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AEmilia – un maxi-processo dalla portata storica

Aggiornato a: febbraio 2019

Nella notte fra il 28 e il 29 gennaio 2015 scatta l’operazione AEmilia che porterà all’arresto di 240 persone e all’intervento di 200 militari fra Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Un’operazione dalla portata storica che porterà al più grande maxi-processo per mafia al nord.

Nell’arduo tentativo di sintetizzare un processo molto complicato, pubblichiamo alcune slide utilizzate nei nostri incontri.

Paolo Borsellino diceva “Parlate della mafia, parlatene alla radio, in televisione, sui giornali, però parlatene.”
Oggi amiamo pensare che avrebbe aggiunto: parlatene sui social, sul web… ovunque possiate! E questo pensiero ci ha fatto compiere la scelta comunicativa che vedrete proseguendo la lettura di questa sintesi.

Nota: cliccare sulle foto per ingrandire le slide

Per arrivare al processo Aemilia dobbiamo partire dal 1956.

Com’è cominciato il radicamento delle cosche al nord?
(27 DICEMBRE 1956) Viene emanata la legge sui sorvegliati speciali con obbligo di soggiorno. Questa legge, pensata per indebolire le cosche, è stata invece concausa del radicamento delle cosche mafiose in regione.
“Quando si tireranno le fila della presenza pluridecennale nelle zone dell’Emilia-Romagna si vedrà che nell’arco di un trentennio, dal 1965 al 1995, i soggetti segnalati per la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e obbligo di soggiorno hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 2.305. Essi sono sicuramente molti di più se si considerano le cifre fornite dal Presidente della Commissione antimafia Luigi Carraro che, come si è visto, prendono come punto di riferimento il 1961. Ai dati forniti dal Direttore della DIA andrebbero aggiunto quelli compresi nel periodo 1961-1964.”

(Fonte: Quaderno 29 – 2004 – a cura del Servizio promozione e sviluppo delle politiche per la sicurezza e della polizia locale regione Emilia-Romagna)

Concausa, ma sicuramente non effetto scatenante, poiché un radicamento di questo tipo non sarebbe stato possibile se questi soggetti non avessero trovato l’accoglienza benevola ricevuta da colletti bianchi, imprenditori e classe politica.

“Pecunia non olet”

Il denaro non puzza, ed ecco che dal 1958 in poi la ricca Emilia-Romagna ha visto il passaggio di diversi boss mafiosi, dei quali qui ne citiamo solo alcuni:

PROCOPIO DI MAGGIO – È il primo soggiornante obbligato approdato in terra Emiliana, a Castel Guelfo (BO) nel 1958. Agli inizi degli anni ‘50 era stato membro della banda di Al Capone. È sfuggito a due tentativi di omicidio nel 1981 e nel 1991 e a un salto dal terzo piano di un istituto di correzione americano. Si racconta che fosse stato aiutato dal cugino Joe Di Maggio, famoso giocatore di basebell e marito di Marilyn Monroe. Parentela però sempre smentita dal boss. Tornato in Italia, riprovò a tornare in America nel 1970, ma venne espulso, lui disse perché clandestino, le autorità americane dissero invece “perché è pericoloso”. Subentrato, dopo la sua espulsione, al boss Tano Badalamenti nel 1981, appoggiato dai corleonesi di Riina, venne condannato nel maxi-processo istituito dal pool antimafia. Latitante fino al 1986, venne accusato di essere, fra le altre cose, uno dei mandanti dell’omicidio di Salvo Lima nel 1992. Nel 1996 rilascia una intervista: “Non ho mai sentito parlare di Cosa Nostra se non dai giornali e dalle tv. Certo i morti in questi anni ci sono stati a Palermo e qualcosa per spiegarlo ci deve essere, ma di mafia non ho sentito parlare. E poi i pentiti? Sono vigliacchi di personalità”. Il 6 gennaio 2016 Procopio Di Maggio compie 100 anni, e per festeggiarlo il cielo di Cinisi, lo stesso cielo di Peppino Impastato, si è acceso di fuochi artificiali. Unico padrino della Cupola ancora in libertà, muore il 3 giugno 2016. Il figlio Gaspare Di Maggio è ancora in carcere, l’altro, Giuseppe, è stato ucciso nel 2000 vittima di lupara bianca.

(Fonte: Lettera 43)

GIACOMO RIINA – nasce a Corleone nel 1908, zio di Totò Riina e di Luciano Liggio. Per meglio descriverlo riportiamo alcuni brani tratti dal libro di Enrico Deaglio “Besame Mucho – Diario di un anno abbastanza crudele” (ed. Feltrinelli – 1995).
«Proprio lui, lo zio di Totò Riina, aveva vissuto in paese per ventitrè anni e lavorato per una ditta di materassi. Un signore aveva visto, con i propri occhi, il giudice Borsellino che lo arrestava nella piazza centrale del paese. Quando? “Sarà stato il 1980, e con lui c’era anche quel capitano che poi ammazzarono a Palermo … Come si chiamava? Ah, sì, il capitano Basile“».
«Dicevano che a Budrio e i paesi vicini – Cento, Medicina – fossero da almeno vent’anni luoghi di convegno dei mafiosi siciliani, che erano diventati ricchi, circolavano con le Ferrari, trafficavano armi, droga, davano rifugio ai loro latitanti. “Lo sa che Budrio ha la più alta percentuale di Ferrari di tutta Italia?” mi dissero.»
Scrive ancora Enrico Deaglio: «Strana storia. Quando ho letto sul giornale che il vecchio Riina – 86 anni – se ne stava isolatissimo, a San Vittore, sono tornato a Budrio a farmela raccontare per bene. E altri pezzi della storia li ho raccolti a Milano, a Firenze, a Bologna, in Sicilia. E’ tutto vero. Ho ascoltati magistrati, poliziotti, finanzieri e ho raccolto due grossi fascicoli di carte.»
Deaglio intervista nel 1994 Walter Nepoti segretario dell’allora Pds locale: «”Giacomo Riina? Un omarin. Non saprei descriverlo, statura media, ben vestito, riservato. Senza capelli, con gli occhiali”. Era arrivato in soggiorno obbligato con la moglie. Presero in affitto un appartamento in via Cocchi. Lui usciva la mattina presto, diceva che andava a lavorare come elettricista. Aveva un’Aprilia nera, che poi cambiò con una Lancia Fulvia, sempre nera. Aveva un ragazzo che gli faceva da autista. Nel paese questo ragazzo lo chiamavano “Inchino”, perchè quando apriva la porta della macchina era molto cerimonioso.»
«A ventiquattro anni aveva conosciuto il carcere per il ratto violento di una ragazza. Faceva parte della banda di Luciano Liggio, di cui era lo zio, e aveva sposato un’altra Liggio, Maria Concetta.
Negli anni Quaranta e Cinquanta fu uno dei protagonisti della guerra di mafia da cui uscirono vincenti “i liggiani”, armi alla mano, qualcosa come duecento cadaveri dei loro nemici al cimitero e la convinzione di essere “la famiglia” più potente di tutte, praticamente onnipotente. E tra i giovani Liggio e i suoi luogotenenti, Provenzano, Bagarella, Totò Riina, lo “zio Giacomo” era già un punto di riferimento: uomo maturo, provato, affidabile. Venne arrestato insieme a tanti altri corleonesi nel 1964 e come tutti gli altri fu processato, prima a Palermo e poi a Bari. Un lungo processo che terminò con una scandalosa assoluzione generale e l’invio degli imputati in soggiorno obbligato in piccoli paesi sparsi per l’Italia. Alcuni ci andarono, altri no. Luciano Liggio prese la via di Milano, a organizzare sequestri di persona. Totò Riina e Bernardo Provenzano scelsero la latitanza in Sicilia. Lo zio Giacomo, 61 anni, si presentò puntuale con la moglie ai carabinieri di Budrio e li si sistemò.» Correva l’anno 1969.
“Era amico di quello dei materassi”
, ricorda Nepoti. E racconta che già da diversi anni si era stabilita a Budrio una famiglia di Catania. “Vendevano materassi andando in giro con i furgoncini. Passavano con gli altoparlanti, si fermavano nelle piazze dei paesi, dove le loro voci e le loro presenze rappresentavano un piccolo avvenimento. D’estate arrivavano fino alle spiagge della Romagna. Si erano organizzati con una specie di polizia interna; cioè, erano loro stessi che vigilavano che i ragazzi non creassero problemi in paese. Giacomo Riina lavorava per loro, faceva il contabile della loro ditta“.»
«Nel 1979 a Palermo, accade che i carabinieri, inseguendo una banda di mafiosi, entrassero in una casa trovandoci molte “risultanze” interessanti. In particolare furono colpiti da una fotografia: un gruppo di uomini sorridenti, davanti a un casolare di campagna. Alcuni li conoscevano: Antonino Gioè, mafioso di Palermo; i fratelli Giulio e Andrea Di Carlo, mafiosi di Altofonte; un uomo anziano, Giacomo Riina di Corleone. E infine uno che non avevano mai visto, un signore dall’aria distinta e con i capelli bianchi. Così Paolo Borsellino, che allora era sostituto procuratore della repubblica, ed Emanuele Basile, che comandava i carabinieri di Monreale, salirono al Nord, arrivarono fin nella piazza di Budrio e si riportarono a Palermo il vecchio zio Giacomo per interrogarlo. Giacomo Riina negò su tutta la linea, lo rilasciarono e se ne tornò a Budrio, a riprendere la vita di prima. Però il capitano Emanuele Basile venne ucciso, appena un mese dopo, mentre con il suo bambino in braccio andava in piazza per la festa di Monreale. L’uomo con i capelli bianchi raffigurato nella foto era importante, però. Era Lorenzo Nuvoletta, capo della camorra di Napoli, in rapporti di buon vicinato con l’ex ministro dell’Interno Antonio Gava
«Un fatto analogo successe due anni dopo, all’inizio del 1982, quando il vecchio Riina venne arrestato a Budrio per ordine del sostituto procuratore di Trapani, Giacomo Ciaccio Montalto, che lo accusava di essere coinvolto nell’omicidio di due mafiosi trapanesi in un paese toscano, Gambassi. Gli chiese un sacco di cose, il giudice, gli fece una quantità di nomi, che Giacomo Riina disse di non aver mai sentito. Lo rilasciarono e Riina scrisse un lungo resoconto di quell’interrogatorio, una specie di diario intitolato Una piccola disavventura che mi è successa nel 1982, perchè si sapesse che cosa gli era successo, che nomi gli erano stati fatti, come lui aveva risposto, e quanto lo avesse perseguitato quel sostituto procuratore, che lo interrogava fumando la pipa. Giacomo Ciccio Montalto aveva scoperto ad Alcamo la più grande raffineria di eroina d’Europa e indagava sulle direzioni prese dalla massa di denaro che quella raffineria aveva prodotto. Non potè continuare le indagini perchè venne ucciso, in un agguato a Trapani all’inizio del 1983. »
«Giacomo Riina interpreta il «confino» come un incarico per conto di Cosa nostra, interessata, già all’inizio degli anni settanta, a estendere il proprio potere al Nord. Raggiunto quasi subito da un buon numero di parenti che si sistemarono in poderi agricoli vicini, Riina prese a coordinare una vasta rete di attività. Riina si riservava inoltre la supervisione generale degli equilibri di potere delle famiglie mafiose. Ha gestito delitti e composizioni finanziarie all’interno delle cosche. Ha protetto latitanti, ha commerciato in stupefacenti con la Turchia, in armi con la Croazia, in denaro falso e in esplosivi, ha visto morire uccisi molti suoi nemici e i persecutori che si erano messi sulla sua strada, da Giovanni Falcone a Paolo Borsellino, dal capitano Emanuele Basile al sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto».
«A Budrio che per anni l’aveva tenuta sotto silenzio, ora tutta la storia è conosciuta. Compresi i rapporti di dimenticati marescialli che già lustri fa avevano segnalato tutto quanto stava succedendo. Non se ne parla volentieri, perchè è difficile spiegare come un insediamento mafioso abbia potuto agire per più di venti anni, praticamente indisturbato, nell’Emilia democratica».

