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Roberta Gatani al liceo Cottini di Torino: l’eredità di Paolo Borsellino

12/04/2024 – Chiara, composta, appena qualche venatura emotiva nelle parole, che fluiscono nitide, ora taglienti e indignate e ora affettuose e dolci, nella sala dell’aula magna del torinese liceo artistico “Renato Cottini”. È questa la cifra del discorso porto agli studenti e ai docenti dell’istituto artistico da Roberta Gatani, nipote di Paolo e Salvatore Borsellino, autrice di un libro – “Cinquantasette giorni. Ti porto con me alla casa di Paolo” – che è venuta a presentare la mattina di martedì 9 aprile ad alcune classi accomodate sulle sedie dinanzi a lei e ad altre sistemate, invece, nelle aule e raggiunte dal collegamento in streaming adottato per l’occasione. Circa 150 discenti, nel complesso, e un nutrito gruppo di insegnanti.

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Aula magna

Ad affiancare Roberta Gatani, c’erano il Dirigente scolastico del Cottini, l’arch. Antonio Balestra, e alcune componenti delle Agende rosse torinesi: Carmen Duca, responsabile della sezione locale “Paolo Borsellino”, Maria Bergadano e Sandra Carbone. A queste ultime due è toccato il compito di contrappuntare il botta e risposta tra l’autrice e Carmen Duca con la lettura di alcuni stralci del volume. La presenza delle Agende rosse, grazie alle quali è stato possibile dar vita all’incontro, è un fatto ordinario al Cottini, poiché, come si è già avuto modo di spiegare, esiste un accordo sottoscritto tra l’istituto e il movimento creato da Salvatore Borsellino che fa delle sue “agende” un presidio permanente del liceo.

È il preside ad aprire la mattina. Lo fa con un discorso secco, non ampolloso, ma non equivocabile. È necessario, dice, che le verità scomode – a partire dalle stragi del ’92 – smettano di essere mezze verità, è fondamentale che la rabbia porti al disvelamento di queste verità, perché la verità è il fondamento della democrazia e perché la nostra Costituzione ci chiede la verità. Tante cose sono state nascoste, continua, c’è bisogno di coraggio per portarle a galla, la scuola deve poter essere un presidio democratico, anche qui, anche a Torino, attraversata in questi giorni e da anni dal problema delle infiltrazioni mafiose nella vita economica e politica.

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da sinistra verso destra: Sandra Carbone (agende rosse), Maria Bergadano (agende rosse), Carmen Duca (responsabile agende rosse della sezione torinese), il sottoscritto e il Dirigente scolastico del Cottini, l’arch. Antonio Balestra

Prende la parola Carmen Duca, qualche considerazione sull’importanza dell’ospite e sul libro che sta presentando in giro per l’Italia da mesi ormai, e la platea entra nel primo stralcio dell’opera, quello in cui la rievocazione dello “zio Paolo” è amalgamata a quella di Giovanni Falcone, un tutt’uno, un giudice in due persone, una vita intrecciata sino alla fine.

Carmen: «potresti raccontarci di tuo zio e della sua relazione con le persone della sua scorta?» Roberta spiega che il 19 luglio del 1992 aveva 18 anni; suo zio era un secondo padre, perché il suo era mancato quando era più piccina. Un secondo padre che poteva permettersi la dolcezza senza dosarla con la severità, come si fa con i propri figli. Uno zio che viziava, viziava una ragazza «superficiale», come si definisce, poco interessata al lato professionale di Paolo. Ciò fino alla tragedia. Perché dopo via D’Amelio, cominciò a domandarsi: «perché?». È qui che inizia a conoscere seriamente, in modo meno epidermico, il lavoro e l’importanza dello zio, è qui che ha dovuto cominciare a integrare l’immagine domestica di Paolo con quella del magistrato, a lei poco noto. E l’immagine domestica che Roberta restituisce è quella di uno zio simpatico e solare, ottimista, che frequentava spesso la casa delle sorelle Adele e Rita. Anzi, l’ospite del Cottini tiene a precisare che, di norma, i media raccontano che Paolo, quel 19 luglio, era andato a trovare la madre; in realtà, era a casa di Rita, della sorella, e la madre era là.

Lo zio Paolo, nel ricordo, è un uomo burlone, vivace. Uno squarcio domestico ce lo mostra alla porta di casa della sorella; bussava, si sapeva che era lui e i bimbi iniziavano a scappare, perché, non appena entrato, il magistrato austero, lo zio Paolo, li rincorreva, li carpiva e li mordeva sulle guance. «Fatti dare un morso e ti do mille lire». Un ricatto da zio, di fatto mai giunto a felice successo, sostiene Roberta, perché i morsi facevano male e mille lire non erano sufficienti, forse. Questa immagine ilare e scanzonata, l’immagine, per così dire, solare viene meno dopo il 23 maggio, dopo Capaci. È l’inizio dei 57 giorni, l’inizio di una crisi interiore legata alla morte di un uomo che lo zio Paolo sentiva fraterno, anzi, qualcuno che lo aveva sempre preceduto: laurea, matrimonio, magistratura. E la morte. Anche se solo di 57 giorni.

