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L’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia ed i vuoti investigativi

23 gennaio 2021. Il magistrato Bruno Caccia, dopo 39 anni di carriera in magistratura, nel 1980 fu nominato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino. Nel capoluogo piemontese Caccia si occupò delle indagini sui ricorrenti pestaggi che si verificavano in occasione degli scioperi sindacali, sui terroristi delle Brigate Rosse, sui traffici della ‘Ndrangheta in Piemonte e sul riciclaggio di denaro sporco (ricavato dai sequestri di persona) presso il Casinò di Saint-Vincent ed altre case da gioco del nord Italia. Il magistrato fu assassinato il 26 giugno 1983 quando, mentre portava a passeggio il proprio cane, venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco.

Sin da subito le indagini degli inquirenti presero la pista delle Brigate Rosse: infatti, mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate Rosse, hanno ucciso il dott. Bruno Caccia”. Il mattino successivo due telefonate a quotidiani di Roma e alla sede RAI di Milano rivendicarono nuovamente l’attentato a nome delle BR. Sennonché quindici giorni dopo l’omicidio, l’11 luglio 1983, le Brigate Rosse negarono ufficialmente di essere autrici del delitto: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo – dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere ‘Le Vallette’ di Torino –. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”.[1]

Un mese dopo il delitto, il 26 luglio 1983, gli atti dell’inchiesta sull’omicidio furono trasferiti per competenza da Torino a Milano, dove il Procuratore capo Mauro Gresti assegnò il fascicolo al Pubblico Ministero Francesco Di Maggio, magistrato cresciuto nella città di Barcellona Pozzo di Gotto, dove il padre prestava servizio come maresciallo alla locale stazione dei Carabinieri.

Le indagini sull’omicidio segnarono il passo per circa un anno, durante il quale furono sentiti diversi frequentatori del casinò di Saint-Vincent, tra cui anche Rosario Cattafi; fino a quando, a partire dal mese di luglio 1984, alcuni membri della criminalità organizzata in stato di detenzione iniziarono a rilasciare all’Autorità Giudiziaria una serie di dichiarazioni che indicavano elementi della malavita organizzata di origine calabrese come mandanti dell’omicidio del procuratore Caccia.

Nei primi anni ottanta la criminalità organizzata operante a Torino faceva principalmente riferimento a due gruppi, distinti tra loro sulla base della provenienza geografica, i “catanesi” e i “calabresi”. «Leader dei ‘catanesi’ e personaggio comunque di indiscusso prestigio era Francesco Miano, che si avvaleva – nella prevalente attività di commercio di sostanze stupefacenti – della collaborazione del fratello Roberto (…). Il gruppo dei ‘calabresi’ – dedito in particolare ai sequestri di persona a scopo di estorsione – aveva al suo vertice Domenico Belfiore, con il fratello Giuseppe Belfiore e soprattutto con il cognato Placido Barresi, Mario Ursini e la ‘mente finanziaria’ del gruppo, Franco Gonella’. (…) Le attività dei due gruppi avevano numerosi punti di contatto. Le indagini condotte dall’Autorità Giudiziaria di Torino accertarono, ad esempio, il sostegno fornito dal gruppo dei ‘catanesi’ a quello dei ‘calabresi’ (e viceversa) per sfruttare ‘entrature’ nel mondo giudiziario e condizionare l’iter processuale di procedimenti penali riguardanti membri appartenenti ai due clan».[2]

Le indagini ebbero una svolta quando, a seguito di un’iniziativa dei Servizi segreti (nella persona dell’agente del Sisde Pietro Ferretti), si decise di attivare un boss mafioso detenuto appartenente alla cosca catanese insediatasi a Torino, Francesco “Ciccio” Miano, che effettuò in carcere la registrazione di colloqui da lui intrattenuti con il boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore.[3] Stando alle dichiarazioni di Miano e alle registrazioni dei suoi colloqui con Belfiore, quest’ultimo si sarebbe assunto la responsabilità di mandante dell’omicidio Caccia. La pista dei casinò fu completamente abbandonata e Rosario Cattafi non fu mai indiziato di reato, nonostante vi fossero alcuni indizi a suo carico quale eventuale mandante dell’omicidio Caccia.[4] I processi che si celebrarono in seguito videro la condanna definitiva di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio. «Il movente che spinse Domenico Belfiore a programmare l’omicidio del Procuratore Caccia fu identificato nella costante azione di contrasto che il magistrato esercitava nei confronti del gruppo criminale guidato da Belfiore. Tuttavia, nulla emerse durante i dibattimenti sui nomi degli esecutori dell’omicidio e su eventuali altri mandanti rimasti nell’ombra. (…) All’interno delle sentenze inerenti l’omicidio Caccia, solo poche pagine sono dedicate ad un possibile movente del delitto distinto da quello indicato a carico di Domenico Belfiore».[5]