Fonte: Enrico Deaglio “Besame Mucho – Diario di un anno abbastanza crudele” (ed. Feltrinelli – 1995)

TANO BADALAMENTI – Nel novembre del 1974 a Sassuolo in provincia di Modena ogni giorno venivano consegnate presso l’albergo Leon d’Oro ceste di arance e di pesce provenienti dalla Sicilia. Le ceste venivano aperte e il loro contenuto cucinato e servito la sera stessa per un ristretto numero di invitati. Queste cene venivano offerte dall’ospite che soggiornava all’attico dell’ultimo piano. Il suo nome era Gaetano Badalamenti, meglio conosciuto come don Tano. Don Tano, siciliano di Cinisi, era a Sassuolo al confino di polizia perché ritenuto “persona socialmente pericolosa”. Ciò comportava per lui l’obbligo di non abbandonare il territorio comunale e di soggiornare nell’albergo dove sarebbe stato periodicamente controllato dalle forze dell’ordine.  Pur essendo storia di quarant’anni fa in molti se lo ricordano. Un uomo che non rideva mai, una persona elegante, dai modi distinti, educato e generoso con tutti, in particolare con gli avventori abituali del bar dell’albergo: così lo descrivono alcune persone che cenarono con lui ma che preferiscono rimanere nell’anonimato. Ne esce insomma il quadro di una persona all’apparenza per bene e abitudinaria. In tanti confermano il fatto che la presenza del boss sul nostro territorio non ebbe nessun effetto visibile; non procurò mai fastidi e non tentò di organizzare intorno a sé una rete malavitosa, nonostante i legittimi timori della polizia e dei politici locali. Al massimo ci si ricorda di lui per alcuni comportamenti “particolari”.  Sappiamo che si faceva servire dal barbiere soltanto quando il locale era vuoto e che, mentre attendeva, rimaneva seduto stando ben attento a non dare mai le spalle alla porta d’ingresso. Tutto questo all’apparenza. Bedini e Martignoni, due giornalisti di Sassuolo che si sono occupati di ricostruire la storia del soggiorno di Don Tano, scrivono: “Parliamo con un sacerdote che abitava a Sassuolo in quegli anni, il quale pur non volendo essere nominato perché “con persone così non sa mai”, ci racconta di quando, una mattina, un autotrasportatore sassolese gli chiese se aveva notizia di qualcuno che affittasse un appartamento in centro a Sassuolo. Ne aveva bisogno per un suo conoscente e la questione era piuttosto urgente. Il conoscente, naturalmente, era don Tano. Il sacerdote non si ricorda come andò a finire ma proprio in quel periodo il padrino di Cinisi fu raggiunto a Sassuolo dalla moglie e dai due figli e si trasferì in un comodo appartamento in via Pia. Qui c’era un giovane capitano dei carabinieri che, come disse lo stesso Badalamenti ai magistrati siciliani – «mi trattava come un delinquente». L’ ufficiale aveva paura che don Tano organizzasse dei sequestri di persona al Nord, il boss chiese aiuto a Nino Salvo e, così, bastò una telefonata ai potenti cugini a Palermo perché all’ufficiale fosse raccomandato dai suoi stessi superiori di trattare don Tano come un ospite di riguardo. Il sorvegliato speciale diventò all’ improvviso un ospite di riguardo. Una raccomandazione «dalla più alta autorità dei carabinieri in Sicilia» il colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso dai Corleonesi, trasformò il soggiorno obbligato di Gaetano Badalamenti solo in un soggiorno. Purtroppo, di questo capitano alla caserma dei Carabinieri di Sassuolo non c’è traccia. Pur risalendo ai militari allora di stanza nella caserma cittadina, non si riesce a parlare direttamente con nessuno. Alcuni sono morti, di alcuni si sono perse le tracce, e altri, pur vivendo ancora a Sassuolo, non vogliono parlare con noi nemmeno al telefono. Sulla presenza di Badalamenti a Sassuolo però non si riescono a consultare documenti scritti: non sono accessibili quelli in caserma mentre quelli dell’archivio riservato del Comune saranno visibili  50 anni dopo la morte del soggetto, ovvero nel 2054. Don Tano passò a Sassuolo poco più di due anni, poi tornò in Sicilia. Da qui, alla fine degli anni settanta, fu costretto a fuggire in sud America, ricercato dalle forze dell’ordine e bersaglio della guerra di mafia scatenata dai corleonesi. Del suo “soggiorno obbligato” a Sassuolo rimangono indubbiamente più ombre che luci. Don Tano Badalamenti, che ha collaborato all’epoca anche con Lucky Luciano, è stato protagonista del traffico di stupefacenti tra Europa e Stati Uniti, implicato nella famosa inchiesta chiamata ‘Pizza Connection’, riuscì a mentenere anche dopo il 1974 un ruolo importante all’interno di Cosa Nostra, riuscendo anche a far arrivare nel modenese persone della famiglia e personaggi legati al suo clan. Indimenticato rimane il blitz del 1985 quando la polizia catturò a Carpi di Modena Vito e Natale Badalamenti insieme ad altri componenti del clan mafioso come Filippo e Vincenzo Rimi e Michele Chirco, il quale aveva perfino aperto una ditta di camiceria nella zona. Si disse che quella attività d’imprenditore fosse una copertura per altre attività  illecite, soprattutto l’individuazione di cascinali da trasformare in rifugi per gli affiliati della mafia bisognosi di nascondersi. E nel ‘75 proprio a Sassuolo incontrò Nino Salvo, ‘vicerè’ di Sicilia, agevolato da un’allora ufficiale dei carabinieri. Badalamenti fu poi tradito dall’amico più caro Tommaso Buscetta, ‘don Masino’, che raccontò al giudice Giovanni Falcone la rete di potere di Tano; e soprattutto i rapporti con Nino e Ignazio Salvo, gli esattori della Sicilia che erano diventati il ‘polmone finanziario’ della DC isolana. Buscetta racconta a Falcone “Una volta Tano mi riferì che aveva incontrato Giulio Andreotti nel suo studio privato a Roma per aggiustare un processo e che Andreotti lo elogiò. Gli disse che di gente come lui (riferendosi a Badalamenti) l’ Italia ne aveva bisogno uno per ogni strada». Di Giulio Andreotti, sette volte presidente del consiglio si sente dire che è stato assolto dalle accuse di associazione a delinquere. Oggi il reato sarebbe “associazione mafiosa” ma all’epoca non esisteva ancora il 416 bis di Pio La Torre. La sentenza reale della corte di cassazione è prescrizione per il reato di associazione a delinquere, reato commesso fino alla primavera del 1980 per le accuse successive la corte lo assolve per insufficienza di prove. Dunque Andreotti, almeno fino al 1980 ha avuto rapporti con Cosa nostra. Secondo la Corte d’appello Andreotti, “con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. Don Tano dopo la carcerazione negli Usa, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe ‘Peppino’ Impastato. È morto in carcere all’età di 80 anni.

