L’emozione. L’emozione che da bambino non ti fa dormire la vigilia di Natale. Ecco, quella: la stessa. L’autostrada, tirata a piombo, da Bruxelles a Milano e poi via, da Milano fino a Roma. Non sentire la stanchezza, un’agenda posata sul sedile posteriore, rossa. Le commesse all’Autogrill: “Ieri un signore mi ha chiesto di un nuovo giornale appena uscito, con un nome corto. Iniziava per effe”. Un fresco profumo. Roma, l’asfalto caldo del grande raccordo anulare. Alla reception dell’hotel: “Ma che è? C’è qualche gita scolastica? Come mai tutti ‘sti giovani a Roma?”. Il caldo soffocante della Linea Blu. Garbatella, Piramide, Circo Massimo. “Signora, sa dove si trova piazza Bocca della Verità?”. “No, ma anch’io ci sto andando”. Le sterpaglie tristi e secche del Circo Massimo. Quella sensazione. La sensazione di star facendo qualcosa di bello, di grande, di giusto. In mano la stessa agenda, rossa.
La piazza brulicante, in attesa. Centinaia di voci, sguardi, volti. Riconoscere tra di essi quello dolce, serio, forte di Sonia. La calca affettuosa attorno a Salvatore. Cellulari, macchine fotografiche, videocamere, microfoni, taccuini, agende, immagini, mani che stringono, braccia che abbracciano, una dedica per piacere, la pazienza infinita di Salvatore. Paolo, mi fai un autografo? Paolo, per piacere, un autografo. Un autografo. Come si fa con i piloti di Formula Uno. Solo che questa gara è ben diversa. Paolo si volta, ma ha il volto di Salvatore. Non importa. In fondo, sono la stessa cosa. L’accento modenese di Marco, inconfondibile. Scoprire di conoscersi da sempre. L’esercito di Pino, capitanato da Roberto, l’uomo instancabile, sempre presente. Seduto, ma sempre presente. Il sole che ti strappa gocce di sudore dalla pelle. Il megafono di Serenetta. Il corteo che parte, timido. Apri gli occhi, osserva. Il megafono di Sebastian. Non chiudere le orecchie, ascolta. Il megafono di Federica. Solo così sentirai il fresco profumo di libertà. La massa che si muove, lenta. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Su le agende, su le agende. Si sollevano le agende, tutte, rosse. Quanti saremo? Cinquecento, mille, duemila? Che importa? Fuori, la mafia, dallo stato. Il ritmo che avanza, il ritmo che sale. Salvatore che guida, guardando avanti. Una mano che regge lo striscione, l’altra che regge l’agenda, rossa, ben levata in alto. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui. Fuori, Dell’Utri, dal senato. I turisti cinesi che si fermano e fotografano. I turisti italiani che si fermano e osservano, con aria stralunata. La voce sale, più convinta, meno timida. In fondo sono loro che si devono vergognare. L’altare della patria che ci guarda di traverso. Il Campidoglio con il sindaco chiuso dentro. O forse no. Le persiane serrate, per il caldo. O forse no. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Via delle Botteghe Oscure. Stop. Il megafono di Gioacchino. Il ricordo di Berlinguer. Via. La strada che si stringe. Le ombre che si allungano. Lo striscione ripiegato altrimenti non si passa. Fuori, la mafia, dallo stato. Più forte. Fuori, Mancino, dal CSM. Più forte. Fuori, l’agenda, di Paolo Borsellino. L’eco che risuona, rimbalza sconnessa sui palazzi. Sconnessa, ma forte e sincera. Le facce divertite dei turisti giapponesi. Le facce impaurite delle signore sedute al bar. L’agenda sempre in alto, rossa, per un’ora e mezza. Fa male al braccio. Ma a Salvatore no. Il suo braccio è quello più proteso, levato come un vessillo. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Io ho camminato inseme ad Agostino, ho camminato insieme a Claudio, insieme ad Emanuela, insieme a Vincenzo, insieme a Walter. La luce che torna. La piazza che si spalanca. Il profilo imponente di Sant’Agnese in Agone. Il palco. Il fischio del microfono. La calca che si distende e si scioglie nell’estuario di Piazza Navona. Fuori, l’agenda, di Paolo Borsellino. Gli ultimi rivoli della coda del corteo. Un’anziana, seduta, stranita: “Ma che è?”. “E’ la manifestazione indetta da Borsellino”. “Chi? Paolo?”. “No, signora, Paolo è morto”. La signora è risentita: “Ma no! Io dico il fratello!”. Che idiota che sono. Ha ragione lei. In fondo sono la stessa cosa. Io, vi giuro, mi gira la testa. La gente addossata alle transenne. Gli striscioni posati per terra, di fronte. Viva Caselli e il pool antimafia. Si ricomincia. La voce di Serenetta che rimbomba dagli altoparlanti, rotola sul ciottolato e rimbalza sui palazzi. L’apertura di Salvatore, polo blu, voce roca, emozionata, ma potente. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Io ho camminato inseme ad Agostino, ho camminato insieme a Claudio, insieme ad Emanuela, insieme a Vincenzo, insieme a Walter. Io vi giuro: ho camminato insieme a loro. Perché i loro pezzi sono dentro il cuore di ciascuno di voi. Benny che corre su per gli scalini del palco. Un grido che spacca il microfono. Io non so se il parlamento è mafioso, ma fa di tutto per sembrarlo. Il pugno che colpisce, ritmico, il leggio. La rabbia trattenuta a stento. Gli applausi, le agende, macchie rosse sopra le teste. L’orgoglio calabrese di Pino. Perfetto, in giacca blu. Ma come fa con questo caldo? Io potrei essere uno di quei morti vivi. La forza gioiosa di Cecilia. Quattordici anni, ma una grinta da far invidia. 