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Salvatore Borsellino: Con l’improcedibilità prevista dalla Riforma Cartabia lo Stato rinuncia a esercitare la Giustizia

Pubblichiamo l’intervento di Salvatore Borsellino nel corso della conferenza stampa tenutasi lo scorso giovedì 29 luglio 2021 presso la Camera dei Deputati, per la presentazione dell’appello:
“Riforma Cartabia: ingiustizia di forma e di merito”.

 

«Ringrazio Piera Aiello e la Presidenza della Camera che ci dà l’opportunità di parlare in questa sede Istituzionale.

Sono Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, ma sono qui come cittadino italiano e come fondatore e leader del Movimento delle Agende Rosse, un movimento fatto soprattutto di giovani, che ha come suo principale e quasi esclusivo obiettivo la Verità e la Giustizia sulle stragi del ’92 e del ’93 che hanno insanguinato il nostro paese.

Soltanto come fratello di Paolo non avrei nessun diritto di parlare, e di parlare in questa sede, perché con mio fratello non ho molto in comune.

Paolo era un magistrato, con un senso altissimo dello Stato, e ha scelto di rimanere al suo posto anche quando si è reso conto che pezzi deviati di quello stesso Stato a cui aveva prestato giuramento, stavano per dare alla criminalità mafiosa l’ordine di ucciderlo, ha scelto di sacrificare la sua vita per poter cambiare quello che di questo paese, che tanto amava, non gli piaceva e non poteva piacergli.

Io ho ho scelto una professione che sapevo che mi avrebbe portato via dalla mia terra, ho scelto, sbagliando, di cercare per me e per i miei figli un “altro paese”, lasciandomi alle spalle tutto quello che non mi piaceva, e ho avuto da sempre nel cuore una vena libertaria se non addirittura anarchica, ma proprio per questo ho sempre avuto fede nell’amore e nella Giustizia, amore e Giustizia che erano lo stesso sogno di Paolo, quel sogno che nostra madre, dopo la strage, fece giurare a me e mia sorella Rita di sostenere finché avremmo avuto vita.

E questa riforma che noi oggi contestiamo va in senso esattamente contrario a quel sogno di Giustizia.

La sua genesi viene da lontano, da quando nel 1992 lo Stato Italiano ha rinunciato ad essere uno Stato di diritto arrivando a trattare con la criminalità organizzata, elevandola con questa trattativa alla dignità di una controparte dello Stato stesso e rinunciando così alla propria dignità.

Sacrificando sull’altare di questa scellerata trattativa la stessa vita di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, facendo sparire la sua Agenda Rossa e, ed è una ipotesi agghiacciante ma plausibile, dandola addirittura in pegno alla controparte criminale come pegno del mantenimento dei patti sottoscritti per addivenire a quel ripristino della pax mafiosa che non servì peraltro ad evitare, prima della sua conclusione, altre stragi.

I passi per arrivare a tutto questo vengono da lontano, da quando è stato fatto cadere un governo soltanto per potere annullare quella riforma della Giustizia, varata dal governo Conte, che seppure perfettibile, bloccava però la prescrizione sul primo grado di giudizio, assicurando che tutti i reati potessero essere perseguiti e tutti i processi potessero essere portati a compimento.

Ora, con il pretesto di ottemperare ad una richiesta dell’Europa che altrimenti ci negherebbe i fondi del Recovery Fund, invece di agire in maniera da sveltire i processi, di potenziare gli organici della magistratura, lo Stato rinuncia di fatto ad esercitare la Giustizia inserendo un concetto giuridicamente abnorme come l’improcedibilità.

Lo Stato nega la Giustizia ai cittadini vittime di un reato, e allo Stato stesso, se il processo di appello non si conclude in un tempo determinato, lasciando così l’imputato in uno stato di limbo, condannato ma non definitivamente, e rinunciando così ad esercitare il proprio ruolo e a rendere giustizia ai cittadini colpiti dal reato stesso.

Cittadini che Giustizia non potranno mai più pretendere e dichiarando, come Stato, la propria impotenza.

Si viene a creare così, anzi si aggrava perché già esistente, una profonda diseguaglianza tra i cittadini sottoposti a processo, da un lato i semplici cittadini i cui processi arriveranno a concludersi nei tempi stabiliti, e dall’altro i potenti, quelli che si potranno permettere avvocati in grado di allungare fino a due anni i tempi dei processi fino ad ottenere la improcedibilità.

Non si tiene conto poi della differenza tra le diversi sedi dei processi di appello, alcune delle quali soffrono di una cronica carenza di organico che già di per sé rende spesso la durata dei processi ben superiore ai due anni, termine dichiarato per lo scattare della improcedibilità.

Si prepara così l’impunità per chi approfitterà della enorme quantità di fondi in arrivo dall’Europa per dirottarli verso gli interessi della società criminale piuttosto che per la ripresa dell’economia nazionale e per il bene comune dato che nel frattempo, in nome della emergenza, si sveltiscono le procedure e si diminuiscono i controlli.

E intanto si introduce un altro concetto devastante che cozza contro il principio Costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e affida al Parlamento, violando il principio costituzionale della separazione dei poteri, la scelta della priorità dei reati da perseguire.

E per riuscire ad ottenere tutto questo si svilisce il ruolo del Parlamento e si elimina, per un progetto di tale importanza, la discussione in aula ponendo il voto di fiducia, e tutto questo all’inizio dell’estate, in un momento di scarsa attenzione dell’opinione pubblica, la stessa scelta un tempo adottata dalla criminalità mafiosa per compiere le sue stragi.

Siamo purtroppo alle Termopili, è una battaglia disperata ma le battaglie, se giuste, se sacrosante, vanno in ogni caso combattute ed è quello che faremo, chiamando a raccolta la Società Civile, fino alla fine.

Ed è per questo che chiedo a tutti quelli che con il loro voto decideranno l’esito di questa riforma, anche a quelli che l’hanno improvvidamente votata in Consiglio dei Ministri, di volerla fermare, di non distruggere il sogno di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone, altrimenti non osino più, in futuro, di pronunciarne neanche il nome.»

Salvatore Borsellino

 

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