(Fonte: Il Sassolino.net Luca Bedini e Francesco Martignoni)

RAFFAELE DIANA “RAFILOTTO” – Arriva in soggiorno obbligato nel 1990 a Bastiglia (MO). Diana aveva organizzato un giro di estorsioni nel settore dell’edilizia in Emilia Romagna e in particolare nel Modenese. Viene arrestato nella sua abitazione di Bastiglia nel 2000 dove vive con la moglie e i quattro figli. Quattro anni dopo ottiene un permesso premio di tre giorni grazie a cui si da alla macchia e diviene uno dei 30 latitanti più pericolosi al mondo. Raffaele Diana è capozona per conto della cosca dei casalesi di Francesco Schiavone. Diana verrà catturato il 4 maggio del 2009 nascosto in un bunker a Casal di Principe. Gli agenti sfonderanno la parete di un sottoscala per catturarlo. In una sacca teneva due pistole e munizioni, un libro su padre Pio e l’immagine di San Nicola di Bari. Raffaele Diana è stato condannato all’ergastolo.

(Fonte: gruppo antimafia Pio La Torre)

NICOLA “ROCCO” FEMIA – Nel 2002 arriva a Conselice di Ravenna  Nicola Femia detto “Rocco”. Nel 2009 viene arrestato per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Nicola Femia viene inserito nell’indagine Anje, che riguardava enormi quantitativi di droga spinti lungo l’asse calabro-pugliese.  Per gli inquirenti esisteva un business gestito da narcos albanesi che avrebbero provveduto al costante rifornimento dei “fratelli” calabresi con cocaina eroina e marijuana. Nonostante fosse un personaggio conosciuto agli inquirenti Femia è riuscito a mettere in piedi un impero basato sul gioco d’azzardo, correndo sempre sul filo tra la legalità e l’illegalità. Quando non intestate direttamente a lui, le società facevano capo ai figli. Tutte le sue attività sono venute allo scoperto nel novembre 2011 quando la procura di Milano ha arrestato Giulio Lampada, secondo gli investigatori il braccio imprenditoriale al nord del clan Valle-Lampada. Anche lui calabrese, ma residente in Lombardia, Lampada aveva mantenuto contatti solidi nella sua terra d’origine anche con professionisti e uomini di Stato allo scopo di ottenere la concessione dei Monopoli, così da poter investire in sale Bingo. In un’intercettazione uscita durante le indagini il sistema pare chiaro: “Al 99% va a conclusione perché c’è Franco Morelli di mezzo… tutto il nord Italia… nel pacchetto c’è Milano, Venezia, la Liguria e Bologna,  fino a Bologna ci pigliamo appalti… fanno 50 richieste al mese… la sala giochi porta una media di soldi di 6/7 mila euro al mese. Stiamo parlando di slot.” Il Franco Morelli in questione è l’allora consigliere PdL della regione Calabria che verrà condannato a 8 anni per associazione esterna di stampo mafioso nell’operazione condotta dalla Dda di Milano. Operazione all’interno della quale verrà condannato anche il magistrato di Reggio Calabria Vincenzo Giglio per la sua vicinanza al clan Lampada. Giulio Lampada chiede l’aiuto dell’amico imprenditore “romagnolo”, Nicola Femia,  per l’installazione delle slot: “170 macchine complete sarebbe a dire 2.500 euro più Iva senza mettere i modelli né niente… alla cortese attenzione di Milano Games (una delle società del Lampada)”. Nicola Femia effettuerà l’operazione saldando questo ordine con la ditta di Massa Lombarda “Las Vegas Games”, intestata alla figlia. Quello che per i giornali locali era solo uno spacciatore, un calabrese arrestato per questioni di droga, si è dimostrato essere uno dei personaggi più importanti legati al gioco d’azzardo, con una rete di aziende capaci di collegare Calabria, Emilia-Romagna, Lombardia, fino a S. Marino dove venivano dirottate somme ingenti provenienti da guadagni illeciti poi dirottate verso altri lidi. Ma quello che è il dato più allarmante è che da parecchi anni sia le autorità giudiziarie sia la DIA avevano sollevato dubbi su Nicola Femia ma, nonostante questo, lui è  riuscito a creare indisturbato il suo piccolo impero economico operando nell’illegalità. La condanna alla famiglia Femia arriva nel febbraio del 2017. Vince su tutta la linea l’accusa nel processo black Monkey che vedeva alla sbarra fra gli altri imputati Nicola Femia ritenuto il capo dell’organizzazione e alcuni suoi famigliari. Nicola Femia, che insieme ad un altro imputato parlava di sparare in bocca al giornalista Giovanni Tizian, è stato condannato a 26 anni. Due mesi dopo, la decisione di Femia di divenire un collaboratore di giustizia (testimonierà anche in AEmilia – udienza 8 agosto 2017). Le sue rivelazioni hanno aperto nuove indagini attualmente in corso.
Fonte: Gruppo dello Zuccherificio – per la Legalità, per la Costituzione, per la Libera Informazione

 

ROCCO ANTONIO BAGLIO – Altro soggiornante obbligato è Rocco Antonio Baglio che arriva a Fiorano Modenese (Modena), dove vive a tutt’oggi, nell’aprile del 1979. Originario di Polistena in Calabria, considerato esponente della ‘ndrina Longo-Versace di Polistena, è lo stesso ai vertici del giro degli appalti truccati a Serramazzoni che ha visto implicato anche l’allora sindaco del Partito democratico, Luigi Ralenti. L’operazione Teseo ha portato al rischio di scioglimento per mafia Serramazzoni, piccolo comune dell’appennino modenese.  Nel gennaio di quest’anno Baglio è stato condannato a dieci anni per aver pilotato alcuni appalti pubblici: la ristrutturazione di uno stadio, di un polo scolastico e di una scuola. Condannati anche gli imputati che erano il braccio operativo di Baglio. Ne è invece uscito grazie alla prescrizione l’ex sindaco Ralenti. In soldoni è stata riconosciuta la corruzione, il corruttore è stato condannato, ma il corrotto se l’è cavata con una prescrizione.

 

Secondo l’osservatorio provinciale antimafia di Rimini si contano almeno 50 cosche operanti in Emilia-Romagna. Inquietante pensare che un processo così imponente ruoti intorno a una sola cosca. Mentre i riflettori sono giustamente accesi sulla cosca Grande Aracri, cosa stanno combinando le altre cosche approfittando del momento?

Concentriamoci ora sulla vicenda che ha portato ad AEmilia.

La faida fra i Dragone e i Grande Aracri

9 giugno 1982 arriva Antonio Dragone custode di una scuola elementare di Cutro e, a “tempo perso”, capo-bastone della rispettiva cosca. Arriva a Quattro Castella (RE) a bordo di una mercedes 3000, accolto e riverito da una trentina di affiliati già residenti nel reggiano. In brevissimo tempo fa affluire nella provincia di Reggio Emilia i familiari e i fedelissimi con le rispettive famiglie con i quali torna a dileggiarsi nelle sue attività preferite. E, per meglio spartirsi il territorio, organizza pure una sorta di “G7” con i boss Antonio Arena e Pasquale Voce. Tutti soggiornanti obbligati al nord.

Sintomatiche ed estremamente inquietanti la relazione del Questore di Reggio Emilia che nel 1983 ne chiedeva l’allontanamento ritenendo che la presenza di Dragone causasse un altissimo rischio di costituzione di associazione di tipo mafioso:

“L’oggetto della presente richiesta è il sodalizio sorto dal mandato di Antonio DRAGONE e diversi sono nel tempo le tracce che confermano detta linea di successione.

Si legga con attenzione la già citata nota del Questore di Reggio Emilia del 12.02.1983: nella stessa sono individuabili, come già osservato alla nota 13, elementi di fortissimo sospetto circa gli inizi della attività tipica attraverso la quale si descrive l’esercizio del controllo del territorio che è una delle condizioni di espressione della realtà mafiosa:

Codesto Tribunale di Catanzaro con decreto 14.5.1982 infliggeva al nominato in oggetto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della P.S. con l’obbligo del soggiorno nel Comune di Quattro Castella (RE) per la durata di anni due.
Il DRAGONE, munito di foglio di via obbligatorio della Questura di Catanzaro rifiutava i mezzi per raggiungere il Comune di soggiorno obbligato, ove si presentava regolarmente il 9 giugno 1982 dopo aver viaggiato a bordo di autovettura Mercedes 3000, prendendo alloggio a proprie spese presso la locanda Ristorante “La Maddalena” sita nel predetto Comune.

In data 11.7.1982 il prevenuto presentava a quest’Ufficio istanza intesa ad ottenere l’autorizzazione a recarsi presso i propri familiari residenti a Cutro per trascorrere un periodo di ferie (dal 13 luglio al 10 agosto 1982) in concomitanza della chiusura estiva della locanda.

Non avendo ottenuto quanto richiesto, il DRAGONE prendeva alloggio presso l’albergo “Bellini” sito in località “Mucciatella” di Quattro Castella, facendo presente di aver presentato ricorso per il soggiorno la cui udienza veniva fissata per il giorno 5 ottobre 1982 presso la Corte d’Appello di Catanzaro.
Dopo aver presenziato al suddetto procedimento e rientrato alla sede di soggiorno, il DRAGONE prendeva alloggio, unitamente alla famiglia, in un appartamento in affitto sito nella frazione Montecavolo di Quattro Castella.