18 luglio 1992. La memoria che torna a quei momenti. Salvatore sul palco, alle spalle di Cecilia, come a proteggerla. Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio. La lettera di Martina. Bellissima ed esatta. Quel leggero senso di vergogna. Di cosa mi occupavo, io, alla sua età? 19 luglio 1992. La voce di Martina che ci accompagna, limpida e trascinante, fino alle 17:58 e venti secondi. Finché ci sarà solo uno di noi che manterrà vivo il tuo ricordo e il tuo impegno. La pacata lucidità di Giulio, che non c’è ma è come se ci fosse. Il microfono inclemente che spezza le sue parole, leggère ma taglienti. Una volta tolta la coperta, basta guardarli dall’alto e sorridere. Come faceva Arlecchino. L’ironia di Marco, cristallina, come sempre. La telefonata di Beppe, tranquilla, stranamente. Parla di Salvatore e lo chiama Paolo. Anche lui. Assorto, le braccia sotto il mento, appoggiate alla struttura del palco, Paolo lo ascolta. Ma ha il volto di Salvatore. Non importa. In fondo, sono la stessa cosa. Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio, troppo pieno di gioia, per tutta questa manifestazione di affetto, questa voglia di giustizia, questa rabbia che io leggo in ciascuno di voi. L’abbraccio lunghissimo tra Luigi e Salvatore. Luigi, alto, forte, prestante. Salvatore, in confronto, minuto e fragile. Le pacche veementi sulla schiena di Salvatore. Pugni d’affetto, come quelli che si scambiano i calciatori dopo un gol. Fai piano, Luigi, ché ce lo rompi. Le denunce, puntuali e appassionate, di Carlo. Vere, trancianti. La sensazione, anche, di una sottile polemica. Il non nominare mai il nome di Luigi nel ricordo di quei magistrati ostacolati nell’esercizio delle loro funzioni. Scorie di passate campagne elettorali? Ma forse è solo una sensazione. La fiera determinazione di una donna, di una madre, ma soprattutto di una figlia. Un cognome pesante: Alfano. A cosa serve mettere il tricolore sulle bare dei magistrati e dei militari se poi, quando la gente scende nelle piazze per commemorarli, mancano i pezzi più grossi delle istituzioni? La bandiera italiana stretta nel pugno di Gioacchino. La maglia, i pantaloni, le scarpe di Gioacchino. Rigorosamente rossi. La notte su piazza Navona. Verità è uguale Giustizia e Verità più Giustizia è uguale Libertà. Non sentire la stanchezza nelle ginocchia. Le agende ancora in alto, a brillare sotto i riflettori. Tutti sul palco attorno a Salvatore. Ha ancora la forza di urlare dal microfono. Ma come fa? Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio, troppo pieno di gioia, per tutta questa manifestazione di affetto, questa voglia di giustizia, questa rabbia che io leggo in ciascuno di voi. Non mi importa se non ho più voce e non riuscirò a parlare. Tanto oggi io so che ci sono degli altri che potranno gridare al mio posto. La voce ancora più rauca, ancora più emozionata, leggermente commossa. Ma il grido è potente e pauroso. Resistere, resistere, resistere. La paura che possa crollare per la tensione. Le mani che lo sorreggono. Portate una bottiglietta d’acqua. Ma lui non crolla. Ma come fa? Anzi si divincola, quasi infastidito. Balza giù dal paco con un salto improvviso. Passa sotto lo striscione. L’energia di un ragazzino. Salvatore che ringrazia uno per uno. Mani che si stringono alla sua mano. Come fanno le rock star. Solo che qui la musica è ben diversa. I fari che si spengono. La fame che morde. Il palco smontato pezzo per pezzo. Le gambe che fanno male. La gente che si ritrova, a gruppetti, a parlare. Questo è proprio l’ultimo avamposto, l’ultimo baluardo di resistenza. Finito questo, è finito tutto. La notte romana. L’attesa infinita davanti ad un ristorante. Ancora dieci minuti de pazienza, signò! Mozzarella di bufala e caponata. Pici e fettuccine. Stracciata ed amaretto. Ma che è tutti ‘sti ragazzi oggi? C’è qualche gita scolastica? Il saluto a Salvatore. Lui è ancora lì che abbraccia e ringrazia tutti. Uno per uno, fino all’ultimo. Con gentilezza e infinita pazienza. Proprio come avrebbe fatto Paolo. Perché, in fondo, sono la stessa cosa. Lui che ringrazia noi. Un’eresia. Il bus fino a Termini. Prima che chiuda la metro. La mattina romana. Brioche e cappuccio. Un giornale nella hall dell’hotel. Parleranno della manifestazione? E’ di Roma, Il Tempo. Magari sì. Un pugno al fegato. Non una riga. In compenso, a tutta pagina, l’articolo vigliacco di Jannuzzi, che gronda di bile e menzogne. Vergogna. Colazione rovinata. Ma solo per un attimo. E’ un buon segnale. Vuol dire che diamo fastidio. Di nuovo in macchina. Da Roma a Milano. Via, sull’asfalto rovente del grande raccordo anulare. L’agenda rossa posata sul sedile posteriore. Fuori il sole è già caldo. E dentro, quella sensazione. La sensazione di aver fatto qualcosa di bello e di giusto. Qualcosa di grande.
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