Palermo, 19 luglio 1992: via Mariano D´Amelio
Ci rincuora solo la fiducia che riponiamo nella procura diretta dal Sergio Lari che, siamo certi, non lascerà nulla di intentato per cercare di scoprire dove sia l’agenda rossa di Paolo Borsellino e soprattutto la portata di quanto in essa contenuto.
Paolo Borsellino aveva capito quali equilibri si stavano stabilendo in quel periodo, al prezzo della vita di Falcone e della sua se non avesse acconsentito, come fece, ad accettare l’ignobile accordo sul quale da allora si regge, drammaticamente, questa nostra specie di Repubblica.
Se lo ha scritto e se l’agenda non è stata distrutta è una formidabile arma di ricatto ed è per questo avvolta dalla più fitta coltre di fumo. Quello stesso fumo attraverso cui camminava, che gli piaccia o no, il tenente Arcangioli con in mano la borsa del giudice.
A Salvatore Borsellino e a tutta la sua famiglia tutto il nostro affettuoso sostegno e l’impegno a fare tutto quanto in nostro potere per scoprire la verità così da poter ricambiare l’ immenso sacrificio almeno con la pace che viene dalla giustizia.
A noialtri, tutti, l’obbligo di fare nostro l’esempio di Paolo Borsellino nelle scelte quotidiane che siano di coscienza, di rigore e di altruismo.
Giorgio Bongiovanni e la redazione di ANTIMAFIADuemila (fonte: www.antimafiaduemila.com)
(ANSA) – ROMA, 18 FEB 2009 – “La sentenza di proscioglimento è giustizia, una giustizia alla quale non mi sono mai sottratto, ma che anzi ho ricercato con ogni forza ed energia anche rinunciando alla prescrizione”. Così il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli commenta, per il tramite del suo difensore Diego Perugini, la decisione di ieri della Corte di Cassazione di respingere, per inammissibilità, il ricorso della procura di Caltanissetta contro il proscioglimento dell’ ufficiale dall’accusa di aver preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino poco dopo la strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992. “Non bisogna dimenticare – aggiunge Arcangioli, sempre attraverso Perugini, legale insieme con Adolfo Scalfati – che tra le lecite e doverose indagini e la pura persecuzione a volte il confine è labile. Ed è per questo che non si può non concordare con la dichiarazione attribuita al capo della procura nissena nella parte in cui afferma che la decisione della Cassazione mette ‘fine alla vicenda almeno con riferimento ad Arcangioli’. Anni di scoop televisivi e giornalistici, a colpi di foto, filmati e dichiarazioni che mi individuavano, nella logica del puro sospetto, come colpevole quando ancora non ero neanche formalmente indagato, rappresentano di per se una pena alla quale non dovevo essere sottoposto. Semmai sarebbe il caso di guardare altrove”.
(ANTIMAFIADuemila n°59, 18 luglio 2008)
La Procura si appella alla sentenza che scagiona Arcangioli e chiude la vicenda dell’agenda rossa di Paolo Borsellino
di Anna Petrozzi
Non ci stanno gli inquirenti e i magistrati della procura di Caltanissetta.
Si sono infatti rivolti alla Cassazione per ricorrere contro la sentenza con cui il giudice Paolo Scotto di Luzio ha ordinato il non luogo a procedere per il tenente Giovanni Arcangioli chiudendo così la vicenda dell’agenda rossa del giudice Borsellino scomparsa nel nulla dal 19 luglio 1992, giorno della strage di via D’Amelio.
I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, spiegano nel seppur breve ma articolato documento le contraddizioni espresse in sentenza così come la illogicità delle motivazioni ma soprattutto il travisamento della prova.
Leggendo la sentenza stupisce come questa effettivamente presenti considerazioni alquanto azzardate a cominciare dal mettere in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice. Anche perché nel corso della fase istruttoria il dato era stato accertato, soprattutto sulla base delle dichiarazioni della signora Agnese Piraino, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini.
Il giudice poi, assumendo parzialmente la testimonianza dell’agente Vullo, unico superstite, il quale ricordava, ma molto confusamente, che il giudice potesse avere qualcosa in mano quando uscì dall’auto, ritiene che l’agenda potesse essere stata estratta dalla borsa durante il tragitto e che il giudice la tenesse sotto il braccio mentre si accendeva una sigaretta. Questo dettaglio invece il Vullo lo rammenta nitidamente.