Pur non svolgendo alcuna attività lavorativa, il DRAGONE veniva notato spesso in compagnia di giovani calabresi, principalmente oriundi di Cutro, di cui in questa provincia esiste una numerosa colonia e si sarebbe incontrato con MONTALTO Giuseppe da Siderno (RC), soggiornante obbligato nel Comune di Montecchio Emilia (RE) nonché con FELICIANO Giorgio, soggiornante obbligato nel Comune di Casina (RE) ed in atto abitante a San Polo d’Enza (RE).

La presenza del DRAGONE in Montecavolo di Quattro Castella provoca molte lamentele da parte degli abitanti della frazione che hanno manifestato l’intenzione di raccogliere delle firme al fine di ottenerne l’allontanamento.

Il 18 settembre 1982 il quotidiano “La Gazzetta di Reggio”riportava l’intervista che un anonimo soggiornante obbligato per motivi di mafia il quale, oltre a disapprovare l’istituto del soggiorno, rilasciava dichiarazioni lesive del prestigio delle Forze dell’Ordine. L’anonimo intervistato, identificato da parte del locale Gruppo Carabinieri per il DRAGONE, veniva denunciato a piede libero alla locale Procura della Repubblica ai sensi dell’art.290 C.P. per vilipendio alle istituzioni e alle Forze Armate.

Il 7.12.1982 il DRAGONE veniva fatto partire per Crotone per presentarsi alle ore 9 del 10 predetto mese presso quel Tribunale per un procedimento penale a carico, rientrando regolarmente alla sede di soggiorno il giorno successivo.

In data 3.11.1982 la Compagnia Carabinieri di Reggio Emilia procedeva in Montecavolo di Quattro Castella all’arresto in flagranza per illegale detenzione di pistola rinvenuta a bordo della propria autovettura e guide senza patente di PAVESI Franco di anni 25, fornaio, da Mantova, pregiudicato per furto e lesioni, il quale era in possesso di una fotografia del DRAGONE Antonio. Nel corso delle indagini emergeva che poco prima dell’arresto il Pavesi era stato in compagnia di OLIVERIO Pietro di anni 29 di Cutro ma residente a Mantova, fratello di OLIVERIO Francesco Giuseppe ed Antonio, nei confronti dei quali la Magistratura di Crotone aveva emesso comunicazione giudiziaria per l’omicidio di DRAGONE Francesco e BORRELLI Pantaleone nonché tentato omicidio del DRAGONE Antonio, consumato in Cutro il 13.1.1982.
L’OLIVERIO Pietro veniva pertanto denunciato per concorso in porto e detenzione abusiva di armi e munizioni ed arrestato il 20.12.82 inesecuzione di ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Reggio Emilia.

In seguito ad ulteriori indagini emergeva che il Pavesi Franco e l’Oliverio Pietro avevano in due occasioni tentato di uccidere il DRAGONE Antonio in Quattro Castella per cui il 5.2.1983 agli stessi, detenuti nella locale Casa Circondariale, veniva notificato altro ordine di cattura per tale delitto emesso dalla predetta Procura della Repubblica. Citato a comparire il 20.1.1983 davanti la Corte d’Appello di Potenza.

In qualità di imputato per un processo a carico, il DRAGONE Antonio chiedeva a quest’Ufficio di essere autorizzato a partire con alcuni giorni di anticipo allo scopo di interloquire con il proprio avvocato difensore, ed avere la possibilità di alloggiare per tutta la durata del processo nella propria abitazione sita in Crotone,raggiungibile in due ore di autovettura da Potenza. Mentre il Comandante la Stazione Carabinieri di Cutro segnalava che il prevenuto non disponeva di alcuna abitazione in Crotone, ma bensì in Cutro, il Presidente del Tribunale di Catanzaro rigettava la richiesta del permesso di recarsi a Crotone e soggiornarvi durante il processo di Potenza. Per cui il DRAGONE, reso edotto del diniego, rifiutava di presenziare al dibattimento senza allontanarsi dalla sede di soggiorno obbligato.

Pervenivano frattanto in questo Ufficio numerose segnalazioni che il DRAGONE Antonio oltre a ricevere nel suo alloggio di Montecavolo di Quattro Castella numerose visite di corregionali, è solito avere al seguito cinque o sei elementi che si alternano con altri ogni 4/5 giorni,facendo notare chiaramente di essere addetti alla sua sorveglianza tallonandolo, fiancheggiandolo e seguendolo a coppie, facendoglicomunque compagnia per tutto il giorno.

I predetti inoltre sono soliti occupare per lunghe ore l’unico apparecchio telefonico pubblico della frazione sito all’interno di quel Bar – Cooperativa, tenendolo a loro disposizione fino a che il DRAGONE non sia disposto a fare telefonate, che si dilungano permolto tempo, ovvero a riceverne, impedendo a chiunque di fruire dell’utenza.
Sovente, sta all’interno del Bar – Cooperativa, sia sulla pubblica via, il DRAGONE si fa notare ad elargire forti somme di denaro con biglietti da 100.000 lire ai suoi fidati, estraendo dalle tasche grossi pacchetti di banconote di tale taglio.
Tale comportamento denota, senza ombra di dubbio, che il DRAGONE si trova a suo perfetto agio in questa provincia per la presenza di una numerosa colonia di compaesani in grado di offrirgli ogni forma di assistenza, ed all’occorrenza, manovalanza perperpetrare qualsiasi azione poco chiara.

Inoltre le larghe possibilità finanziarie e le numerose conversazioni telefoniche fanno ritenere che lo stesso continui le, sue attività poco chiare.

Indipendentemente dai due tentativi di omicidio messi in opera indanno del DRAGONE Antonio, si rappresenta il pericolo costituto dalla presenza in questa provincia, fortunatamente finora indenne dal fenomeno mafioso, di una numerosa colonia di cutresi, molti dei quali disoccupati e ancora non integrati nel sistema di vita locale, i quali,coagulandosi attorno al prevenuto, potrebbero costituire una associazione di tipo mafioso.

Si segnala pertanto quanto sopra al Signor Presidente del Tribunale di Catanzaro e al Ministero dell’Interno perché valutino la possibilità di trasferire il DRAGONE Antonio in altra sede di soggiorno obbligato, il più lontano possibile da questa provincia.”

Nel 1983 Dragone finisce in carcere e vi rimarrà per venti anni. Il 10 maggio 2004 viene ucciso con alcune raffiche di kalashnikov a Cutro mentre viaggiava sulla sua auto blindata. Nel luglio del 2018 la Corte d’Assise condanna in appello Nicolino ed Ernesto Grande Aracri alla pena dell’ergastolo. Esecutore materiale, Angelo Greco, di 53 anni, è stato condannato in appello a 30 anni.

​Torniamo al 1983: le redini passano al nipote, Raffaele Dragone, affiancato da Nicolino Grande Aracri detto “mani di gomma”, killer dei Dragone. Fra i due iniziano i primi attriti su come gestire i traffici di droga. Gli equilibri fra le famiglie di ‘ndrangheta sono instabili: i Vasapollo e i Ruggiero tentano di farsi strada in contrapposizione con i Dragone/Ciampà. Scoppia una faida fra i due gruppi che si lascia dietro 28 omicidi realizzati e 18 falliti fra Emilia, Lombardia e Calabria.

 
 
21 settembre 1992 – Pieve Modolena (RE): Nicola Vasapollo viene ucciso sulla soglia di casa perchè considerato uno “scissionista” rispetto alla cosca Grande Aracri-Arena-Dragone.
22 ottobre 1992 – Brescello (RE): due finti “carabinieri” suonano alla porta di Giuseppe Ruggiero, un pregiudicato agli arresti domiciliari. Giuseppe Ruggiero, originario di Cutro, viene ammazzato. I mandanti sarebbero Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone.
Nel  marzo 1993  per l’uccisione a Brescello di Giuseppe Ruggiero vengono processati Domenico Lucente e Raffaele Dragone. Finiranno entrambi all’ergastolo. Domenico Lucente arriverà a impiccarsi nella sua cella. Finito all’ergastolo Raffaele Dragone, Nicolino prende le redini del clan. Ma la spartizione non sta bene al figlio del boss Antonio Dragone. Inizia così una nuova faida che si conclude a favore di Nicolino nel 1999 quando lo stesso arriva ad uccidere il figlio di Dragone. Dopo 20 anni Dragone esce dal carcere e si prepara alla vendetta nei confronti di Nicolino. Si riapre così una nuova faida. Si inizia a pianificare l’omicidio di Antonio Dragone, Nicolino Grande Aracri coinvolge anche alcuni personaggi oggi imputati in AEmilia. Il 10 maggio 2004 Antonio Dragone viene ammazzato. Per questo omicidio, all’interno del processo Kyterion, costola calabrese di Aemilia, sono stati condannati per essere stati riconosciuti come mandanti, Nicolino Grande Aracri e suo fratello Ernesto.
 
 
I numeri dell’operazione parlano da soli (vedi slide nr. 7)
Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti definisce l’operazione come “un intervento che non esito a definire storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord”. Le accuse, a vario titolo, sono di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti.
 
