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La morte di Gino Manca. Il ricordo di Fabio Repici: il suo desiderio di verità vilipeso dalla rozza afonia di tante istituzioni

Attilio Manca, Gino Manca
Gino Manca tra le braccia di suo figlio Attilio

Di Fabio Repici

Era una persona mite. Era una persona garbata. Era una persona delicata. Da quel maledetto 12 febbraio 2004, il professor Gioacchino, per tutti Gino, Manca era soprattutto una persona indifesa, vulnerabile; anzi, definitivamente vulnerata. Quando venne investito dalla notizia della morte di suo figlio Attilio, la mitezza, il garbo, la delicatezza del suo animo si impastarono irrimediabilmente con un carico di sofferenza che divenne la sua prima cifra visibile. Era impossibile non percepirlo, non bastavano l’enorme sua timidezza e il suo senso del pudore a celarlo. E quando poi parlava di come era stato ucciso il suo Attilio e di come il suo desiderio di verità fosse vilipeso dalla rozza afonia di tante istituzioni, quella sofferenza diventava rabbia e, per quanto trattenuta, gliela leggevi negli occhi prima ancora di sentirla dal soffio sincopato della sua voce.

Quando è arrivata la notizia della morte di Gioacchino Manca, non certo imprevedibile dopo mesi di agonia, il primo riflesso mentale, subito dopo la tristezza, è stato il senso di ingiustizia, per il fatto che quell’uomo non abbia avuto in vita verità e giustizia per l’assassinio di suo figlio. Le aspettava, con la fragilità di un bambino, da quasi vent’anni. E da diciannove anni esatti, da quando lo vidi per la prima volta, immancabilmente in compagnia della signora Angela, sempre al suo fianco (o lui sempre al fianco di lei), non aveva mai smesso di chiederle. Per questo io oggi oltre che triste mi sento sconfitto.

Sconfitto perché il trattamento che i genitori di Attilio Manca hanno ricevuto da una parte della società, e prima di tutto dalle istituzioni dello Stato, è indegno di un paese civile. Gioacchino Manca non ha avuto nemmeno l’occasione di vedere in faccia un magistrato, fra i tanti che pure, nel loro ruolo, ricevevano lo stipendio anche per rendere giustizia ad Attilio. Nessuno lo ha mai voluto sentire, per provare a raccogliere dalla voce di un padre qualche piccolo elemento, anche solo un brandello, per ricostruire il martirio che portò alla morte quel giovane urologo, che, nell’uragano che sconvolse la vita del professor Manca, da figlio amato e scienziato ammirato era divenuto perfino vittima, oltre che dei suoi carnefici, anche delle infamie abominevoli di certa immonda borghesia barcellonese, simile nei tratti e nelle pulsioni ai sorci risaliti dalle fogne. Quel fango e quei veleni sono stati fino all’ultimo una ferita nel cuore di un padre che mai avrebbe immaginato che il proprio orgoglio per un figlio precocemente avviato al successo professionale (pensate alla soddisfazione di Gioacchino Manca, il 21 marzo 2001, alla notizia che Attilio, appena trentaduenne, era stato il primo chirurgo in Italia a eseguire l’asportazione di un tumore alla prostata per via laparoscopica) si sarebbe tramutato nell’impegno lacerante a proteggerne la memoria dal fango postumo, messo in circolo proprio al fine di depistare e di nascondere la verità sull’omicidio del suo Attilio.

Gioacchino Manca, però, aveva un’altra qualità, nota a tutti coloro che lo hanno conosciuto, ed era la generosità umana. Io ne sono stato testimone e allo stesso tempo beneficiario. Pure se sempre schiacciato nel morale dall’angoscia di non riuscire ad avere in vita giustizia per suo figlio, non mancava mai di mostrarmi gratitudine per ogni minimo elemento utile trovato lungo il duro percorso alla ricerca della verità. E puntualmente, ogni volta, riusciva ad abbattere la crosta di quella sua immancabile timidezza per dirmi in modo esplicito e con trasporto infantile che lui riponeva la massima fiducia in me e che vedermi e ricevere quella piccola novità era per lui un prezioso sospiro di sollievo: «avvocato – mi diceva – quando la vedo mi sento già meglio!». E proprio con questo spirito, ogni volta che veniva fuori una nuova intercettazione, una nuova rivelazione di un collaboratore di giustizia, un nuovo documento emerso dalla palude dei mille insabbiamenti, il mio primo pensiero era di scappare appena possibile a casa loro a Barcellona per informare lui e la signora Angela, e al contempo non solo dare manforte agli sforzi di quell’eroina che è la signora Angela ma vedere nel viso del professor Manca quel sorriso al contempo speranzoso e timoroso, che però sapevo equivaleva per lui a una grossa carica di ossigeno. Sì, quell’ossigeno di cui negli ultimi tempi, e sempre più dopo gennaio di quest’anno, e ancora di più negli ultimi mesi, aveva sempre bisogno. E anche in questi ultimi mesi, anche quando ormai lo trovavo a letto, era sempre attento a tutte le notizie e agli sforzi per dare giustizia ad Attilio. Perché era quello, da quasi vent’anni, il suo rovello: verità e giustizia per Attilio e tutela dell’immagine di quel figlio che criminali spietati gli avevano portato via troppo presto.

Quel suo rovello è stato però sempre accompagnato dalla mitezza, dal garbo, dalla delicatezza. E dall’amore. Quello grandissimo di padre per Luca, che da solo si è trovato a dover occupare lo spazio esistenziale che nella normalità della vita di prima era condiviso con suo fratello. E quello smisurato, nel senso letterale, senza confini, per quasi sessant’anni, per la sua Angela. Tale che oggi è impossibile a chiunque pensare a uno senza l’altra, a una senza l’altro, a Gino senza Angela, come in quelle foto di tanto tempo fa che li ritraggono giovanissimi e bellissimi, e ad Angela senza Gino, fino alla dedizione totale di Angela per alleviare le sofferenze di lui e alla dedizione totale di Gino di consegnarsi alle premure di lei. Fino all’ultimo giorno e per sempre.

Ecco, in quell’uomo timido che era il professor Manca, la cosa che prima di tutte colpiva era la sua capacità di amare, proprio quella parola grossa, quella inclinazione naturale, dono di pochissimi, a offrire al mondo, e a ogni persona, e a ogni essere vivente, e a ogni elemento in natura (le piante del suo giardino, da anni stuprate dalle pratiche criminali e abiette di qualcuno che definire criminale e abietto forse è poco), e al suo Argo (che a me pareva stare quieto solo fra le sue braccia) quel suo sorriso tenero e il suo affetto genuino e impagabile.

È stato delicato e lieve il passaggio amorevole di Gino Manca su questa terra. Sia ora la terra delicata e lieve a lui.

Fonte: Stampalibera.it

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