Tuttavia, spiegano i magistrati inquirenti, quel pomeriggio, alla guida dell’auto, vi era lo stesso Borsellino, essendo domenica, infatti, non era presente l’autista del Ministero. Quindi è difficile pensare che il giudice abbia estratto o consultato quell’agenda, che non era quella su cui appuntava le necessità quotidiane, durante il viaggio né che tanto meno se la sia portata con sé nel momento di andare a citofonare alla madre.
Prendendo in esame poi i rilievi tecnici e le comparazioni effettuate dagli esperti della polizia scientifica sui detriti presenti sull’asfalto il giudice, secondo i magistrati, avrebbe inteso come plausibili gli input iniziali, quelli da qui partiva l’ipotesi preliminare, cioè che l’agenda potesse essere finita sulla strada (perché forma e colore di alcuni detriti potevano richiamarla) o che potesse essere andata in parte bruciata e per tanto si sarebbero dovuti trovare oggetti simili alle pagine bianche, posto che l’agenda fosse aperta. Gli esiti conclusivi dell’indagine però escludevano questa possibilità, perché l’auto in cui viaggiava il giudice era rimasta sostanzialmente intatta e al suo interno la borsa era stata solo in minima parte lambita dalle fiamme, il contenuto infatti era sostanzialmente integro.
Il giudice insinua poi che potrebbe esserci stata una seconda borsa con all’interno l’agenda che sarebbe potuta rimanere distrutta nell’incendio, ma questo dato contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa.
Si passa poi all’analisi delle immagini filmate in cui si vede nettamente il tenente Arcangioli allontanarsi dalla blindata del magistrato con in mano la sua borsa.
Secondo la ricostruzione fornita dallo studio dei frames la procura era stata in grado di sostenere come Arcangioli, una volta venuto in possesso della borsa, si fosse allontanato dal luogo dell’esplosione per dirigersi in senso opposto verso via Autonomia Siciliana dove erano state parcheggiate le auto delle forze dell’ordine giunte sul posto. Per questo ipotizzavano che il tenente si sarebbe allontanato per sottrarre l’agenda rossa e consegnarla a qualcuno per poi fare ritorno verso la blindata del giudice e rimettere la borsa dove l’aveva trovata.
Il gip invece non ritiene possibile tale ricostruzione mettendo in evidenza come le immagini non possano restituire con esattezza il preciso percorso del tenente e nemmeno quanto tempo possa avere mantenuto in suo possesso la borsa, e che, essendo la strada che incrocia via D’Amelio piena di addetti ai lavori, non si possano considerare gli altri luoghi come privi di interesse investigativo o di ogni presenza istituzionale così da ritenere il movimento dell’ufficiale fortemente sospetto. In realtà è lo stesso Arcangioli che, non avendo fornito alcuna spiegazione ai suoi movimenti, rende il suo comportamento fortemente sospetto e tuttora immotivato.
Secondo il giudice poi non è da escludere che l’intervento dell’assistente di polizia Maggi, che ha dichiarato di avere preso la borsa del magistrato, fosse avvenuto prima di quello dell’Arcangioli. Considerato che la borsa fu portata in questura il giorno dopo (e non quattro mesi dopo come si legge in sentenza) è lecito dedurre che secondo il giudice vi sarebbe stata una seconda borsa poi definitivamente scomparsa. Un’ipotesi assurda che non è supportata né dai rilevamenti tecnici né dalle dichiarazioni dei familiari di Borsellino che riconoscono nelle immagini la medesima borsa.
Inoltre la ricostruzione temporale basata sulle dichiarazioni e sui frames consente di affermare con sufficiente certezza che il Maggi arrivò sul luogo della strage dopo Arcangioli poiché la strada era già piena d’acqua, quindi dopo l’intervento dei pompieri, e la borsa stessa del giudice era inzuppata perché l’auto blindata era stata investita da un ritorno di fiamma e per questo spenta dai vigili del fuoco.
In merito alle dichiarazioni rilasciate innanzitutto da Arcangioli e poi dagli altri protagonisti della vicenda chiamati in causa proprio dall’ufficiale dei carabinieri, il gip pone sostanzialmente sullo stesso piano la posizione dell’imputato e quella dell’on. Ayala accorso in via D’Amelio pochissimi minuti dopo l’esplosione, dato che abitava vicinissimo. Il deputato in effetti fornisce una testimonianza contraddittoria rispetto al suo interagire con la borsa che comunque ricorda di aver visto e di non aver preso in consegna, non essendo più un magistrato. Resta il fatto che sia l’ufficiale addetto alla sua scorta Farinella che il giornalista Felice Cavallaro, anch’egli accorso tempestivamente, hanno testimoniato che una volta presa la borsa era stata consegnata ad un ufficiale in divisa presente nei pressi. Né Ayala né Farinella sono in grado di dire se questi fosse Arcangioli o meno.
