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Mancino interrogato per tre ore su trattativa Stato-mafia

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Trattativa tra Stato e mafia. Interrogato Nicola Mancino

PALERMO – È l’unico uomo politico – al tempo era ministro degli Interni – che ha parlato di una “trattativa” che qualcuno voleva fare con la mafia. È l’unico uomo politico che ha spiegato perché quella “trattativa” è stata respinta “anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato”. Diciassette anni dopo le stragi siciliane e due mesi dopo le sue prime dichiarazioni sulle tragiche vicende avvenute nell’estate del 1992, il vicepresidente del Csm Nicola Mancino sfila come testimone davanti ai magistrati di Palermo e di Caltanissetta.

Un interrogatorio di quasi tre ore a Roma, un faccia a faccia dell’ex ministro con i procuratori Messineo e Lari e gli aggiunti Di Matteo e Gozzo per ricostruire chi aveva intavolato le trattative, a cosa puntavano, chi dentro lo Stato non ha voluto accettare il ricatto di Cosa Nostra. Il verbale di interrogatorio è stato secretato. Se alla procura di Caltanissetta s’indaga sui massacri in Sicilia (Capaci e via D’Amelio nella primavera-estate del 1992) e se alle procure di Firenze e di Milano s’indaga sugli attentati del 1993 (le bombe in via dei Georgofili, a San Giorgio al Velabro, in via Palestro), alla procura di Palermo s’indaga sulla “trattativa” fra mafia e Stato. È un’inchiesta parallela a quelle sulle stragi, avviata qualche anno fa su un episodio specifico – la mancata cattura di Bernardo Provenzano il 31 ottobre 1995, imputati per favoreggiamento il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu – e ormai diventata il “contenitore” di tutte le investigazioni su ciò che è avvenuto in Sicilia prima e dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino.



L’inchiesta di Palermo ha scoperto negli ultimi mesi che ci sono state non una, ma ben due “trattative”. La prima viene datata fra la morte di Falcone e quella di Borsellino, la seconda sarebbe stata avviata dopo la cattura di Riina da Bernardo Provenzano e con “un esponente di rilievo della nascente formazione politica”. Secondo le dichiarazioni di almeno due pentiti e di Massimo Ciancimino, il partito sarebbe Forza Italia e l’interlocutore di Provenzano sarebbe stato Marcello Dell’Utri. La prima e la seconda “trattativa” sono collegate fra loro: nelle indagini l’anello di congiunzione sarebbe proprio la mancata cattura di Provenzano. Un arresto sfumato “conseguenza” dell’accordo fra pezzi dello Stato e mafia. Oggi i procuratori sono certi che la “trattativa” (o le “trattative”) fra Corleonesi e apparati non sono durate soltanto qualche mese ma almeno tre anni. Fino agli ultimi mesi del 1995.

Nicola Mancino non è il solo uomo politico che ha testimoniato su quei tentativi di “avvicinamento” dei mafiosi. A metà luglio, dopo diciassette anni di silenzio, si è presentato alla procura di Palermo anche l’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Luciano Violante per raccontare di tre contatti avuti con il generale Mori. L’ufficiale dei carabinieri gli aveva proposto un incontro “privato” con Vito Ciancimino. Violante rifiutò, chiese al generale se di quella voglia di parlare di don Vito era stata informata l’autorità giudiziaria, il generale gli rispose “che era una cosa politica”.

Anche su questo ha testimoniato nei mesi scorsi Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo. Lui ha fatto ritrovare ai magistrati tre frammenti di lettere indirizzate fra il 1991 e il 1994 a Berlusconi, lettere provenienti a quanto pare da Provenzano dove si facevano velate minacce e si parlava del “contributo politico” che lo stesso Provenzano avrebbe voluto offrire a una “nuova formazione politica”. Atti e verbali di interrogatorio che, ieri, dovevano finire nel processo d’appello dove il senatore Dell’Utri è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma la Corte ha respinto la richiesta dell’accusa perché “dall’esame dei contenuti dei verbali di interrogatorio di Massimo Ciancimino emerge un quadro confuso ed oltremodo contraddittorio”.



