In una società giovanile dominata dalla parola “disagio”, quale potrebbe essere l’esempio di amore vero e puro, sufficientemente forte da determinare un cambio di rotta? Sufficientemente forte da contrapporre alla condizione nichilista la speranza?
Ho dedicato gran parte degli ultimi 14 anni della mia vita allo studio del fenomeno mafioso e delle ripercussioni sulla nostra società, in modo particolare sui giovani. Riscontrando, tra le altre cose un collegamento quasi naturale tra il comportamento mafioso e quello dei bulli. Mi viene dunque spontaneo pensare e fare riferimento alla figura del Giudice Paolo Borsellino.
Il Giudice Paolo, assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992 in Via D’Amelio, a Palermo, nutriva un sogno, un sogno di amore. Ovvero liberare “Questo Paese bellissimo ma disgraziato” dai tentacoli della mafia. Ciò per ridare ai giovani, ai bambini, una Italia degna di essere chiamata civile, democratica, libera, giusta e uguale. Una Italia specchio della meravigliosa Costituzione che le appartiene.
Nei suoi scritti ricorrono molto spesso le parole “giovani” e “amore”. Ciò denota una fiducia totale sia negli uni che nell’altra. Quasi un abbandono, un riporre con gioia la sua vita nelle mani di una consapevolezza più grande. Fa una certa impressione sapere che nella mattina dell’ultimo giorno della sua vita, mentre rispondeva ai ragazzi di un liceo di Padova, abbia dichiarato in una lettera: «Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la criminalità mafiosa), i giovani siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella COLPEVOLE INDIFFERENZA che io mantenni sino ai quaranta anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e questa generazione ne abbiamo avuta.»
Penso a queste parole e davanti ai miei occhi si apre uno spaccato, una voragine nel mondo dei nostri figli. Da una parte ci sono i giovani di cui parla Borsellino, che potrebbero essere rappresentati oggi da Greta Thunberg e dal movimento giovanile globale che ha fatto seguito al suo esempio. Quindi, giovani motivati, coraggiosi, consapevoli del significato della parola giustizia e pronti a lottare per essa. Dall’altra vedo tutti quei giovani tristemente protagonisti della cronaca locale, nazionale, mondiale. I giovani in preda all’abuso di sostanze, che spaziano tra alcol e droghe. Quelli dello sballo che serve per anestetizzarli da un malessere che non sanno nemmeno loro né definire né spiegare. I giovani vittime e artefici di bullismo e di cyberbullismo. I giovani che nella solitudine della loro cameretta sprofondano nell’abisso dell’autolesionismo, che si tagliano e si fanno del male. Vedo che nel mondo il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani, mentre in Italia sono circa 200 i ragazzi che si tolgono la vita ogni anno. All’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, le richieste urgenti per ideazione e comportamento suicidario sono aumentate di 20 volte in 8 anni.
A 12 anni sono stata io stessa vittima di bullismo. Quando parlo di questo nelle scuole oppure ne scrivo nei miei articoli, mi dicono spesso: «Ma chi non è mai stato preso in giro a scuola?» – come se il fatto che succede a tutti sia una cosa normale. Sì, il bullismo è sempre esistito. Ma perché nelle nostre comunità il fenomeno è in costante crescita? Perché questa piaga sociale è diventata sempre più violenta psicologicamente e fisicamente?
Quando successe a me non esistevano i cellulari, non c’era internet. E mi ritengo fortunata. Perché quello che la maggior parte delle persone non sa, oppure non comprende è che il bullismo è umiliazione. Non c’è peggior cosa che si possa fare ad un altro essere umano, figuriamoci ad un bambino oppure ad un adolescente, che umiliarlo. La mia umiliazione, che si è trasformata in un arco temporale di circa due anni da violenza verbale a violenza fisica, era circoscritta alla scuola che frequentavo. Provate ad immaginare cosa vuol dire per un bambino/a, per un adolescente essere umiliati ovunque attraverso la rete. Non hanno scampo, non hanno vie di fuga, sono perseguitati dappertutto. Per cui non basta più cambiare scuola, cambiare quartiere per mettere fine al problema. Anche se, non dovrebbe succedere che la vittima sia costretta ad andar via. Dovrebbero essere i bulli a doversi confrontare con le conseguenze delle loro azioni intollerabili. Ma questo avviene raramente, ahimè. E allora mi chiedo: il principio che a ad ogni azione corrisponde una conseguenza, dov’è finito?
