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Omicidio Caccia, un giallo senza finale. ‘Ignorate le indicazioni della famiglia’

di Fabrizio Gatti – L’omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, da trentacinque anni attende giustizia. L’ultimo colpo di scena è della scorsa settimana: la Procura generale ha avocato l’inchiesta togliendola alla Procura di Milano per presunte lacune nelle indagini. La versione ufficiale circolata nel Palazzo di giustizia sostiene che l’attuale capo della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e il sostituto procuratore Paola Biondolillo abbiano chiesto l’archiviazione del fascicolo, senza approfondire il ruolo di Francesco D’Onofrio, indagato come esecutore dell’agguato. Un fascicolo aperto dal precedente capo della Dda, Ilda Boccassini, e affidato al pubblico ministero, Marcello Tatangelo. Ma non è andata esattamente così. La realtà dei fatti è stata ripristinata da Mario Vaudano, storico giudice istruttore di Torino, nonché amico e allora “discepolo” di Bruno Caccia.

Alessandra Dolci ha infatti ereditato l’inchiesta da Ilda Boccassini quando il termine per le indagini era già scaduto: quindi non poteva fare altro che chiederne l’archiviazione. Vaudano è intervenuto sulla pagina Facebook dedicata ad Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. «Per correttezza di informazione», scrive Vaudano, ora in congedo per limiti d’età, «devo indicare che si menziona il merito dei magistrati inquirenti Boccassini e Tatangelo. Tuttavia la responsabilità delle indagini lacunose a cui è dovuta l’avocazione (da parte della Procura generale, ndr) è stata di questi stessi e non dei loro successori. Purtroppo la precedente gestione della Direzione distrettuale antimafia aveva infatti respinto tutte le richieste di indagini formulate con precisione dalla parte civile, la famiglia Caccia e dall’avvocato Repici».

Aggiunge l’ex giudice istruttore: «È sempre difficile e talora molto triste, ma deve essere detto per onestà intellettuale. Il ruolo dei veri amici è di dire anche quello che non si condivide. Anche da parte di uno come me che vanta una lunga amicizia con Ilda Boccassini…».

Sull’omicidio del procuratore di Torino, assassinato a 65 anni il 26 giugno 1983, alla vigilia di una colossale indagine sul riciclaggio degli incassi della mafia catanese nei casinò italiani, si sono celebrati tre processi. L’ultimo si è concluso lo scorso anno con la condanna all’ergastolo del panettiere Rocco Schirripa, 64 anni, che l’inchiesta condotta dal pm Tatangelo indica come uno degli esecutori. Il secondo procedimento, sempre contro Schirripa, era stato interrotto per vizi procedurali. Il primo processo era invece terminato con una sentenza passata in giudicato nel 1992: condanna a vita come mandante per il capoclan della ‘ndrangheta, Domenico Belfiore, e il movente piuttosto generico secondo cui Bruno Caccia è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità.

Sia Tatangelo, sia l’allora capo della Dda, Ilda Boccassini, non hanno invece trovato riscontri sul presunto coinvolgimento di Francesco D’Onofrio, ex militante dell’organizzazione terroristica “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” e oggi accusato di essere un affiliato alla ‘ndrangheta torinese, tuttora in attesa del giudizio in Appello per il processo “Minotauro”. Di lui aveva parlato un collaboratore, Domenico Agresta, riferendo notizie apprese in carcere secondo le quali Schirripa e D’Onofrio sono gli assassini del procuratore.

Bruno Caccia è l’unico magistrato ucciso dalla criminalità organizzata al Nord. I processi si sono svolti a Milano, poiché è il Tribunale competente per i reati che coinvolgono i pubblici ministeri e i giudici del distretto torinese. Ma esiste un ulteriore fascicolo per il quale il pm Tatangelo con il visto del capo Boccassini ha chiesto l’archiviazione, senza sentire i testimoni segnalati: è la denuncia circostanziata presentata dai figli del procuratore assassinato nei confronti di Rosario “Saro” Cattafi, 66 anni, indicato come presunto mandante, e Demetrio “Luciano” Latella, 64 anni, descritto come uno degli esecutori. Cattafi è un ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan catanese di Nitto Santapaola e viceversa: attualmente è libero sull’orlo della prescrizione, in attesa che la Corte d’Appello di Reggio Calabria ridetermini la pena, dopo che la Cassazione ha accolto il suo ricorso in merito a una condanna per associazione mafiosa, per fatti avvenuti prima del 2000. Latella è invece un ex fornitore di pezzi di ricambio alla Marina militare, ex sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino: un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni nel 1975 e uccisa, nonostante i genitori avessero pagato un miliardo di lire come riscatto.