Morto Falcone, racconta Roberta, lo zio Paolo inizia a salutarci. Intende dire che comincia ad allontanare le persone care per proteggerle, è meno affettuoso, va meno frequentemente a trovare la mamma. È così, attraverso questi indizi dall’interno della famiglia Borsellino, che Roberta racconta quei giorni, dei quali, ammette, non ha molta memoria, ha pochi ricordi. Qualcuno di questi ricordi giunge gradualmente, affiora lentamente: ce n’è uno vivido e terribile, lo zio Paolo affacciato alla finestra di casa della sorella, che vede l’imbocco della via, che dice, pensando ad alta voce, «mi faranno saltare in aria qui». Lo dice e si riprende, si rende conto che, per fortuna, sua madre non ha sentito, era in un’altra stanza.

Passa, poi, a dire della relazione di Borsellino con la scorta. Un rapporto che andava ben al di là dell’aspetto professionale. Si interessava di loro, delle loro famiglie, delle loro vite; era interessato che, al ristorante, trovassero posto, fossero accomodati, ancora prima di accomodarsi lui. Erano persone, precisa Roberta, che avevano scelto di stare insieme al magistrato Paolo Borsellino. Erano persone, aggiunge, capaci, competenti, ma nulla potevano contro la potenza di fuoco dell’attentato. Non avrebbero potuto neanche fossero state in venti. «Servivano altre misure, ma non hanno voluto salvarlo». Così, prima della lettura successiva, l’autrice commenta la morte dello zio.

E la lettura ci immette nell’amore di Paolo Borsellino per Palermo, in una delle sue frasi note, divulgate con forza e tenacia dal fratello Salvatore e ora ricordata dallo stralcio tratto dal libro di Roberta: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo cambiare». Dentro questa frase, e a seguito della morte del magistrato, c’è tutta la tragedia interna alla famiglia, il dolore di Salvatore, che, a suo tempo, fece una scelta diversa, andò al Nord, scelta non approvata da Paolo, ancora discussa nell’ultima telefonata tra i due fratelli, prima di via D’Amelio, quando il minore invitava Paolo ad andare via da Palermo. Ma Paolo non lo fece, rimase, lavorando febbrilmente, precisa Roberta, sapendo di avere i giorni contati.

Il riferimento a Salvatore consente a Carmen Duca di portarci alla “Casa di Paolo”, perché Salvatore dopo il 19 luglio, ha scelto Palermo, ha scelto di dare vita, appunto, alla “Casa di Paolo”. Alla domanda su questo spazio, Roberta ha un guizzo negli occhi e le parole supportano questo slancio: «è il mio posto felice». Spiega che è da una confidenza di Paolo al fratello che nasce questo luogo. Il magistrato, spiega l’ospite del Cottini, più volte, nel corso della sua attività inquirente, si era trovato dinanzi uomini che erano stati bambini con i quali aveva giocato, con i quali era stato in classe. «Cos’è successo a quel bimbo? Perché non è diventato una persona perbene?». Salvatore, passando un giorno dinanzi alla vecchia farmacia di famiglia, ha un pensiero, un’intuizione: forse è possibile rispondere allo sconforto di Paolo dinanzi a quegli uomini strappati alla legalità, a quei bambini caduti nella criminalità, forse è possibile dando ai piccoli abitanti della Kalsa un’opportunità di scelta. Ecco, la scelta, la possibilità di andare fuori dai binari obbliganti del crimine.

Per spiegare di cosa sta parlando, Roberta ci conduce tra quei bambini, quelli a cui si rivolge la “Casa di Paolo”. Vivono in condizioni misere, larga parte di loro – spiega alla platea – dimora in case abusive, ex conventi o garage o altri edifici spesso fatiscenti, privi di servizi, con genitori non di rado alle prese con la giustizia, in carcere o a rischio di entrarci. Bambini che hanno un pessimo rapporto con le divise, che frequentano la scuola come un obbligo soffocante, che arrivano alla fine dell’obbligo scolastico e poi abbandonano, magari per diventare corrieri della droga. È con orgoglio che Roberta afferma che, da quando esiste la “Casa di Paolo” cioè da nove anni, larga parte di quei bambini sono approdati alle scuole superiori. Non solo, hanno imparato a sognare. Già, perché quei bimbi non vedono alternative, non sanno immaginarsi nel futuro. E la “Casa di Paolo” diventa una sorta di alambicco che distilla ottimismo, uno spazio che costruisce l’immaginazione, la proiezione oltre un futuro scontato e privo di sbocchi. La scelta, appunto.