Diciannove anni dopo la sentenza di condanna definitiva a carico di Belfiore, una intercettazione telefonica ruppe il silenzio sull’omicidio Caccia. Nel 2011, infatti, furono depositati a Reggio Calabria gli atti relativi ad un’inchiesta in cui un magistrato, il dottor Olindo Canali, era indagato dalla Procura della Repubblica reggina per falsa testimonianza aggravata. Nel fascicolo era presente un’intercettazione di Canali – che all’epoca dell’assassinio di Bruno Caccia era uditore giudiziario del giudice titolare delle indagini, Francesco Di Maggio – nella quale egli faceva riferimento, in merito all’omicidio Caccia, a Rosario Pio Cattafi.

A trent’anni dall’omicidio, quindi, i figli di Bruno Caccia, il loro avvocato Fabio Repici e il loro consulente Mario Vaudano (magistrato che si era occupato delle indagini più delicate contro criminalità e corruzione a Torino, ora in pensione) chiesero alla Procura di Milano di riaprire le indagini, proponendo, con una dettagliata controinchiesta, l’ipotesi del coinvolgimento nell’omicidio del Procuratore Caccia della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint Vincent i guadagni dei loro traffici illeciti. I nomi delle persone chiamate in causa dalla famiglia erano due: Rosario Pio Cattafi, identificato come ipotetico mandante dell’omicidio, e Demetrio “Luciano” Latella, quale ipotetico esecutore. Secondo il legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, il pm Francesco Di Maggio all’epoca avrebbe «raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo. (…) La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento».[6]

Eppure, per due volte, i procuratori della Dda di Milano Marcello Tatangelo e Ilda Boccassini iscrissero l’inchiesta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto che solo nel 2015, in seguito al deciso intervento del Procuratore generale reggente Laura Bertolè Viale, i nomi di Cattafi e Latella furono finalmente iscritti nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di concorso nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia. Ma il 22 dicembre 2015, a sorpresa, il GIP di Milano Stefania Pepe dispose l’arresto di un panettiere di origini calabresi, Rocco Schirripa, con l’accusa di essere uno dei killer del giudice Caccia. La squadra mobile di Torino, con il benestare dei titolari del fascicolo sull’omicidio, i magistrati Boccassini e Tatangelo, aveva infatti inviato a Schirripa e ad altri affiliati della cosca Belfiore (ma, incomprensibilmente, non a Cattafi e Latella) una lettera anonima contenente ritagli del quotidiano La Stampa sull’omicidio Caccia e un foglio con la scritta: «Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette [il carcere di Torino, nda]. Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore». Questo anomalo stratagemma sollecitò i dialoghi tra i protagonisti destinatari della lettera, che furono contestualmente messi sotto intercettazioni telefoniche e ambientali. Da queste indagini emersero elementi indiziari a carico di Schirripa che fu successivamente arrestato. Un anno dopo, la procura chiederà l’archiviazione delle indagini su Cattafi e Latella. Nel luglio 2017 Rocco Schirripa sarà condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Bruno Caccia, dopo un processo che aveva visto respinta dalla Corte la richiesta dei figli del giudice Caccia, parti civili, di ammettere come prove una serie di atti attinenti al riciclaggio del denaro della mafia nel Casinò di Saint-Vicent. La Corte di assise di Milano presieduta da Ilio Mannucci Pacini, infatti, respinse la richiesta ritenendo che quei documenti riguardassero una “ipotesi investigativa estranea all’imputazione” a carico di Rocco Schirripa. Il processo di appello, iniziato il 5 febbraio 2019, ha visto la richiesta di conferma della sentenza di primo grado da parte della Procura generale di Milano e l’intervento infuocato dell’avvocato della famiglia Caccia, che ha chiesto nuovamente di riaprire l’istruttoria dibattimentale per valutare altri elementi e per sentire altri testimoni, tra cui i magistrati Francesco Marzachì e Marcello Maddalena. Il 14 febbraio 2019 la Corte d’assise d’appello ha confermato la sentenza di condanna, per il reato di concorso in omicidio, a carico di Rocco Schirripa.[7] Nell’ottobre 2016, intanto, si era pentito il giovane ‘ndranghetista Domenico Agresta, rivelando nuovi elementi sull’omicidio Caccia: il magistrato – secondo le dichiarazione del neopentito – non avrebbe voluto ascoltare le richieste della famiglia Belfiore di aggiustare alcune indagini e processi e, per questo, Rocco Schirripa e Francesco D’Onofrio, un estremista di Prima Linea vicino alla cosca calabrese, l’avrebbero ucciso. D’Onofrio venne così iscritto nel registro degli indagati per omicidio, fino a quando, scaduti i termini per approfondire le indagini, la Procura di Milano chiese l’archiviazione della posizione di D’Onofrio, cui seguì prontamente la richiesta di opposizione all’archiviazione da parte della famiglia Caccia. A quel punto la Procura generale di Milano decise di avocare l’inchiesta a carico di Francesco D’Onofrio sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, poiché – venne scritto nel decreto di avocazione – era «mancata nel presente procedimento una reale attività di indagine».