I nomi di Cattafi e di Latella emergono dalla lunga indagine condotta sull’omicidio del procuratore dal magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. I figli di Bruno Caccia, assistiti dall’avvocato Fabio Repici e come consulente gratuito da Mario Vaudano, per anni hanno cercato e studiato negli archivi giudiziari. E hanno scoperto che è già tutto scritto nella mole di documenti depositata da Di Maggio: Bruno Caccia stava per avviare un’indagine sul riciclaggio della mafia catanese nel casinò di Saint Vincent, dopo l’attentato al pretore di Aosta, Giovanni Selis, sopravvissuto all’esplosione della sua Fiat 500. Solo che tutte queste informazioni sono rimaste chiuse nei faldoni. E l’indagine di Francesco Di Maggio, storico nome dell’antimafia milanese scomparso nel 1996, ha portato a una ricostruzione molto più limitata nei fatti e alla condanna del boss della ‘ndrangheta, Domenico Belfiore. Ricostruzione ufficiale che, ancora oggi, esclude il coinvolgimento della mafia catanese.

La prima denuncia circostanziata dei figli del procuratore contro Cattafi e Latella viene presentata nell’estate 2013. Ma Ilda Boccassini dimostra subito di non condividere i risultati della controinchiesta suggerita dalla famiglia Caccia. Tanto che, pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, il fascicolo viene iscritto a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». I figli Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono e nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano una seconda denuncia, con nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Direzione distrettuale antimafia di allora iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il magistrato Mario Vaudano si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale.

La denuncia dei familiari viene finalmente iscritta come omicidio. Ma nel giro di qualche mese, a fine 2015, la Direzione distrettuale antimafia arresta Rocco Schirripa mentre per Cattafi e Latella viene chiesta l’archiviazione. «In conclusione», scrive il pm Tatangelo, «gli elementi acquisiti, per le ragioni esposte, paiono del tutto inidonei a sostenere adeguatamente l’accusa in giudizio, sia per Cattafi, sia per Latella». Arriviamo così a oggi. L’11 settembre scorso, durante l’udienza preliminare, i figli di Bruno Caccia si oppongono all’archiviazione della loro denuncia. Da quel giorno il giudice si è riservato la decisione e non si è ancora espresso.

Secondo l’avvocato Repici, sarebbe stato doveroso sentire la testimonianza dei colleghi con cui il procuratore lavorava: Francesco Marzachì, Marcello Maddalena, Francesco Saluzzo, Giorgio Vitari e Ugo De Crescienzo. Perché potrebbero tuttora aiutare a capire cosa intendesse Bruno Caccia quando, poche ore prima di essere ucciso, si confidò con il figlio Guido: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora».

Ma né il figlio né i colleghi di Bruno Caccia sono mai stati sentiti in Procura. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, e il suo sostituto procuratore generale, Galileo Proietto, hanno ora la possibilità di estendere l’inchiesta. A cominciare dal ruolo del Sisde, l’allora servizio segreto civile che, come ricorda il legale della famiglia Caccia, per la strage di via D’Amelio è oggi sinonimo di depistaggio: mentre a Torino fin dai primi mesi dopo l’agguato gli 007 del Sisde, con la loro partecipazione diretta e abusiva alle indagini, hanno potuto contribuire alla versione ufficiale della vendetta personale del boss Domenico Belfiore. Una versione che secondo i familiari è smentita dalle carte, dimenticate nei faldoni del primo processo. Basterebbe leggerle.

Fabrizio Gatti (L’Espresso, 29 novembre 2018)

 

 

 

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