafioso che andava sovrapponendosi alla struttura tradizionale della società reggiana. Un ordine basato sui vincoli tribali di una famiglia allargata, unificata dalle radici territoriali comuni che esigono fedeltà, rispetto, assoggettamento e omertà, imposti anche dalla comune condizione di emigrazione in una terra straniera.
La leadership mafiosa detta la linea per l’emancipazione nella nuova polis. Un’emancipazione che non consiste nel rifiuto dei valori oppressivi della società di origine ma in alcuni casi nell’immedesimazione nella capacità dei paesani mafiosi di imporre le proprie regole, il proprio ordine nel nuovo contesto, con ciò arricchendosi e dimostrando di potere competere per il potere, trasformandosi, da umili emigrati, in orgogliosi colonizzatori.
Come si sa, i profeti vengono uccisi dalla polis che li rifiuta perché rivelano il suo male oscuro e “indicano una strada che separando come una spada il vecchio dal nuovo, divide e rompe l’ordine esistente. Cristo viene ucciso dalla polis che dovendo scegliere tra il patriota/compaesano Barabba e lui sceglie Barabba.” (Scarpinato)
È questo il destino che in questa vicenda è capitato alla prefetta De Miro.
Una personalità che ha avuto la capacità di sancire che la ndrangheta cutrese non era solo una organizzazione criminale ma era soprattutto affinità culturale e sociale, alleanza economica, scambio di favori, egemonia e controllo dell’economia a mezzo imprese satelliti. Un sistema di famiglie mafiose che si sostengono a vicenda e di cui possono entrare a far parte anche imprese locali attratte dal successo del modello.
La vita quotidiana della mafia è pericolosamente vicina a quella di tanti normali cittadini e in talune occasioni è stato davvero difficile, per l’oggettiva ambiguità delle vicende, fissare nette linee di separazione tra comportamenti:
- leciti e illeciti;
- tra modelli culturali devianti o solo corrivi;
- soggiacenza o concorso. Ingenuità o mala fede.
Su questo la giustizia si è arrovellata e alla fine ha soluzioni prudenti e garantiste rispetto al paradigma legale. Nondimeno questi fatti si giudicano non solo col paradigma della legge ma anche con quello della responsabilità politica e morale. E non sono soggetti ad oblio, almeno per ora.
L’organizzazione mafiosa che ha preso possesso del territorio vi esercita quindi non solo un dominio criminale ma un condizionamento politico al quale l’organizzazione tiene ancor più che alla ricchezza. Ciò avviene attraverso simboli, propaganda, discorsi paraculturali e parasociali. Tende ad assumere un’egemonia culturale destinata progressivamente a essere anche politica.
In una ricerca di oltre venti anni fa su una polis mafiosa come Corleone emergeva che persino in ambienti impegnati nell’associazionismo civico, il collegamento tra il nome di Corleone e la mafia era guardato con fastidio e tendenzialmente rifiutato. Eppure, nessuno poteva sottrarsi a quella connessione in uno scenario palese di violenza, sangue, prevaricazione. Si osservava come gli interlocutori cercassero di contrapporre ad una identità disdicevole una memoria orgogliosa. Si circoscriveva il fenomeno, nella speranza di un cambiamento apportato dal processo e dalle condanne, nel nuovo positivo impegno civico. Una ricerca che potrebbe essere ripetuta a Cutro e a Reggio Emilia.
Ma a Reggio che non è Corleone il problema è più semplice: come isolare culturalmente una mafia che si nasconde dietro gli “onesti cittadini”, e impone l’omertà?
Il controllo mafioso entra in maniera pervasiva nella quotidianità degli abitanti della polis che stentano alla fine a distinguere i veri e propri soprusi mafiosi da atteggiamenti alimentati dalla generale cultura della sopraffazione e della violenza prevaricatrice per i quali cresce l’assuefazione.
Si è parlato di mafiosi involontari, categoria semplicistica ma utile a definire alcuni comportamenti privati e pubblici. Vi è invece necessità di fare riferimento a cittadini che abbiano il coraggio di rompere schemi e legami tradizionali che la cultura mafiosa contribuisce a perpetuare.
Fare i conti con il proprio passato, recuperare la memoria, per quanto dolorosa. Guardare il proprio mondo con gli occhi degli altri, senza cercare attenuanti o giustificazioni, diverse dallo studio senza pregiudizi della vicenda storica in cui si è formata la propria identità personale. Fare i conti con le emergenze processuali, non rinnegarle, sottovalutarle, ridimensionarle.
Solo così si può evitare l’ignavia nei confronti del fenomeno mafioso, rifiutando di prendere posizione contro i simboli della conquista mafiosa, relegando “la dimensione mafiosa in una alterità che mitizza e assolve dalle responsabilità collettive”.
L’acquiescenza, l’omertà e la convivenza quotidiana con la mafia affondano le radici in una subcultura condivisa, accomunata dal sentire mafioso. Per sentire mafioso si intende l’adesione inconscia a modelli culturali determinati dalla presenza della mafia, dei suoi costumi, metodi, pretese.
Bisogna vincere la retorica del borgo natìo come centro del mondo, così come la riproposizione di differenze culturali spesso inventate, esasperate, amplificate e magnificate, rivendicate dalla mafia per nascondere la sua natura criminale.