 
 
 
 

Gli interessi principali della cosca in Emilia

Sostanzialmente gli interessi della cosca sono quelli di stringere rapporti con: istituzioni, faccendieri, giornalisti, forze dell’ordine e politici.
Gli inquirenti analizzano ogni aspetto di una cosca che riesce a radicarsi perfettamente nel tessuto economico e imprenditoriale emiliano, entrando nel mondo dell’edilizia, nella gestione delle cave, nel settore dei trasporti, nel movimento terra e nello smaltimento dei rifiuti. Sono i lavori collegati alla ricostruzione post-sisma che fanno gola e che permettono, attraverso l’acquisizione di appalti pubblici e privati, di investire e reimpiegare i proventi illeciti della cosca.
E’ la politica alla quale si tenta di accedere ostacolando il libero esercizio del voto e stringendo patti con politici ed esponenti istituzionali in grado di favorire il consolidamento della presenza dell’associazione nel territorio.
Si evidenziano influenze sulle elezioni amministrative di Sala Baganza, Salsomaggiore Terme, di Parma, Bibbiano e Brescello che sarà il primo Comune in Emilia-Romagna commissariato per mafia il 20 aprile 2016.
Si evince che gli ‘ndranghetisti hanno facile accesso alla Questura di Reggio Emilia, dove c’è chi li riceve all’entrata e fa saltare loro la fila. Si organizzano feste e cene con appartenenti delle forze dell’ordine, questori, brigadieri, ispettori, commissari, marescialli, comandanti, generali. Queste sono le figure dalle quali alcuni imputati avrebbero ottenuto favori e informazioni in merito a indagini o accertamenti nei loro confronti.

 
Gennaio 2015: scegliamo di fare il più possibile da cassa di risonanza creando la pagina facebook “processo AEmilia” attraverso la quale ogni giorno pubblichiamo attraverso gli articoli di giornale, il procedere dell’operazione AEmilia.
 
Il 23 marzo 2016 si apre il processo con rito ordinario per 148 imputati. Essere in quell’aula e non poter riportare all’esterno ciò che accade risulta impossibile: decidiamo così di trascrivere in presa diretta tutto quello che accade durante le due udienze settimanali pubblicandolo in presa diretta sulla pagina facebook.
 
La rassegna stampa nel frattempo diventa sempre più cospicua: ogni mattina pubblichiamo tutte le notizie che riguardano l’attività delle cosche mafiose, le relative operazioni volte a contrastarle e tutte le iniziative antimafia di ogni movimento e/o associazione. Perché per sconfiggere questo maledetto cancro è fondamentale fare RETE.
 
Nel settembre del 2016 il materiale è così cospicuo che decidiamo di creare il sito web dedicato www.processoaemilia.com all’interno del quale riportiamo la trascrizione di tutte le udienze, i video, gli approfondimenti e la rassegna stampa e lo speciale Brescello dedicato al primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna di cui abbiamo seguito da vicino le vicende.
Il materiale da sbobinare (registrato durante le udienze) è di una importanza storica. Nel corso dei prossimi mesi provvederemo ad inserire le trascrizioni che per motivi di tempo non abbiamo potuto ancora pubblicare.
 

AEmilia e le sue innumerevoli diramazioni

Contemporaneamente ad AEmilia scattano due operazioni: Kyterion in Calabria e Pesci in Lombardia.
Da AEmilia partono nuove indagini: Aemilia ’92, Aemilia Bis, Aemilia ter.
Arriveranno poi le nuove indagini richieste dal presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso – che presiede egregiamente tutte le 195 udienze – per le 50 false testimonianze accertate nel corso del processo. Vi è inoltre la certezza, anche grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che le indagini non siano terminate e che questa sia solo la punta dell’iceberg.
 
 
 
L’organigramma della cosca al nord secondo l’ordinanza cautelare e le sentenze del rito abbreviato e ordinario
 
Antonio Gualtieri ha preso il posto di Romolo Villirillo poiché quest’ultimo faceva la cresta sugli introiti che sarebbero spettati alla cosca.
Per approfondire: udienza 27 maggio 2016
 
Il 20 luglio 2018 arriva la sentenza di secondo grado nel rito abbreviato del processo Kyterion: Nicolino Grande Aracri si “guadagna” l’ergastolo.
 
 

Ci sono collaboratori e “collaboratori”….

Durante lo svolgimento di AEmilia gli inquirenti possono contare sulla scelta di alcuni imputati che decidono di diventare collaboratori di giustizia. Le loro dichiarazioni sono attentamente riscontrate da indagini approfondite. Il primo è Giuseppe Giglio, considerato la mente economica della cosca, Paolo Signifredi, il commercialista di Nicolino Grande Aracri (all’interno del processo Pesci), poi Antonio Valerio, la mente storica della cosca al nord e infine Salvatore Muto braccio destro del capobastone Francesco Lamanna (processo Pesci).
Il 7 novembre 2017 ci prova anche Nicolino Sarcone, ma non viene creduto dagli inquirenti. Il 9 ottobre 2018 viene infatti condannato a 30 anni per gli omicidi di AEmilia ’92 e il 24 ottobre gli verrà confermata la condanna in Cassazione a 16 anni all’interno del rito abbreviato di AEmilia.
 
 
 
Durante lo svolgimento del processo abbiamo assistito a diverse strategie utilizzate dagli imputati e dai loro rispettivi avvocati.
Un leitmotiv che ci ha accompagnato per tutta la durata del processo, e non solo, è stato il continuo appellarsi a una fantomatica discriminazione nei confronti dei cutresi emigrati al nord, e alle continue esternazioni di AEmilia come di un processo mediatico che andava a colpire innocenti e onesti lavoratori.
Leitmotiv che si sono riproposti con ancora più forza in seguito alla sentenza di primo grado.
 
 
 
Strategia fallita, gli imputati ovviamente non sono tutti cutresi… e non hanno certo fatto tutto da soli:
“Al nord e in Emilia esiste una “borghesia mafiosa” fatta di “imprenditori, liberi professionisti e politici che ricercavano il contatto con la cosca in ragione delle ampie opportunita’ offerte dall’appoggio dell’organizzazione”.
Il professarsi totalmente innocenti ed estranei ai fatti non è una novità in questo tipo di processi.
In tutti i processi di mafia nessuno, collaboratori di giustizia a parte, si è mai autoaccusato di far parte di una associazione mafiosa. Insistiamo su un punto che riteniamo non sia ancora del tutto chiaro: vorremmo sfatare il mito che la mafia sia nelle “corde” unicamente della gente del sud. In AEmilia, come ha confermato anche Marco Mescolini, uno dei due magistrati della pubblica accusa, oggi divenuto il nuovo procuratore di Reggio Emilia, “sono stati i nostri imprenditori e politici emiliani a cercare l’appoggio dei mafiosi e non il contrario(vedi video all’interno). Doveroso inoltre ricordare che i meridionali, che letteralmente sono fuggiti da una terra bellissima, ma fortemente martoriata dalla presenza mafiosa, per cercare di rifarsi una vita lontani dalla paura, hanno purtroppo ritrovato qui gli stessi personaggi e le stesse situazioni. Gli appartenenti a queste cosche non hanno avuto neppure bisogno di “andare vestiti” – di tirare fuori l’arma – per minacciare queste persone poiché la loro nomea li precedeva. Invece, noi emiliani, li abbiamo cercati, questi maledetti, unicamente per avidità!
 
Sibillina la frase pronunciata dal collaboratore Antonio Valerio pronunciata alla 194esima udienza e rivolta a tutti gli imputati e non solo “Non sono le nostre origini la discriminante ma ciò che siamo: mafiosi e ‘ndranghetisti maledettamente organizzati”.
 
 
 
 
 
Fallita la strategia della discriminazione (anche se mai messa da parte), il 17 gennaio 2017 l’imputato Sergio Bolognino si alza in piedi e, a nome di tutti gli imputati, chiede di chiudere la porta al processo a giornalisti e a “quella pagina Facebook”, poiché a detta degli imputati, si sta assistendo a un linciaggio mediatico. La nostra pagina da fastidio: questo è un ulteriore incentivo per non mollare.
 
 
 
Il 19 gennaio 2017 il presidente Francesco Maria Caruso legge le sette pagine d’ordinanza in risposta agli imputati: la Corte dichiara inammissibile l’istanza presentata dagli imputati «per carenza dei presupposti normativi», il che significa che i giornalisti – e i nuovi strumenti di comunicazione, ovvero la nostra pagina Facebook – continueranno a rimanere nell’aula-bunker per raccontare quanto avviene nel maxi processo. Il processo rimarrà a porte aperte e accessibile a tutti.
 
 
 
Fallito anche questo tentativo si tenta con una strategia già collaudata in ogni processo di questo tipo, la negazione totale e assoluta: AEmilia non è mafia!
Il boss Nicolino Grande Aracri all’interno del processo Pesci arriva persino ad affermare di essere solo un contadino nonostante le innumerevoli operazioni che lo riguardano direttamente e indirettamente. Le più eclatanti: 2000 “Scacco matto” (condannato a 30 anni per essere stato riconosciuto il mandante di 5 omicidi), 2002 “Grande Drago”, 2003 “Edilpiovra”, 2005 “Pandora”.
 
 
 
Durante tutto l’arco del processo si insiste nell’affermare che non si tratta di mafia e tutti gli imputati si professano innocenti.
 
 
 
24 ottobre 2018: arriva la sentenza definitiva della Cassazione in merito al rito abbreviato: viene sancita definitivamente l’esistenza della cosca emiliana.
È mafia!
 
