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Massimo Ciancimino: “Ho dato un volto a faccia da mostro”

Massimo Ciancimino racconta, quasi vent’anni dopo, i rapporti del padre con pezzi di Stato negli anni delle stragi mafiose

“L’anomalia di Palermo, oggi, sono io, uno che parla”. Massimo Ciancimino, un ragazzone che nasconde con difficoltà i suoi 47 anni, scuote da diverso tempo i piani alti dei palazzi del potere. A Palermo come a Roma. E che ha visto da vicino le gesta di papà, Don Vito. Plenipotenziario della Democrazia cristiana a Palermo. Punto di riferimento, secondo quella che è ormai una verità storica e giudiziaria, per la mafia del capoluogo che ingaggiò, perdendola, una guerra, che non voleva, contro i sanguinari ed avidi “viddani” capeggiati da Totò Riina. Fu Vito Ciancimino, il sindaco del “sacco” edilizio di Palermo, a caricarsi sul groppone il peso di una trattativa aperta proprio col fronte stragista di Cosa Nostra per conto di uno Stato che tra il 1992 ed il 1993 non riusciva a stare a galla, né a recuperare credibilità nei cittadini. Provenzano sarebbe stato l’interlocutore privilegiato. Il personaggio più ragionevole e meno sfrontato di Totò Riina che nel “papello”, fatto recapitare – proprio tramite Don Vito – a vertici investigativi del Ros dei Carabinieri che a loro volta informavano i piani alti del Viminale e di Via Arenula.


Questa è almeno la ricostruzione che, a distanza di quasi vent’anni, il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, propone ai giudici di Palermo nell’ambito del processo proprio contro l’ex capo del Ros e, più di recente del Sisde, Mario Mori. La sua accusa è quella di favoreggiamento aggravato nei confronti di Bernardo Provenzano negli anni della sua latitanza. Nel 1996 era possibile catturarlo. Si sapeva dove si trovava e bastava l’ordine di procedere. Quell’ordine non arrivò mai e Provenzano mantenne il timone di Cosa Nostra, amministrando economia e giustizia in Sicilia, attraverso i famosi “pizzini” fino al 2006, anno della cattura. Dieci anni dopo. E la mancata cattura, secondo Ciancimino, fu un prezzo da pagare proprio per le informazioni che Provenzano offrì per consentire la cattura di Totò Riina. Un arresto sulle cui modalità un altro processo, contro il capitano del Ros Sergio De Caprio, ha stabilito – col sigilllo della Cassazione – che la mancata perquisizione del covo non fu una “cortesia” per Riina. Ma un evento fortuito, del quale “Ultimo” non va considerato responsabile.

Massimo Ciancimino oggi è un collaboratore determinante per almeno tre Procure italiane. Quella di Palermo, quella di Caltanissetta e quella di Firenze che indagano su un altro filone incandescente: i mandanti occulti delle stragi del ’92 e del ’93 e la trattativa “Stato-mafia” della quale il padre, Don Vito, fu protagonista. Il figlio di Don Vito assisteva agli incontri, ascoltava i dialoghi, ha fatto l’ambasciatore, ma, soprattutto, ha messo le mani su quel che rimane degli appunti dell’ex sindaco di Palermo. Gli stessi su cui comparirebbero i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. I padri del partito-azienda “Forza Italia” che proprio in Sicilia attecchì con velocità portentosa e sempre nella Sicilia trova un prezioso serbatoio di voti. E Ciancimino ha visto “almeno un paio di volte” faccia da mostro. Ammesso che ce ne sia uno soltanto. Quell’uomo misterioso che diversi testimoni hanno incrociato nei luoghi che hanno segnato la storia recente d’Italia. Fu visto in via D’Amelio il giorno dell’eccidio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Passare su un’autovettura nei pressi della villa all’Addaura usata da Giovanni Falcone come residenza estiva, quando fu rinvenuto un borsone imbottito di esplosivo ad alto potenziale poco prima che incontrasse due magistrati svizzeri coi quali collaborava.

Un volto sfigurato, dall’aspetto rivoltante. Una faccia brutta da guardare che rimaneva impressa nella memoria di chi lo incrociava. Braccio operativo dei servizi segreti a Palermo, secondo qualcuno; un semplice faccendiere con le mani in pasta, secondo altri. Ma che negli anni ’80 aveva contatti col sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, è confermato anche dal figlio Massimo. Raggiunto telefonicamente da Il Punto, Ciancimino spiega di “poter rivelare, al momento, solo poche informazioni” perché su questo tema (il coinvolgimento dei servizi nelle stragi e nella trattativa, ndr) indaga la Procura di Caltanissetta. “Per quel che ricordo io – spiega – potrebbe essere un funzionario regionale ed in questo caso ho bene in mente la sua identità, ma non posso dire di chi si tratta. Di certo non una personalità di alto livello. Non come il signor Franco”. Franco, certo, quel nome, alternato ad un altro, Carlo, che coincide, con un pezzo da novanta dell’intelligence di casa nostra, vicinissimo a Don Vito finché rimasto in vita e, successivamente, al fianco di Massimo Ciancimino. Potrebbero essere due gli uomini col volto sfregiato, da un  ferita o da una deformazione congenita, ricordati come “faccia da mostro”.

“Sono già stato sottoposto ad un riconoscimento fotografico dalla procura di Caltanissetta – racconta Ciancimino – con esito positivo, gli inquirenti sanno”. Si vedeva con Don Vito, questo è certo, perché – continua Ciancimino – “aveva un ruolo importante nell’amministrazione regionale”. Di cosa parlassero, però, non è dato sapere. “Io non posso dire di più” – è secco Ciancimino – che poi torna sul signor Franco. Franco o Carlo? “Si tratta della stessa persona. Io lo chiamavo Franco, ma mio padre a volte lo chiamava Carlo. Un livello molto più alto di quello che lei definisce mostro”. Che forse però ebbe una stretta relazione, collaborazione, o solo un confidente, con Bruno Contrada. Il “mostro” di cui lei ricorda sapeva, ad esempio, della trattativa condotta da suo padre? “No, no. Mio padre… sapeva anche delle sue…” Rapporti col Sisde? “Forse, ma lo consultava per altri motivi”. Ad esempio? “Non posso dirglielo, ma questa persona aveva un ruolo molto importante all’interno dell’amministrazione regionale”.
Però “l’ho visto parlare una volta a casa mia col signor Franco”. Di agenti del Sisde come il signor Franco, suo padre, ne incontrava tanti? “No, ma – aggiunge – non credo che il signor Franco fosse un semplice agente, assolutamente. Apparteneva ad un livello certamente superiore”.

Il mostro, invece, forse non è più vivo. “Si dice che potesse essere morto, ma non lo so. Dalla foto che ho visto non saprei immaginare la data a cui risale”. Invece, quasi sicuramente, è ancora vivo ed operativo il signor Franco. Quell’uomo un po’ consigliere e un po’ burattinaio di secondo livello di Vito Ciancimino pronto ad assistere anche il figlio, Massimo. Finché questi non ha deciso di vuotare il sacco e raccontare tutto quello che sa o ricorda. C’è da fidarsi? “Io racconto quello che ho sentito dire a mio padre e ho consegnato documenti che erano in possesso di mio padre. Poi sarà compito dei magistrati stabilire se quello che dico è vero oppure no”. E lui, che si definisce l’anomalia palermitana, continua a domandarsi: “Perché si discute del perché io parlo, dopo 17 anni, e non della gente che sa e ha perso improvvisamente la memoria?”

Antonino Monteleone (www.ilpuntontc.it, 11 marzo 2010)

 


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