Vorrei richiamare anche qui il libro di Nando Dalla Chiesa e Federica Cabras, Rosso mafia, la ndrangheta a Reggio Emilia, un libro che spiega come l’emigrazione cutrese a Reggio Emilia sia stata sin dall’inizio segnata dall’attivismo e dall’egemonia culturale sui compaesani esercitata dal clan mafioso, i cui uomini hanno accompagnato la migrazione dei lavoratori, alcuni dei quali, i più intraprendenti, come ha raccontato Antonio Valerio, divennero poi organici alla cosca.
Il processo migratorio ha quindi prodotto un trasferimento di persone, ma anche di vincoli e modelli di condotta imposti dall’organizzazione mafiosa.
I due studiosi sottolineano come la ndrangheta reggiana sia un’organizzazione criminale che esprime e forma una determinata mentalità, frutto di una specifica cultura, frutto di una storia di oppressione e violenza. Questa cultura ha la pretesa di affermarsi all’esterno del gruppo, utilizzando lo stesso potere di intimidazione che sorregge la sua forza economica. Dispone così anche di risorse simboliche, politiche, sociali, ed è letteralmente definita nuovo “movimento sociale di conquista” che forgia un formidabile sentimento di identità culturale di un popolo, pur in maggioranza non formato da ndranghetisti ma anzi da oppressi.
L’oppressione culturale dei calabresi da parte della ndrangheta deriva dai vincoli della compaesanità, vincoli ferrei, accettati, cui effetti gli autori spiegano, e la cui violazione “evoca l’onta del tradimento”.
Possiamo così spiegare quella “rete di reciprocità” che dal 2010 si traduce negli imbarazzanti interventi contro le interdittive.
Dalla Chiesa e Cabras spiegano cosa sia la “compaesanità” in azione:
“i parenti si aiutano, gli amici anche, i compaesani pure. Ancor di più i compaesani con cui si è in debito diretto o indiretto per averne ricevuto un lavoro per il proprio figlio o fratello, o un appartamento in cui sistemarsi al primo arrivo, o la soluzione di un problema burocratico o addirittura di un piccolo problema giudiziario. Impossibile negare loro un favore che non costi nulla. Anzi, che possa aiutare altri compaesani. Come negare il voto al candidato che promette che “farà lavorare le imprese calabresi?” […] Come negare il proprio appoggio, le proprie conoscenze, per fare ottenere a un compaesano un favore innocente, come lo ricevono tutti, una licenza, una casa popolare, una perizia accomodante, una promozione alla maturità, sapendo che questo suonerebbe tradimento verso lo spirito di appartenenza alla propria comunità?”
Ne discende che non bastano i processi, le condanne, la mobilitazione antimafia a parole. È necessario incidere nel profondo, nella cultura che alimenta la riproduzione dell’organizzazione mafiosa attraverso il controllo sui compaesani, tramite l’ideologia comunitaria che alimenta lo spirito dell’essere tutti “paesani”.
Veniamo al nodo: L’intestazione di una importante arteria cittadina alla “Città di Cutro” voleva essere occasione per “costruire un rapporto fondato sul rispetto della legalità, sulla capacità di stare insieme, sulla laboriosità”.
I presupposti su cui quel rapporto doveva essere costruito sono venuti a mancare e bisogna ripartire su basi diverse nel costruire i rapporti tra le comunità.
Quella denominazione per molti è diventato un simbolo negativo. Un nome scelto per dare riconoscimento al lavoro onesto, alla fratellanza nazionale, ai valori della solidarietà, oggi è associato alla mancata percezione dell’affermazione di una potente organizzazione mafiosa che, mimetizzandosi dietro l’emigrazione di massa, ha acquisito posizioni di potere economico, inquinando in parte l’economia e il costume.
La denominazione Viale Città di Cutro ricorda non solo i cittadini onesti ma anche i mafiosi, veri protagonisti dell’insediamento, con i loro delitti, la violenza sistemica, la corruzione dell’economia, i miliardi frodati al fisco, il riciclaggio, gli omicidi, le estorsioni, l’usura, gli incendi le violenze, l’omertà e il silenzio degli estorti e dei collusi.
Non si tratta di praticare riti di espiazione. Nessuno in questa vicenda è esente da colpe. Gli imprenditori e i cittadini autoctoni i che si sono rivolti alla ndrangheta e ne sono rimasti affascinati per la sua capacità di contrastare e aggirare lo Stato e di servirsene, sono stati innumerevoli. A tutti costoro la ndrangheta ha dato una prospettiva politica e culturale. È un fatto che il più determinato, risoluto autore del maggior numero di delitti di sangue sia stato un reggiano al servizio delle cosche locali.
Se è necessario riconoscere i valori espressi dall’emigrazione, bisogna farlo richiamando non una generica origine territoriale ma le positività che da quel territorio provengono, cominciando dalla resistenza alle mafie e ai tanti martiri calabresi della lotta alla mafia, per finire con le proposte di oggi, in particolare quella del prof. Dalla Chiesa.
È necessaria una manifestazione di solidarietà nei confronti del territorio di accoglienza. Una sorta di giustizia riparativa tra cittadinanze.
Riconoscere che la ndrangheta cutrese ha tentato la conquista di Reggio Emilia, nascondendosi dietro l’emigrazione, il lavoro sfruttato, l’intimidazione a tappeto dei concittadini, la mentalità mafiosa che si è andata diffondendo anche tra i reggiani doc, a conferma che non si è mafiosi per origine ma lo si diventa quando si creano le condizioni per l’affermazione di un’organizzazione di quel tipo.
Bisogna che la denominazione toponomastica “Cutro” sia associata a uno specifico valore positivo, altrimenti è solo il nome della ndrangheta reggiana.