Attilio Bolzoni e Francesco Viviano


La Repubblica, 18 Settembre 2009


Nicola Mancino interrogated on mafia – State negotiations

PALERMO – At the time Nicola Mancino was minister of internal affairs. He is the only politician who has ever mentioned  a “negotiation” that “someone” wanted to carry through with the mafia.  He is the only politician to have explained why that “negotiation” was rejected “ even if it was only meant to lighten the price to be payed to the State”.  Seventeen years after the sicilian massacres, and two months after his first declarations with regards to the tragedies that took place in the summer of 1992, Nicola Mancino, vice president of the Superior Council of Magistrates, stands before the magistrates of Palermo and Caltanissetta as a witness.

A three hour, face to face interrogation in Rome infront of prosecutors Messineo and Lari as well as Di Matteo and Gozzo. The interrogation was meant to establish who sat at the negotiation table, what it was they were aiming at and who from inside the State refused to accept Cosa Nostra’s blackmail.  In Caltanisetta investigations involve the sicilian massacres of Capaci and D’Amelio street that took place in the spring-summer period of 1992.  The Public Prosecutor’s Offices of Florence and Milan investigate on the attacks that took place in 1993 with refferal to the bombs in Georgofili street and in San Giorgio al Velabro, in Palestro street. On the other hand, in Palermo investigations necessarly look at the mafia State “negotiation”. This inquiry is relevant to the ones taking place on the massacres of 1992-93 and was opened a few years ago because of a specific happening – the failure to capture Bernardo Provenzano on October 31st 1995 saw general Mario Mori of the carabinieri (italian military police force) and colonel Mauro Obinu accused of aiding and abetting Provenzano. This is the root of all the other investigations, which will allow the law to establish what took place in Sicily before and after Falcone and Borsellino’s assassinations.

Over the last few months, the inquiry in Palermo revealed that the “negotiations” which took place were two and not one.  The first is dated between Falcone and Borsellino’s death. Provenzano and  “an important exponent of the emerging political force” planned the second one after Riina had been captured.  At least two repetants and Massimo Ciancimino declare that the political party in question is Forza Italia (Berlusconi’s party) and the intermediary was Marcello Dell’Utri. The first and the second “negotiation” are related to one another: investigations show that they are linked by the failure to capture Provenzano.  This failure was the “consequence” of the agreement made between parts of the State and mafia. Today, prosecutors are certain that the “negotiation” (or the “negotiations”) between Corleonesi and institutions lasted more than just a few months, they went on for at least three years, until the last months of 1995.

 Nicola Mancino is not the only politician to have testified with regards to the mafia’s attempts to “come into contact”. In the middle of July, after seventeen years of silence, Luciano Violante (ex president of the parlamentery antimafia commission) tells of three episodes in which he came into contact with general Mori. Mori had proposed a “private” meeting with Vito Ciancimino. Violante refused and asked the police official if judiciary authorities had been informed of Ciancimino’s desire to speak. Mori answered that this was “a political matter”.

The ex mayor’s son Massimo Ciancimino testified on this account over the past few months.  Ciancimino helped magistrates find parts of a series of letters addressed to Berlusconi between 1991 and 1994.  Apparently the letters were from Provenzano. They contained subtle threats and expressed Provenzano’s wish to “contribute politically” within an “ emerging political force”.  The proceedings and records of interrogations were to be included in the trial that took place yesterday against Marcello Dell’Utri .  A trial in which senetor Dell’Utri is  accused of association with mafia. However, the Court rejected the prosecutor’s request since “the examination of the content of the records of interrogation of Massimo Ciancimino draw a confusing and contradictory picture of the scene”.

 

 

 traduzione di Christina Pacella

Mafia, Mancino dai pm: mai saputo di trattative


ROMA — Era quasi una tappa obbligata, per le testimonianze raccolte in precedenza e per i due esposti che l’interessato ha presentato alle Procure di Caltanissetta e Palermo, che ancora indagano sulle stragi mafiose del 1992 e sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra in quella stagione.


