L’assassinio di Fragalà, il Lambro e l’ipotesi di una strategia
E questa consapevolezza intuitiva è sembrata affiorare nelle dichiarazioni e soprattutto nelle mezze frasi corse qualche giorno dopo, durante l’assemblea dei legali al Palazzo di Giustizia palermitano. Come se si fosse ricevuto il segno di un’impazienza giunta all’ultimo stadio, e che la decisione di mandare all’asta i beni confiscati alla mafia non è bastata a sedare. E che, evidentemente, non bastano a sedare le generosissime falle amministrative che vengono ovunque denunciate nella gestione del 41-bis (ultimi, i liberi convegni in carcere tra i boss Graviano e Schiavone). Soprattutto, forse, di fronte ai ripetuti successi di magistrati e forze dell’ordine nella cattura dei latitanti. D’accordo, potrà dire qualcuno: ma che c’entra il Lambro? In effetti. Può darsi nulla. Ma può darsi molto. Il fatto è che a 1500 chilometri di distanza da Palermo, nella Lombardia dove batte il cuore del potere politico a cui i boss indirizzano da tempo le proprie richieste, è stata provocata una catastrofe ambientale. Non è stato incidente, questo è appurato. Bensì sabotaggio, vero e proprio atto di terrorismo ecologico. I cui danni sarebbero potuti essere immensi e coinvolgere in modo ancor più disastroso il Po e la sua pianura.
Sabotaggio professionale, ci è stato detto. Un atto di terrorismo che ha tutta l’aria di essere stato dimostrativo o punitivo o le due cose insieme. Indirizzato contro qualche interesse locale o contro interessi più ampi? La logica (che non sempre si riflette nei comportamenti umani, questo è vero) suggerisce che l’atto sia stato indirizzato consapevolmente contro la collettività. Un po’ come gli atti di terrorismo compiuti contro il patrimonio artistico. L’assassinio di Fragalà e l’attentato al Lambro-Po sono fatti assolutamente anomali. E quindi non facilmente leggibili dall’opinione pubblica. Dunque, in sé, perfettamente funzionali a un eventuale desiderio di irriconoscibilità da parte degli autori. Che è senz’altro in questo momento (vogliamo ipotizzarlo?) il desiderio di Cosa Nostra. La sua presenza sotto traccia sta scritta nel patto che l’ha traghettata nella Seconda Repubblica.
E d’altronde essa sa perfettamente che per ottenere gli agognati benefici legislativi e amministrativi non può esibire tracotanza delittuosa. Ha imparato che dopo gli scoppi di aggressività criminale lo Stato è costretto a contrastarla di più, a non concederle più niente. Deve usare modalità mascherate e il meno sanguinarie possibili. Assassinio di Fragalà e attentato terroristico, per le forme in cui sono avvenuti, avrebbero dunque i requisiti ideali per minacciare selettivamente. Non il paese, ma chi può e deve capire. E purtroppo i silenzi clamorosi non aiutano a stare tranquilli. Perché, ad esempio, il ministro Alfano, che – oltre a governare la Giustizia – bene conosce la Sicilia, ha detto e mai più ridetto che stanno tornando i tempi più bui? Perché si levano allarmi e grida continue contro i clandestini e ogni più piccolo attacco alla nostra sicurezza ed è passato invece nel più gelido silenzio governativo un terribile atto di terrorismo? Siamo davanti alla coincidenza (possibile) di due fatti separati o a qualcosa che sa di strategia e di trattativa?
Fonte: il Fatto Quotidiano (Nando Dalla Chiesa, 25 marzo 2010)
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