Spesso, nella nostra società vediamo premiati comportamenti sbagliati, siamo testimoni di crimini lasciati impuniti oppure trattati in modo tale da tralasciare la corrispondenza necessaria tra delitto e pena. Lo vediamo tutti i giorni, basta guardare il telegiornale. Penso al discorso dell’attore Joaquin Phoenix agli Oscar; dove emergono le parole prepotenza e impunità. Tristemente non è difficile trovare esempi di questi comportamenti sia dentro che fuori i confini del nostro Paese. Il bullo è diventato un modello, specialmente in certe cerchie della politica. E allora se è vero che i bambini ci osservano e imparano da noi: come e a che cosa li stiamo educando?
Una domanda che i ragazzi nelle scuole mi fanno spesso quando racconto loro della mia esperienza con il bullismo è: «hai mai pensato di suicidarti?» Perché i giovani sono spontanei, diretti. La prima volta che mi fecero questa domanda ero in forte difficoltà.
E qui ritorno alla seconda parola che Borsellino usa tanto di frequente che in una delle sue frasi storiche la ritroviamo per ben tre volte: «Palermo non mi piaceva, per questo imparai ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare.»
L’amore, quella forza che ti getta oltre l’ostacolo, oltre la paura. L’elemento in grado di cancellare quella voragine di cui vi parlavo prima, di cancellare la frattura che divide la realtà giovanile in due estremi, due opposti, come fossero Dr. Jekyll e Mr. Hyde.
L’autostima per un bimbo o per una bimba garantisce una crescita connotata dal desiderio di fare. Quando diciamo ad un bambino: «Sei proprio bravo!», quando ti porta a casa il suo quadernone e grida piena di gioia: «Guardate, la maestra mi ha messo BRAVISSIMA!!!», ecco sono questi i momenti in cui cresce la sua autostima. Sono questi i momenti che non possono essere trascurati. Incoraggiare, esserci, ascoltare, dialogare, giocare, leggere, scrivere, dipingere, ascoltare musica; tutto ciò apre non solo la mente, ma predispone il cuore all’amore. E l’amore è la motivazione più grande che abbiamo per lavorare verso scopi e obiettivi. Senza amore i bambini si spengono. Siamo tutti in dovere di dare amore ai bambini. Lo siamo da genitori, da nonni, da zii e da zie, da maestri e maestre, da educatori, da allenatori… chiunque ha la gioia e la fortuna di stare tra i bambini deve dare amore. È l’antidoto al nichilismo. Ed è ciò che mi ha salvato la vita. Perché sì, pensai spesso di farla finita, di porre fine alla mia vita negli anni in cui ero schiacciata dal bullismo. Ma non ho agito, perché ero amata e amavo a mia volta. E l’amore è ciò che ha permesso al Giudice Borsellino di andare serenamente incontro alla morte. Un amore tanto grande da permettergli di trovare il coraggio di affrontare la cosa che più ci spaventa. Questo è il potere che ha l’amore.
«Non hanno ancora trovato una bomba in grado di distruggere l’amore», dice Salvatore Borsellino, fratello del Giudice Paolo.
Con umiltà e con i sentimenti che derivano dal mio vissuto dico e penso che urga rieducare noi stessi, noi adulti all’amore. Dobbiamo mostrare ai bambini, ai giovani come si fa ad amare, amandoci tra di noi. Dobbiamo usare spesso la parola amore, collegarla a tutte le cose belle che ci circondano. Mettere l’amore e la bellezza in primo piano. Ad ogni immagine, ad ogni avvenimento nefasto contrapporre un esempio di amore incondizionato, come quello del Giudice Paolo Borsellino e di tanti altri che hanno sacrificato la vita, per amore.
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