I giovani, la passione di Paolo. Roberta racconta che lo zio era solito mettere la sveglia alle 7 del mattino e alzarsi alle 5. Perché?, gli domanda un giorno il figlio Manfredi. «Devo fottere il mondo con due ore di anticipo», rispose Paolo. Ecco, la mattina del 19 luglio, Paolo era sveglio presto, come sempre, stava rispondendo a una lettera di alcuni studenti che lo rimproveravano per non aver risposto a un loro invito e che lo accusavano di essersi montato la testa. Paolo rispose, si scusò, precisò di non aver ricevuto la missiva e che non si era affatto montato la testa, indicò un recapito telefonico e rispose alle domande una dietro l’altra, lasciando inevasa l’ultima, la quarta. Avrebbe risposto dopo, ma non poté più farlo.

Ancora una lettura, stavolta il tema è l’antimafia come movimento culturale, Carmen domanda a Roberta come vede oggi il contrasto alle consorterie criminali. La risposta è ambivalente, c’è stato sicuramente un cambiamento, dopo Capaci i magistrati sono meno isolati, le lenzuola appese alle finestre hanno dato un messaggio forte, di presa di posizione personale contro quel sistema criminale. Tuttavia, aggiunge l’autrice, è cambiata pure la mafia, più subdola, meno eclatante, più ramificata e diffusa – un magistrato, e fa il nome di Silvana Saguto, una dirigente scolastica ecc. -, presente al Nord, per quanto ancora in Settentrione se ne neghi l’esistenza.

Si torna nella “Casa di Paolo”, nell’entusiasmo generato da questa associazione, nella curiosità che desta nei visitatori, nella solidarietà espressa da varie figure, tra cui una preside della Val di Susa in Piemonte che consente un soggiorno in Inghilterra ad alcuni ospiti della “casa”. Roberta precisa che non ci sono finanziamenti statali, non vogliono finanziamenti dallo Stato, ma verità. Il rapporto con Paolo Borsellino è ineludibile, il magistrato ritorna, anche come apparizione. È la stessa Roberta a dire che la visita più bella, come talvolta la sogna, sarebbe quella dello zio Paolo, che lei immagina con la solita sigaretta in bocca, dinanzi la vetrina, con il suo volto e il suo sorriso; getta la sigaretta per pudore, davanti agli ospiti della “sua” casa ed entra.

È così, Paolo è una presenza costante, un interlocutore con cui fare i conti, sempre. Quando la responsabile delle Agende rosse le domanda come sia avere l’eredità di Paolo, Roberta risponde che non se ne sente ancora del tutto degna, sente che deve guadagnarsi per intero quell’eredità, anche se riconosce di aver fatto dei passi avanti. A partire dal lento lavoro di acquisizione della verità ancora nascosta in cui è crollato il mondo famigliare dopo via D’Amelio. Parla dell’agenda rossa, quella cartacea, quella nascosta nella valigetta, parla di questo notes contenuto nella borsa e mai estratto – così come ricorda il sopravvissuto Antonio Vullo – e parla di Giovanni Arcangioli, l’ufficiale colto con la borsa di Paolo in mano immediatamente dopo la strage, di Giuseppe Ayala, che quella valigetta avrebbe ricevuto e che ha fornito cinque, sei diverse versioni ai magistrati.

È il momento di restituire quell’agenda, commenta Roberta. Certo, contiene nomi importanti, e fa riferimento alla questione della “trattativa Stato-mafia”, ma molte di quelle persone non ci sono più. È il momento di trovare una verità. E inizia a rispondere alle domande dei docenti e dei discenti, «cosa possiamo fare?», studiare, formare una mente critica, «com’è possibile che Arcangioli e Ayala non abbiano detto la verità?», si sono trincerati dietro i “non mi ricordo, è passato tanto tempo”, e altre, sino all’applauso finale, che scioglie l’interesse che questa donna composta e tenace ha creato nella platea.

Al termine dell’incontro, alcuni studenti si affollano davanti all’ospite del Cottini, hanno altre domande. Poi Roberta, con le Agende rosse e alcuni docenti, si reca presso la biblioteca dell’istituto, dove viene inaugurata la sezione tematica legata alla legalità e alla mafia: un significativo numero di libri destinati alla lettura entrato al liceo grazie alla generosa donazione degli “Amici della bicicletta di Grugliasco”, in particolare Lorenzo Amadio. con i proventi di una pedalata in bici lo scorso maggio. Un piccolo patrimonio culturale per far sì che gli studenti dell’istituto possano confrontarsi con quel sapere che Roberta Gatani ha indicato quale forma primaria della lotta alla mafia nel nostro piccolo.

Franco Plataroti (www.girodivite.it)

 

 

 

 

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