 
 
Queste le condanne definitive approdate in Cassazione. Dei 71 imputati del rito abbreviato, 46 approdano in Cassazione.
40 le condanne definitive e 2 le pene ridotte. 4 imputati ritorneranno in appello, fra questi Giuseppe Pagliani, unico personaggio politico che i magistrati hanno potuto portare a giudizio insieme a Bernini Giovanni Paolo il cui reato è finito in prescrizione. Quest’ultimo, ex assessore ai servizi per l’infanzia del comune di Parma, verrà poi condannato per concussione e corruzione aggravata nell’inchiesta Easy Money.
 
 
Viene messa quindi in atto un’altra strategia: l’intimidazione.
18 aprile 2018 – il collaboratore Signifredi viene trovato in località protetta e malmenato pesantemente da tre uomini che gli intimano di rettificare le sue dichiarazioni.
maggio 2018 – esce la notizia dell’intimidazione a Giuseppe Liperioti, cognato di Antonio Grande Aracri, uno dei fratelli di mano di gomma, anch’egli collaboratore di giustizia. Sulla porta di casa, in località protetta, trova un biglietto minatorio scritto con caratteri ritagliati da un giornale ed appiccicato con del nastro adesivo dove gli viene intimato di ritrattare, in caso contrario vi sarebbero conseguenze gravi per i suoi familiari.
8 maggio 2018Antonio Valerio dichiara in videoconferenza dalla località segreta in cui è ristretto, di essere stato minacciato anch’egli.
Rimane sospesa nell’aria una domanda inquietante: chi ha rivelato il luogo dove i collaboratori erano nascosti?
 
Durante le udienze abbiamo anche assistito alle testimonianze chiaramente difficoltose di alcuni testimoni totalmente impauriti. Grazie alla nuova inchiesta del gennaio 2018 si è scoperto che alcuni imputati utilizzavano un miniregistratore non solo per i propri “pizzini”, ma anche per inviare messaggi intimidatori ai testimoni che avrebbero dovuto comparire di fronte alla Corte di AEmilia.
 

 

L’imprenditore, il tecnico e il mafioso

Potrebbe sembrare il titolo di un film, ma purtroppo si tratta di triste realtà. Prima di inoltrarci brevemente nella storia della famiglia Bianchini per sintesi abbiamo suddiviso le figure degli imprenditori presenti in AEmilia in 3 tipologie:
  • l’imprenditore che si ritrova con un debito nei confronti di un altro imprenditore che a sua volta cede il suo credito al mafioso. E quindi questo imprenditore si ritrova improvvisamente alla porta il criminale che viene a battere cassa
  • l’imprenditore che per disperazione arriva a chiedere un prestito a una pseudo finanziaria o comunque appoggiandosi a una figura non proprio cristallina, magari consigliato da persone non esattamente in buona fede, e si ritrova invischiato in una rete dove si ritroverà a volte ad essere complice, involontario o meno, e quindi ricattabile, entrando in un circolo vizioso attraverso il quale l’unico modo per uscirne sarà non solo la denuncia ma anche la auto-denuncia
  • poi abbiamo gli imprenditori che vanno a cercare il mafioso per avidità

Anche in Emilia ci sono state  telefonate dove i mafiosi ridono parlando del terremoto e dei futuri affari che porterà la ricostruzione. A San Felice sul Panaro c’è una grossa azienda, la Bianchini Costruzioni, che ottiene subappalti dalle grosse cooperative e appalti diretti quando sono sotto i 40.000 euro. E come ottiene tutti questi appalti diretti? Grazie al responsabile dell’area lavori pubblici del comune di Finale Emilia che ha carta bianca dal sindaco Ferioli. Grazie alla più totale fiducia del sindaco, Giulio Gerrini fa il bello e il cattivo tempo in merito agli appalti sulla ricostruzione manovrando in modo che Bianchini possa accaparrarsi la maggior parte degli appalti. Bianchini si ritrova quindi tantissimo lavoro, ma non ha abbastanza personale. Sceglie di andarlo a prendere da Michele Bolognino – condannato in primo grado a 38 anni – uno dei capi della ‘ndrangheta che dalla provincia reggiana parte al mattino con i lavoratori e li fa lavorare a ritmi pesantissimi, senza cassa edile, TFR e contributi. La paga la decide Bolognino e se qualche lavoratore osa protestare, pistola alla testa e tutti zitti.

“Sono venuti dove abito e hanno contato i miei figli” – Gazzetta di Reggio 16 luglio 2018

Il testimone: “Minacciato dai calabresi” – Gazzetta di Reggio 19 aprile 2017

Trascrizione dell’udienza del 13 aprile 2017

Fonte: Ordinanza di applicazione di misure cautelari coercitive (Aemilia) – pagg. 106-107

Ma non è finita, perché c’è un fatto ancora più grave: Bianchini pensa bene di utilizzare il fibrocemento contaminato da amianto, pericolosissimo per la salute, trovato fra le macerie del terremoto. Per cosa lo utilizza? Per la pavimentazione del campo di accoglienza per i terremotati nella frazione di San Biagio e a Massa Finalese (MO), per il cimitero e la caserma dei vigili del fuoco di San Felice Sul Panaro (MO). E ancora: per la scuola media secondaria Zanoni (Concordia sulla Secchia – MO), la scuola primaria Dante Alighieri (Mirandola – MO), la scuola primaria Castelfranchi (Finale Emilia – MO), la scuola secondaria Carducci (Reggiolo – RE).

Poi c’è una montagna di detriti contaminati con l’amianto, lasciata nell’area accanto alla Bianchini a San Felice. Una montagna di 30 tonnellate delle 100 che si sono più o meno calcolate essere nelle zone elencate. Rimangono sotto un telo per 3 anni, un telo più che deteriorato (vedere slide) che lascia scoperto gran parte dei detriti in una zona ventosa accanto a tanti campi coltivati. Non ci sono i soldi per bonificare tutte le aree, si calcolano circa 20 milioni di euro. E allora, finalmente nel 2017 si mette una pezza, coprendo con un telo i detriti, un telo che ha una garanzia di durata di 5 anni. Questo significa che nel 2022 saremo di nuovo da capo. Un danno in termini economici incalcolabile e solo fra qualche anno ne scopriremo anche il reale e pesante prezzo in termini di salute. Per tutto questo Gerrini è stato condannato a 2 anni e 4 mesi per abuso d’ufficio, pena confermata in Cassazione. L’abuso d’ufficio è il grimaldello attraverso il quale le cosche entrano nelle amministrazioni comunali. La pena per questo reato gravissimo, a mio parere, dovrebbe essere ben più pesante.
Cuoghi, un ex sindacalista che dall’inizio degli anni Novanta opera nel settore ambiente dice di Bianchini: “Era un tipo chiacchierato, con frequentazioni politiche eccellenti nell’area centrista e solidi appoggi. Gli appalti li vinceva spesso”.
Bianchini Alessandra e Nicola – due dei tre figli della famiglia Bianchini – sono stati assolti, mentre il terzo figlio, Alessandro, è stato condannato a 3 anni in primo grado, contro i 12 anni e 10 mesi richiesti dai PM. Bianchini Augusto è stato condannato a 9 anni e 10 mesi e ad un anno di libertà vigilata (contro i 15 anni e 6 mesi richiesti dall’accusa), la moglie Bruna Braga a 4 anni (contro i 15 anni e 6 mesi richiesti dall’accusa).

 

AEmilia Ter

Fra le varie indagini in corso abbiamo l’inchiesta AEmilia Ter della quale siamo in attesa di maggiori informazioni su coloro che verranno rinviati a giudizio.
Ci è però dato sapere ciò che è stato dichiarato in aula nell’udienza del 28 marzo 2017 dal maresciallo Emidio D’Agostino del nucleo investigativo di Modena che ha sottoposto alla Corte video e intercettazioni sconcertanti attraverso cui si evinceva che:
– il funzionario Giuseppe Marco De Stavola prelevava documenti dalla cassaforte del prefetto per consegnarli ad Alessandro Bianchini
– l’avvocatessa Giancarla Moscattini riferiva ai Bianchini delle riunioni in prefettura per discutere il caso Bianchini, notizie riservate sulle quali poi la famiglia fondava i propri esposti
– in un video girato dallo stesso Alessandro Bianchini si evince che l’allora senatore Carlo Giovanardi, membro della comissione antimafia e avezzo a difendere le imprese raggiunte da interdittiva antimafia, fosse al corrente delle false fatturazioni e della presenza del boss Bolognino Michele nei cantieri della Bianchini
– che lo stesso Carlo Giovanardi avrebbe corretto l’istanza preparata dai Bianchini da presentare in prefettura, eliminando di proposito il nome di Bolognino
Dall’11 aprile 2017 siamo in attesa della decisione della Corte Costituzionale in merito alla posizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi.
Il 22 giugno 2018 la DDA chiede il rinvio a giudizio per 11 persone a vario titolo imputati di rivelazione di segreti, minaccia ai Corpi dello Stato, false informazioni al pubblico ministero, favoreggiamento, tutti reati contestati con l’aggravante mafiosa. I nomi: Mario Ventura (viceprefetto, capo di gabinetto, coordinatore del GIRER – gruppo interforze per prevenire il rischio infiltrazioni), Daniele Lambertucci (dipendente della prefettura di Modena), Giuseppe Marco De Stavola (funzionario dell’agenzia delle dogane di Campogalliano), Giancarla Moscattini, (avvocatessa modenese) Augusto Bianchini, la moglie Bruna Braga e il figlio Alessandro Bianchini, Ilaria Colzi. E poi Alessandro Tufo, Giuliano Michelucci e Giulio Musto (società Safi) che si spacciavano come agenti dei servizi segreti di Stato, per “farsi largo” in Prefettura e sistemare a 30mila euro a pratica le posizioni scomode con le white list delle aziende modenesi.
 