Il 6 ottobre 2020 la Gip di Milano Stefania Pepe ha archiviato l’indagine sull’omicidio di Bruno Caccia a carico di Rosario Cattafi e Demetrio Latella.

Movimento Agende Rosse

CLICCA sui seguenti LINK per leggere il capitolo del dossier MAFIA ED ANTIMAFIA A BARCELLONA POZZO DI GOTTO dedicato all’omicidio del Procuratore Bruno Caccia e per leggere il dossier completo.

Capitolo 2 – L’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia ed i vuoti investigativi

MAFIA E ANTIMAFIA A BARCELLONA POZZO DI GOTTO

 

Bruno Caccia in famiglia

 

[1] ‘Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro’, Marco Bertelli, www.19luglio1992.com, 4 luglio 2015.

[2] ‘Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro’, Marco Bertelli, www.19luglio1992.com, 4 luglio 2015.

[3]La legge vietava nel 1983, e tutt’oggi vieta, alcun rapporto fra magistratura e Servizi di sicurezza. E ciò deriva da un fatto giuridico evidente a chiunque: l’articolo 109 della Costituzione prevede che la polizia giudiziaria è funzionalmente dipendente dal Pubblico ministero. (…) La polizia giudiziaria nelle attività di indagine è funzionalmente dipendente dal Pubblico ministero, dalla Procura della Repubblica. Analoga norma non esiste ovviamente per i Servizi di sicurezza e informazione. I Servizi di sicurezza e informazione erano nell’83 e sono tutt’oggi una emanazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri. E capite bene che nel sistema italiano è una bestemmia furiosa che le indagini possano essere appaltate alla Presidenza del Consiglio dei Ministri” (Audizione presso la Commissione comunale antimafia di Torino, Fabio Repici, 15 novembre 2018).

[4] Agli atti del procedimento sull’omicidio di Bruno Caccia, di cui era titolare Francesco Di Maggio, non è presente alcuna archiviazione né alcun proscioglimento a carico di Rosario Cattafi o degli altri soggetti che frequentavano l’ambiente del casinò di Saint Vincent. È inoltre certa l’assenza di qualsiasi atto a firma di un Pm o di un Giudice in quel procedimento che dichiarasse infondata la pista dei casinò.

[5] “Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro”, Marco Bertelli, www.19luglio1992.com, 4 luglio 2015

[6] “Bruno Caccia: storia di un omicidio senza giustizia”, Fabrizio Gatti, L’Espresso, 3 aprile 2017.

[7]  La sentenza per il reato di concorso in omicidio a carico di Rocco Schirripa è passata in giudicato il 19 febbraio 2020.

 

 

 

 

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