E comunque questo non spiega cosa facesse Arcangioli in via Autonomia Siciliana con la borsa in mano. E nemmeno entra in contraddizione con le dichiarazioni dell’Isp. Garofano che ricorda di essere stato fermato da un soggetto che si sarebbe qualificato come appartenente ai servizi il quale “o aveva la borsa in mano o gli avrebbe chiesto della borsa”. Più verosimilmente, scrivono i procuratori, doveva trattarsi di qualcuno che chiedeva informazioni perché altrimenti non avrebbe avuto alcuna necessità di riferire della borsa avendola già in possesso. Questa presenza in realtà depone a favore della tesi per cui sul luogo della strage (e probabilmente anche contestualmente al delitto come suggeriscono le sentenze) vi fossero soggetti rimasti ignoti che avrebbero potuto collaborare con l’imputato per far sparire l’agenda.
Insomma tutto giace ancora nel campo delle probabilità, delle ipotesi e delle deduzioni e niente sarebbe stato più necessario della celebrazione del processo per sondare fino in fondo dichiarazioni, ricostruzioni, elementi probatori e gli infiniti misteri che circondano la strage di Via D’Amelio.
Confidiamo fortemente che la Cassazione voglia accogliere il ricorso presentato dalla Procura cosicché, qualsiasi sia la formulazione tecnica del reato, si possa procedere a carico dell’Arcangioli. Chissà che gli si possa schiarire la memoria.
La memoria si onora solo con la verità
(ANTIMAFIADuemila n°59, 18 luglio 2008)
di Giorgio Bongiovanni
Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina sono stati assassinati da Cosa Nostra su mandato esterno, cioè per volontà di chi considerava il giudice Borsellino un ostacolo agli interessi politico-economici e criminali che proprio in quegli anni stavano per essere rinnovati per favorire i futuri equilibri nazionali ed internazionali. Dopo anni di studio su carte processuali e colloquiando con i testimoni di quel tempo mi sono fermamente convinto che il giudice fu eliminato con tanta fretta poiché venne a conoscenza di qualcosa di veramente scioccante che di sicuro non avrebbe potuto tacere e che probabilmente annotò nella sua ormai famosa agenda rossa. Sparita. E’ vero, era nella lista della resa dei conti di Cosa Nostra, se Riina e compagni non avessero ottenuto ciò che volevano sicuramente sarebbe stato il prossimo dopo il nemico numero 1, Giovanni Falcone. Ma quell’accelerazione improvvisa che impensierì persino i capi mafiosi più navigati fu il risultato di un input esterno. Borsellino lo aveva capito. Sapeva che mettendosi di traverso in un ingranaggio perverso accettato se non condiviso da tutti significava morte certa e sapeva che Cosa Nostra sarebbe stata lo strumento consenziente e consapevole di volontà più alte, più pericolose, più potenti.
Non fece mistero di questa sua certezza, lo disse e lo ripeté più volte a chi gli era più vicino.
“Non sarà Cosa Nostra ad ammazzarmi, saranno altri a chiederglielo”
Sono trascorsi sedici anni da quel giorno e non solo non si è giunti a stabilire una piena verità né sull’esecuzione né su moventi e mandanti, ma assistiamo allo smantellamento del grande lavoro giudiziario iniziato da Falcone e Borsellino per dimostrare che Cosa Nostra non era e non è solamente una banda di criminali violenti da contrastare con l’esercito, ma un tassello inserito in un puzzle di elementi parimenti criminali che con la mafia condivide metodi e scopi. E forse Cosa Nostra, nella sua dimensione più brutale, è stata usata e gettata, un po’ come le Brigate Rosse e l’eversione nera, e ora annaspa mentre i ben più protetti complici e referenti vivono e si muovono perfettamente inglobati tra gli assassini “per bene”.
Per i lavori sporchi esistono anche le altre mafie o si possono sempre riesumare gruppi di estremo terrorismo.
Anche quest’anno ci apprestiamo tutti a commemorare Paolo Borsellino, gli agenti della sua scorta e a ricordare tutti coloro che prima e dopo di loro sono stati vittima dei connubi di potere che gestiscono il nostro Paese e il mondo intero. Penso che l’unico modo di rendere onore a tutti questi martiri e in particolare a Paolo Borsellino alla cui figura mi sento particolarmente legato sia proprio quello di non darsi per vinti, di cercare, di spiegare, di smascherare il volto dei suoi veri assassini.
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