11 ottobre 2018 – 194esima udienza

Antonio Valerio, la mente storica della cosca emiliana, rilascia le sue ultime dichiarazioni che potete leggere nella nota – completamente sbobinata – della pagina facebook cliccando qui.
Parole che risuonano in aula e che fanno accapponare la pelle. Ve ne riportiamo qui alcuni stralci:
  • La mentalità della consorteria e qui vado subito al sodo, dopo le operazioni antimafia subite a Reggio Emilia, era prioritaria la necessità di diversificare dalle linee maestre per rendere incomprensibile alle forze dell’ordine i tanti decantati dagli avvocati e lo chiedo perché lo sanno ciò che è avvenuto, i dogmi, l’antologia, letteratura, storia della ‘ndrangheta. Ho tre tecnicismi signor presidente, tre: 1) capo locale Nicolino Sarcone e fratelli 2) autonomia a Reggio Emilia e dintorni 3) parallele orizzontali e ripartizione dei rischi: più chiaro di così.
  • È la ‘ndrangheta che cambia pelle, colore, modo di agire e reati. Qualche vecchio dogma non può essere praticato in toto a Reggio Emilia e dintorni se non nel vincolo associativo, forza intimidatrice, assoggettamento, perseguimento con il fine dell’arricchimento.
  • Se un giornalista, un politico, una carica pubblica o chicchessia da fastidio, esprime un concetto non gradito agli ‘ndranghetisti o avvocati si trova screditarli, portandoli all’annichilimento, tirando fuori scheletri dall’armadio e se non ci sono? Qual’è il problema si creano, si costruiscono con le abili manovre per uscire poi a gratis di prigione.
  • Signor Presidente a Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso sotto uno stato di assedio e assoggettamento ‘ndranghetistico che non ha eguali nella storia reggiana. Nemmeno i terroristi erano arrivati a tanto. La cosa che fa specie è che la ‘ndrangheta lo fa silentemente… E poi c’è questo silenzio tombale, ciò che sa fare bene la ‘ndrangheta.
  • … Poiché sono le donne il cordone ombelicale di questa associazione, da quando i mariti, i fratelli i cognati si trovano in carcere. Il potere non lo mollano a nessuno i Sarcone.
  •  Perché avviene un cambiamento, quando avviene un cambiamento? Quando qualcosa è superato e alcune cose non funzionano. Oppure quando uno non vuole sottostare alle regole del proprio, della locale di ‘ndrangheta…. Fare ‘ndrangheta a Reggio Emilia è intelligente osservare gli usi, consuetudini del luogo.
  •  Ma non illudiamoci che verrà eliminata con le condanne di questo processo, perché altri ‘ndranghetisti fuori si stanno riorganizzando con mezzi e metodi diversi da quelli odierni. Non rimanete abbarbicati a questo. Perché vanno oltre, si va oltre, il futuro. …  E deve tenere conto che i tempi cambiano e le mode passano. … Guardate bene come da Grande Drago ad Aemilia ne son passati ben 12/13 anni. … L’algoritmo della ‘ndrangheta emiliana.
  •  Provate ad immaginare se era verticistica quanto sarebbe durata! Non più da Natale a Santo Stefano. Per i distratti è un giorno. Viceversa abbiamo fatto 12/13 anni di Santo Stefano a Natale intercorre esattamente un anno. Tutto ciò è stato possibile perché non era uguale a Scacco Matto, a Edilpiovra e a Grande Drago.
  •  Sulle nuove leve: solo una sera al bar Revolution dei fratelli Muto, Totò Muto classe 55, me ne fece incontrare circa una ventina desiderosi di ricevere ordine da Valerio, da Turrà, in virtù del ricambio generazionale compreso un nipote di Muto, un nipote acquisito. Dinamiche di mafia sempre diverse ma nel giro degli affari illeciti non cambia, non cambia.
  •  Durante il percorso tipo l’operazione Aemilia, chi ci impedisce di cambiare, che problema c’è a cambiare? Siamo noi che facciamo l’algoritmo. Come si è potuto verificare sia nella sezione carceraria, nelle sezioni carcerarie dove si era detenuti.
  •  È una holding in continua evoluzione, signor Presidente. Tenetelo presente pure questo altro termine EVOLUZIONE!
  • Non è altro che l’interazione dell’uomo con la ‘ndrangheta e con il PC. L’uomo di ‘ndrangheta col telefonino, l’uomo di ‘ndrangheta con il WEB, l’uomo di ‘ndrangheta con l’intelligenza artificiale, e dove non c’è l’intelligenza artificiale, c’è l’ingegno signor Presidente. L’ingegno è saper fare. Fare reati. Qui siamo nel mondo moderno per farla breve.
  •  Da qui a 4/5 anni vedrete che ci sarà il cambiamento anche se a passo lento. Ci sarà nella ‘ndrangheta in Calabria. Fuori dalla Calabria, inteso anche a Reggio Emilia, poiché gli usi e le consuetudini sono diversi nel nord, nella fattispecie a Reggio Emilia e dintorni, è un mondo in continua evoluzione, non credete, non illudetevi che la ‘ndrangheta è finita qui. Non credetelo, non illudetevi che è finita con l’operazione Aemilia. A Reggio Emilia non è finito niente, NIENTE!
  •  Avete visto come con la ‘ndrangheta si va a braccetto? E il nuovo come avanza e avviluppa i tentacoli a chi ci è attorno. Lo rende simile, partecipe, silentemente lo indottrina. Quando si accorge capisce che ha il cappio stretto al collo da una parte, gli si prospettano dei notevoli vantaggi, dall’altra gli si prospetta che non ha alternative. Non ha alternative. Poi varca la linea e si rende partecipe della ‘ndrangheta. E sarà peggio dell’‘ndranghetista, quello che viene indottrinato è peggio dell’ndranghetista, perché ha due conoscenze, uno il moderno, due trae forza dal vecchio.
  •  L’evoluzione che fa Valerio nella cronistoria lo spiego molto bene, si è fatto pure dagli anni ’70 al 2015 al 2017, come passano i tempi, cambiano gli ‘ndranghetisti, il modo di agire, i reati, ma pur sempre ‘ndrangheta è. Pur sempre ‘ndrangheta è.
  •  Oggi la ‘ndrangheta si sta combattendo e uno sradicamento si darà, ma non illudetevi che sia sconfitta realmente, è come la gramigna: finché non la estirpi fino all’ultimo filamento di radice in profondità, ricresce nuovamente.

Valerio non risparmia neppure la famiglia Amato:
“Prendete l’ultima parte di “Ciccio” (Francesco Amato) e la prima parte di Alfredo e lì trovate ciò che dichiarano in aula. È un proclama mascherato a voi del Tribunale e alle forze dell’ordine. A Reggio Emilia la famiglia Amato vogliono comandare a livello ‘ndranghetistico soprattutto in questo momento storico, l’ha gridato in aula tant’è che la famiglia Amato a cospetto di questo Tribunale e degli imputati nelle gabbie è un forte segnale. È un forte segnale di sfida sotto il profilo degli aspetti ‘ndrangheta da una parte e giustizia dall’altra. Sono pronti a fronteggiare tutti, signor Presidente, sono forti, numerosi, agguerriti. E la famiglia Amato crea destabilità all’interno della consorteria e in quest’aula, i fatti lo dimostreranno anche con i fatti di cronaca contemporanea. Gli Amato possono aspettare, devono aspettare, altrimenti i gitani devono sparare se vogliono il comando come abbiamo fatto noi cutresi nel 90. “

Parole che risuonano ancor più inquietanti poiché dopo poco più di 3 settimane, a 5 giorni dalla sentenza, Francesco Amato, il monco di Rosarno, condannato a 19 anni e latitante per 4 giorni, ha sequestrato alcune persone in un ufficio postale di Pieve Modolena (RE).

16 ottobre 2018195esima udienza

Arriva l’ultima udienza. Per la quantità di emozioni e testimonianze di vita vissute e ascoltate in quest’aula sembra ormai lontanissima la prima udienza, quella del23 marzo 2016.
Durante questa udienza ascoltiamo le ultime dichiarazioni spontanee di alcuni imputati: Michele Bolognino, Gaetano Blasco, Pasquale Brescia, Carmine Belfiore, Mirco Salsi e Sergio Bolognino. Tutti si professano innocenti.
 
“La Corte si ritira”, poche parole appena percepite attraverso le cuffie perennemente incollate alle orecchie in questi due anni e mezzo: Francesco Maria Caruso e i due giudici a latere Cristina Beretti e Andrea Rat, si ritirano in una zona della Questura che verrà tenuta sotto stretta sorveglianza 24 ore sue 24.
 
