Quest’anno, causa Covid-19, non posso come gli altri anni commemorare la strage di Capaci. E quindi niente commemorazione al Salone comunale di Forlì e nemmeno fiaccolata per le vie del centro. Tuttavia, sarò impegnato online con oltre 400 studenti di Rimini e con analogo collegamento con un’associazione sedente in diverse parti di d’Italia. Mi preme condividere con lettrici e lettori di Forlì Today, il mio affettuoso ricordo di un uomo, di una donna e di altri uomini. Io penso di essere stato onorato e fortunato d’aver conosciuto e collaborato per anni con un Galantuomo Siciliano, qual’era il magistrato Giovanni Falcone. Incontrai solo una volta sua moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato; mentre non conoscevo i colleghi della Polizia di Stato periti nell’attentato.
Durante la mia attività alla Squadra mobile di Palermo, conobbi anche il Consigliere istruttore Rocco Chinnici, e Paolo Borsellino, ahimè assassinati con autobomba nel 1983 e nel 1992 a Palermo. Il 17 luglio 92 partecipai all’ultimo interrogatorio che Paolo Borsellino fece a Gaspare Mutolo: ero già in servizio alla DIA, Direzione investigativa antimafia. E da dipendente DIA mi interessai delle stragi del 92/93 e con orgoglio evidenzio che noi della DIA compimmo i primi arresti degli autori della strage di Capaci. Ne seguirono altri, sempre e comunque con l’utilizzo di intercettazioni ambientali e pedinamenti. Durante la mia lunga carriera, sono stato insignito da diversi riconoscimenti e premi, (persino dal direttore de FBI Robert S. Mueller III) ma l’encomio ricevuto dalla DIA, per le investigazioni compiute per la strage di Capaci, rappresenta per me un gesto d’amore verso Giovanni Falcone.
La dinamica della strage di Capaci è nota ed io vorrei raccontare due episodi per farvi comprendere chi è Cosa nostra. Dopo la strage, venimmo a sapere che Cosa nostra, alcuni giorni prima, aveva fatto la prova di un attentato per testare il quantitativo di esplosivo da usare poi “nell’attentatuni” di Capaci. In buona sostanza, scelsero una strada secondaria, nel territorio – occupato manu militari – di Altofonte (PA), e imbottirono una cunetta col tritolo facendola poi saltare in aria. Immediatamente dopo, ripristinarono il manto stradale. Io fui delegato di svolgere le indagini e mi recai a Palermo per effettuare un sopralluogo. Localizzai il luogo esatto dov’era avvenuta l’esplosione, ma nessuno degli abitanti riferì di aver sentito il boato dell’esplosione: compilai un dettagliato rapporto per l’A.G.. Se solo avessero fatto una telefonata alle FF.OO., di certo la storia sarebbe stata scritta diversamente.
Ora, con l’altro episodio, voglio farvi rivivere gli ultimi istanti di vita di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Si salvarono, seppure feriti, gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Uno degli arrestati per la strage di Capaci, Gioacchino La Barbera, fu da me sentito e mi raccontò qual era stato il suo compito nell’attentato: doveva seguire il corteo e comunicare a Giovanni Brusca l’avvicinamento delle auto. Egli agganciò il corteo mentre procedeva verso Palermo, percorrendo appaiato una stradina parallela all’autostrada, sino a quando costretto dalla morfologia della strada non fu costretto ad abbandonarlo, ma ormai vicino al punto dell’esplosione. Quindi, dopo aver fatto la segnalazione a Brusca si era eclissato, udendo, tuttavia, il forte boato. A quel punto chiesi di raccontarmi dettagliatamente i fatti e disse: “Ricordo bene che mentre viaggiavo appaiato al corteo. ho visto Giovanni Falcone e gli agenti di scorta che ridevano tra loro”. Ed io subito: “Ma a lei non è passato per la mente che quegli uomini sorridenti andavano incontro alla morte? Non ha pensato per cristiana pietà di salvarli e avvertirli?” E infine chiesi: “Cosa ha provato in quegli attimi?”. “Non provavo niente, era u me travagghiu!”. Era il mio lavoro! Risposta tipica di altri mafiosi, giacché non era la prima volta che la sentivo: anche un altro mafioso al quale contestavo 21 omicidi, mi rispose “era u me travagghiu!”
Io non ho mai dimenticato e mai dimenticherò Giovanni Falcone. L’ultimo nostro momento di svago, fu nel cortile del carcere di Rimini, poco prima di essere chiamato a Roma da Martelli. Quel giorno, dopo l’interrogatorio di due mafiosi, ci concedemmo “un’ora d’aria” passeggiando sottobraccio e fumando, attirando la curiosità dell’agente di servizio sugli spalti: avevamo tanto da dirci! Ma in particolare, parlammo dei nostri amici, i 5 colleghi della mia stessa Sezione investigativa di Palermo, ammazzati dalla mafia negli anni ottanta. Era dal novembre 1989 che non ci vedevamo, l’avevo assistito negli interrogatori di Francesco Marino Mannoia, avvenuti a Roma. L’Italia onesta non meritava di perdere l’UOMO Falcone.
Giuseppe Giordano (fonte: Forlì Today, 15/5/2020)
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