di Enrico Bellavia
30 aprile 2021 – Alle prime battute del racconto di Avola, senza neppure ascoltare la manfrina sul travaglio psicologico di intervistato e intervistatore , la ricostruzione farlocca puzzava di depistaggio, a prescindere dalle intenzioni di chi gli ha dato credito, fino a portarlo alla ribalta televisiva.
Ora però il punto non è che Avola fantastichi, probabilmente per ottenere benefici come la riammissione al programma di protezione. E neppure che parli a distanza di anni, dietro il solito scudo che il Paese, lo Stato non erano pronti a sopportare il peso del suo racconto. Quanto, piuttosto – e siamo a due casi – CHI lo ha indotto a raccontare questa panzana. Il punto centrale della sua presunta ricostruzione è: “Non c’erano servizi”. A me pare un indizio sufficiente di quanto si sia vicini a capire nel dettaglio cosa è accaduto con Scarantino.
La storia del pentito imbeccato per ansia di risultato, ovvero per assicurare un colpevole a tutti i costi non ha mai convinto. Scarantino e Avola sono pezzi dello stesso ingranaggio. Molti dei protagonisti del primo depistaggio, uno su tutti Arnaldo La Barbera, assurto a dominus dell’antimafia mentre la Sicilia era un tappeto di cadaveri, sono morti. Un altro è Faccia da Mostro, il killer in divisa di casa nel quartier generale dei boss.
Ma quanti sono ancora vivi e in grado di inquinare la verità sulla strage?
Non abbiamo bisogno delle lezioncine di chi ci spiega, adesso, che Cosa nostra non si fa eterodirigere. Che non esiste la superloggia del crimine mondiale che governa le azioni delle cosche.
Basta respirare mafia dall’infanzia per non crederci. Il che non vuol dire che non ci sia una perfetta coincidenza di obiettivi tra, si perdoni l’autocitazione, sbirri e padreterni.
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