 
 
Alle 8.45 sono davanti a quel cancello con tutta la mia attrezzatura, pronta per registrare il finale di un processo dalla portata storica. Lo schieramento delle Forze dell’Ordine è ingente come non mai. Per la prima volta ci fanno entrare dall’ingresso laterale per poi farci aspettare davanti al secondo cancello. Mentre le mani si gelano in questa fredda giornata, scambio alcune parole con alcuni giornalisti con cui ho attraversato questi anni: Tiziano Soresina ed Enrico Tidona della Gazzetta di Reggio, Alberto Setti e Francesco Dondi della Gazzetta di Modena con loro anche il fotografo Gino Esposito, l’immancabile Paolo Bonacini per il Fatto Quotidiano.it e Luca Ponzi per il TG3. Forse per la prima volta vedo in fila anche alcuni cameramen del TG2. Perplessa mi chiedo quanto e come potranno raccontare un processo di una tale complessità essendo presenti solo il giorno della sentenza.
Finalmente ci fanno entrare, passo gli usuali controlli, all’entrata dell’aula bunker è pieno di Carabinieri, ultimo controllo e finalmente arrivo alla “mia” scrivania come ormai la considero dopo così tanto tempo. Posiziono microfono, telecamera, provo le cuffie, accendo il PC, apro word e mi collego con la pagina Facebook processo AEmilia digitando l’incipit con cui ho iniziato le mie trascrizioni in questi anni “ore 9.30 in aula” per poi proseguire con:
Comunicazione di chi trascrive: importante ricordare che trascrivere tutto in “tempo diretto” sulla pagina FACEBOOK PROCESSO AEMILIA può portare ad errori e refusi che avrò modo di verificare solo in un secondo momento. Le trascrizioni riportate sul sito www.processoaemilia.com vengono pubblicate una volta apportati controlli e verifiche. Ricordo che tutto questo è frutto di puro lavoro volontario con l’unico intento di tentare di fare da “cassa di risonanza” ad un un processo dalle proporzioni storiche per la nostra regione.”
Gesti che ho ripetuto così tante volte da essere divenuti automatici.
L’aula inizia pian piano a riempirsi, arriva Cristina di Libera, presente ad ogni udienza, Marga delle agende rosse gruppo Rita Atria di Reggio Emilia, Sabrina Pignedoli giornalista minacciata dall’autista del questore Domenico Mesiano condannato in Cassazione 8 anni e 6 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, arriva anche Enrico Bini, sindaco di Castelnovo  Monti, che ha testimoniato in quest’aula in merito alla sua esperienza come presidente della Camera di Commercio. Vedendo arrivare Bini con la sua fascia tricolore, non certo per la prima volta rispetto ad altri sindaci che fino ad ora non si erano mai visti in quest’aula, ricordo l’udienza del 2 febbraio 2017 quando il maggiore Leuzzi di Fiorenzuola D’Arda riportò di quando Giuseppe Pagliani, capogruppo a Reggio Emilia per Forza Italia – che ritornerà in appello dopo la sua condanna per associazione esterna – chiedeva all’avvocato Antonio Sarzi Amadè di realizzare un dossieraggio su Enrico Bini che dava fastidio. In merito al dossieraggio mi tornano alla mente le parole lapidarie di Valerio Antonio riportate qui sopra all’udienza dell’11 ottobre: “Se un giornalista, un politico, una carica pubblica o chicchessia da fastidio, esprime un concetto non gradito agli ‘ndranghetisti o avvocati si trova screditarli, portandoli all’annichilimento, tirando fuori scheletri dall’armadio e se non ci sono? Qual’è il problema si creano, si costruiscono con le abili manovre per uscire poi a gratis di prigione”.
Saluto Elia Minari di Cortocircuito le cui inchieste non solo sono entrate in AEmilia, ma hanno veicolato in massa l’interesse per ciò che stava accadendo (e accade, vorremmo aggiungere) a Brescello, primo comune commissariato per infiltrazioni mafiose il 20 aprile 2016. Impossibile non ricordare gli anni (e i chilometri) che mi hanno portato ripetutamente a Brescello insieme a Sara Donatelli al fianco di Catia Silva, oggi coordinatrice delle agende rosse gruppo Carlo Alberto Dalla Chiesa di Brescello, le cui minacce subite hanno portato il 29 marzo 2017  alla condanna per minacce di stampo mafioso Alfonso Diletto, Salvatore Grande Aracri, Carmine Rondinelli, Girolamo Rondinelli e Frijo Salvatore. Anch’essa è presente in aula accanto all’imprenditrice Cinzia Franchini presidente dell’associazione CNA-FITA dal 2011 al 2017, oggi co-editrice del quotidiano on-line “La Pressa”. Anche Cinzia Franchini ha subito diverse intimidazioni nel corso di questi anni. L’aula bunker costruita appositamente per celebrare il processo AEmilia è ormai piena come mai si era vista. Il lato destro della sala è completamente pieno dei parenti e amici degli imputati. Alcuni imputati a piede libero fanno avanti e indietro. La tensione sui loro volti è visibile.
L’attesa si protrae. Alle ore 11.20 vengono comunicati problemi tecnici di collegamento video/audio con i siti protetti e le carceri. Alcune voci di corridoio ci fanno intendere che probabilmente la Corte non entrerà prima delle 13. Si cerca di stemperare la tensione con chiacchiere e pareri. Al mio fianco la mitica Elisabetta “Betta” Sala, dotata di una memoria straordinaria e di una grande capacità di “collegare tutto”, la cui grande forza mi ha sempre supportata nei momenti più difficili che ho attraversato in questi anni. È proprio il suo abbraccio a pochi minuti dall’entrata della Corte che serberò come il ricordo più vivido di questa giornata storica.
Passano le 13 da poco e la Corte entra per l’ultima volta. I giudici a latere Cristina Beretti e Andrea Rat e il Presidente del Tribunale di Bologna, Francesco Maria Caruso che con “accomodatevi che dobbiamo leggere l’ordinanza cautelare” fa zittire tutti in quest’aula.
Accendo freneticamente la telecamera mentre le mie dita attendono impazienti sulla tastiera, gli occhi puntati sulla tabella preparata in precedenza con tutti i nomi dei 148 imputati con la casella CONDANNA ancora vuota. Non posso soffermarmi a pensare a cosa significhi riempire quella casella, perderei tutto quel poco di sangue freddo che mi rimane dopo questa lunga attesa. E così, mano a mano che il presidente Caruso elenca nomi e pronuncia le relative condanne, le mie dita premono quei numeri pensando che sono solo numeri, cercando di non pensare a tutto ciò che c’è dietro.
La tensione che sento arrivare da Betta seduta al mio fianco si unisce alla mia divenendo una cosa sola. A volte le sfioro il braccio quando sentiamo nomi a noi più conosciuti rispetto ad altri. Cominciano i primi commenti mal trattenuti, li sento anche attraverso le cuffie che mi rimandano la voce del presidente. Vincenzo Iaquinta grida VERGOGNA non tanto ai suoi 2 anni di condanna per detenzione illegale di armi, quanto per i 19 anni per associazione mafiosa del padre, Giuseppe Iaquinta. Poi se ne esce dall’aula con uno stuolo di giornalisti che corrono freneticamente dietro all’ex calciatore campione del mondo. Il presidente Caruso, già noto per il suo grande sangue freddo, continua imperterrito l’elenco senza mai fermarsi, senza mai distogliere gli occhi da quel foglio che tiene in mano. Sento le grida delle mogli i cui mariti vengono condannati. Ma quelle nessuno le ascolta. E forse non vengono viste neppure le lacrime dei figli.
Caruso termina la lettura con la voce ormai consumata dopo due ore ininterrotte. È arrivata così la storica sentenza. E finisce così fra le grida di rabbia e gli applausi. di alcuni studenti di giurisprudenza arrivati oggi per vedere la conclusione della Storia. La Corte si ritira. E lascia dietro di sè questi numeri.
  • 33 condannati per associazione di stampo mafioso
  • 87 per altri reati
  • 22 assoluzioni
  • 6 prescrizioni
 

AEmilia è inequivocabilmente mafia! Per la prima volta viene sancita la presenza di una cosca “emiliana” in quanto indipendente rispetto alla casa madre cutrese anche se comunque legata ad essa a un filo rosso di interessi.
Ma non è finita, ne siamo ben coscienti. Dalla mole delle indagini e delle intercettazioni, dai fatti riportati in aula, è chiaro che questa è solamente la punta di un iceberg composta da una fitta rete di cui possiamo solo intravedere le trame.
Spengo la telecamera, tolgo le cuffie e premo invio sull’ultimo post “Ore 15.06: termina l’udienza”. Appena in tempo per sentirmi chiedere da una giornalista “cosa ne pensi, sei felice?”

La guardo un po’ sconcertata e scoppio in un pianto che non riesco a calmare. Come posso essere felice? Sarei felice se tutto questo non fosse mai accaduto. Sarei stata più felice se quei pianti e quelle parole piene di paura fossero frutto di fantasia. Invece è tutto maledettamente vero. E per questo quante vite bruciate dietro quelle sbarre? E i figli di quei padri condannati le cui lacrime sono state versate in quest’aula, cosa faranno ora? Sapranno intraprendere altre strade, abiurando le scelte dei loro stessi padri o proseguiranno le orme dei loro famigliari come abbiamo purtroppo visto avvenire nelle famiglie di ‘ndrangheta? Vivranno nella libertà da questi vincoli o vivranno nella consapevolezza della possibilità di finire un giorno dietro le sbarre o peggio ancora morire morti ammazzati per un soldo in più in un circuito senza fine e senza speranza?
La vita è fatta di scelte. E di conseguenze.
No, non sono felice.

Il 29 aprile arriveranno le motivazioni per meglio comprendere queste condanne.
Vi terremo quindi aggiornati anche con successivi approfondimenti.

 
 
 
di Sabrina Natali
gruppo Agende Rosse – Mauro Rostagno – Modena
 
 
 

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