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La semina e il raccolto

di Marcello Campomori

È un vero motivo di gioia poter dire al seminatore che il suo gesto non è stato vano. Ragazzi che incontrano i testimoni della lotta alla criminalità organizzata e poi prendono posizione, approfondiscono cercando ragioni per coltivare la speranza, sono il germoglio che allarga il cuore a chi ha trasmesso la passione civile della legalità e della giustizia. Chi porge il testimone e chi decide di raccoglierlo sono i fili che si intrecciano alla grande storia di chi combatte la paura.

All’Istituto Comprensivo Grosseto 3 due ragazze, Paola e Sandra (i nomi sono di fantasia) stanno preparando l’esame di “terza media” presso la scuola, ora virtuale, G. Ungaretti. «Ho incontrato le Agende Rosse l’anno scorso, e dopo quel giorno ho deciso che quello sarebbe stato il mio argomento da approfondire e presentare all’esame. Falcone, Borsellino e tutti quelli che hanno offerto la vita per la giustizia mi sono sembrati un esempio da seguire», dice una ragazza.

L’altra, ha trascorso diversi anni della sua vita in Calabria e racconta: «Mi sento quasi in dovere verso la mia terra di parlare di questo argomento per far capire il più possibile che la Calabria non è solo quello che viene descritto da molti, cioè una terra di criminali, la Calabria è molto più di tutto questo». Paola e Sandra vogliono essere proprio questo “molto di più”, legarsi al mondo che lotta per la giustizia per rafforzare il fronte e portare il loro contributo.

In un’epoca dove il rapporto tra generazioni è così complesso ci accorgiamo che la via tracciata senza infingimenti da chi offre la vita per tutti rimane la sola credibile, l’unica in grado di lanciare un ponte sul quale giovani e adulti si incontrano trovando un senso alla loro vita. Semi di speranza per dare forza ai nostri ragazzi di compiere i loro passi sentendosi accompagnati.

«La Calabria è una terra VITTIMA (è suo il maiuscolo) di questo sistema mafioso, e quasi mi vengono i brividi solo a pensare agli occhi di molta gente che vive lì, occhi in cui si percepisce la paura. È questo il motivo principale per cui, anche se la gente sa qualcosa che potrebbe denunciare, non lo fa, PER PAURA». La scuola, gli adulti che si riconoscono proprio in quel “molto di più”, a cui queste ragazze vogliono appartenere, riceve questo appello e sussurra con la dolcezza di una madre: «Siamo con voi».

Un grido si leva tra le pieghe di queste testimonianze: «Io mi sono stufata, vivendolo su di me, di presentarmi a qualcuno dicendo che vengo dalla Calabria e capire subito che vengo etichettata come una mafiosa o una criminale. A me si riempie il cuore di orgoglio quando dico di appartenere a questa meravigliosa terra, ne vado fiera e non me ne vergogno nemmeno un po’». Prosegue con calore l’analisi di questa giovane calabrese in terra di Maremma, con la sapienza di chi le cose sa vederle perché le ha toccate con mano: «La ‘Ndrangheta ha preso via via tutto questo potere perché all’inizio è stata sottovalutata, ma ora non è più un fatto che riguarda solo la Calabria, ad oggi la ‘Ndrangheta ha preso spazio dappertutto, è presente ovunque, anche nel nord Italia».

Paola ci racconta che ha conosciuto il contrasto che generano i mafiosi all’interno delle loro famiglie, apparentemente in cima ai loro pensieri, ma in realtà schiave della sete di quel potere feroce che si regge solo grazie alla violenza e al terrore. Vengono infangati anche gli affetti più cari, avvelenati da quell’aria sordida di omertà che confina tutti in una vita da reclusi, condannati ad un ergastolo sociale che i mafiosi si autoinfliggono trascinando con sé chiunque sia legato a loro.

«La mia migliore amica ha un nonno, con me sempre educato e carino, che ora deve scontare ventiquattro anni di carcere. Io con la mia mentalità da bambina non mi ero accorta di nulla.  Questa mia amica, dopo l’arresto, cominciò a star male e io soffrivo con lei e come lei, per me era come una sorella. Poi piano piano ho capito, per questo che ora voglio fare di questa esperienza un trampolino per la mia vita».

Ragazze care, noi ci sentiamo di accogliere questa sfida e continuare sulla strada del contagio della speranza, quella che Paolo Borsellino voleva come il segno distintivo dei giovani che desideravano cambiare le cose. Allora siamo tutti dalla stessa parte questa volta, tutti sui banchi di scuola ad ascoltare le sue parole, quelle di un maestro, diventato tale non per la sua morte, ma per l’offerta della sua vita. «E sono ottimista perché vedo che verso di essa (la criminalità mafiosa) i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta».

A questo testimone della possibilità di un cambiamento profondo della nostra società, aggiungiamo le tante vite offerte, servitori dello stato e i loro familiari, diventate le radici di una speranza per tutti.

Marcello Campomori per l’IC 3

 

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