Ieri Nicola Mancino, ministro dell’Interno dell’epoca insediatosi tra l’eccidio che uccise Giovanni Falcone e quello che tolse di mezzo Paolo Borsellino, è stato ascoltato per circa tre ore dai procuratori di Caltanissetta Lari e di Palermo Messineo, che insieme ai loro sostituti hanno verbalizzato ciò che l’attuale vice- presidente del Consiglio superiore della magistratura ripete da mesi: lui, al Viminale, non ha mai sentito parlare né di trattativa né di papello con richieste mafiose per far cessare le stragi; «e quando fu ipotizzato che questo potesse essere il disegno deli boss, l’eventualità fu immediatamente scartata». Nell’interrogatorio, sollecitato dallo stesso Mancino, s’è tornati a parlare dell’incontro con Borsellino segnato sull’agenda del giudice alla data del 1˚ luglio ’92, che il vicepresidente del Csm nega esserci stato: «Non l’ho visto, a meno che non sia stata una stretta di mano come le centinaia di altre di quel giorno, di cui non ho memoria». Nessun colloquio, quindi, come nessuna notizia dei contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino. E’ stato il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino, a dire che suo padre aveva chiesto la «garanzia istituzionale» del governo e dell’opposizione prima di allacciare contatti coi boss, facendo i nomi di Mancino e di Luciano Violante. Quest’ultimo ha confermato una proposta di incontro da parte di Ciancimino senior che lui rifiutò, mentre l’allora ministro dell’Interno ribadisce di non averne saputo nulla. «Del resto – ha ribadito ai pm – con me al Viminale l’azione di contrasto a Cosa Nostra s’è inasprita fin da subito».


Dunque Mancino smentisce che quanto riferito dal figlio di Ciancimino sia mai avvenuto, nello stesso giorno in cui altri magistrati hanno definito «confuse e contraddittorie» alcune dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco: quelle sulla presunta lettera che Bernardo Provenzano avrebbe fatto avere a Silvio Berlusconi tramite Marcello Dell’Utri, senatore del Popolo della libertà condannato in primo grado a nove anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Il processo d’appello è giunto alle battute finali, e sul filo di lana il pubblico ministero ha proposto ai giudici la testimonianza Ciancimino jr; per parlare del misterioso foglio di carta, trovato solo in parte a casa sua, dove si citano l’attuale premier e un possibile «triste evento» ai suoi danni. Secondo Massimo Ciancimino, all’inizio degli anni Novanta Dell’Utri sarebbe stato l’intermediario di quel messaggio mafioso indirizzato a Berlusconi, che gli «uomini d’onore» consideravano un «irriconoscente che si stava scordando di certe situazioni e vantaggi avuti». I giudici della corte d’appello, però, hanno detto di no alla sua deposizione. Perché ritengono che quanto il giovane Ciancimino ha già spiegato nell’inchiesta palermitana fornisca un quadro «confuso e oltremodo contraddittorio», inutile rispetto al processo contro il senatore: «Non emergono condotte e fatti riconducibili a Dell’Utri che siano suscettibili di utile apprezzamento».


Scartata questa testimonianza, la fase dibattimentale del processo Dell’Utri s’è chiusa, e sempre ieri il pubblico ministero ha avviato la requisitoria. Suo malgrado, perché l’accusa avrebbe voluto sottoporre ai giudici anche il neo-pentito Gaspare Spatuzza. Il quale nell’indagine fiorentina sulle bombe del ’93 ha riferito fatti e colloqui coi fratelli Graviano (boss stragisti suoi diretti superiori in Cosa Nostra) che coinvolgerebbero anche il senatore. Ma stavolta il no è arrivato proprio dagli inquirenti di Firenze. In una lunga e accesa riunione mercoledì alla Direzione nazionale antimafia il procuratore generale di Palermo Luigi Croce ha chiesto il verbale di Spatuzza per portarlo al processo, e il capo della Procura fiorentina Giuseppe Quattrocchi glielo ha negato: le indagini in corso non consentono di renderlo pubblico in questa fase. Che peraltro, se convocato al dibattimento contro Dell’Utri, avrebbe dovuto rispondere alle domande degli avvocati, che certo avrebbero spaziato su tutte le sue recenti rivelazioni. Un danno troppo grande all’inchiesta, ha spiegato Quattrocchi. Invano il procuratore nazionale Grasso ha perorato la causa palermitana: le dichiarazioni di Spatuzza su dell’Utri e dintorni restano coperte dal segreto, in attesa di nuovi sviluppi.


Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 18 Settembre 2009


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