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Intercettazioni, l’avvocato Fabio Repici: “Anonimato per i non indagati? Danno anche a chi deve difendersi”

12 Gennaio 2024 – Fabio Repici è l’avvocato che, grazie alle sue indagini, ha riaperto il caso dell’omicidio di Bruno Caccia, magistrato cuneese, all’epoca in forza alla Procura di Torino, ucciso in un agguato di ’ndrangheta il 26 giugno 1983. Nel 2014, analizzando gli atti di un’altra indagine, quella per falsa testimonianza del giudice Olindo Canali (poi assolto), Repici si imbatte in un’intercettazione: il giudice parla con uno scrittore della falsa rivendicazione dell’omicidio da parte delle Brigate Rosse (che infatti smentirono il loro coinvolgimento) e cita Rosario Pio Cattafi (poi archiviato).

Fu un momento determinante nella storia delle indagini sull’omicidio di Caccia. Fu proprio grazie a questa intercettazione, e al lavoro investigativo di Fabio Repici (con l’aiuto dell’ex magistrato Mario Vaudano), che il fascicolo fu riaperto e portò alla condanna definitiva di Rocco Schirripa (fu invece escluso dalle indagini il movente legato alle indagini sul riciclaggio mafioso nei casinò).

Avvocato Repici, con le nuove norme volute dalla maggioranza di governo, sarebbe stato possibile ottenere lo stesso risultato nel caso dell’omicidio di Bruno Caccia?

Assolutamente no. Cattafi e Caccia, citati nell’intercettazione, erano estranei alle indagini. Con questa norma, quindi, non sarebbero stati riportati negli atti. E se non avessimo potuto leggere i loro nomi, nulla di quanto accaduto dopo sarebbe stato possibile. Se queste norme fossero state vigenti non avremmo mai avuto un nuovo processo per l’omicidio Caccia, conclusosi con la condanna definitiva di Schirripa. Ma il caso Caccia è solo un esempio. Se ne potrebbero fare tantissimi altri. La storia giudiziaria italiana è piena di episodi del genere in qualsiasi tipo di crimine, a partire da mafia e terrorismo.

Qual è la sua lettura, da avvocato, della riforma di queste norme?

Partiamo da un presupposto: la verità è laica. Può essere sfavorevole all’indagato, ma può anche giocare a suo vantaggio. Più elementi di conoscibilità dei fatti sono disponibili e meglio è per tutti. Mi pare, però, che qui l’intento sia opposto: difendersi dalla verità.

In che senso?

Nel senso che di volta in volta, a ogni passaggio, se ne toglie un pezzetto. Come se l’unica difesa fosse quella di nascondere i fatti. Mettiamola così: il Processo di Kafka sta diventando realtà. Con queste norme neanche l’indagato saprà chi dice cosa.

Perché?

Partiamo dall’inizio: innanzitutto c’è una questione di linguaggio, di uso corretto della lingua italiana. Prendiamo questa dicitura della norma: ‘Sono, in ogni caso, esclusi i nominativi di persone estranee alle indagini alle quali è garantito l’anonimato’. Se sono ‘esclusi i nominativi’, mi pare chiaro che restino anonimi, quindi è una frase ridondante. A meno che l’obiettivo non sia un altro.

Quale?

Estendere ulteriormente questa garanzia. Ma non si capisce nei confronti di chi. Andiamo avanti: quali sono le ‘persone estranee alle indagini’? A quale categoria fanno riferimento? Ma soprattutto: la garanzia dell’anonimato, nel nostro ordinamento giudiziario, dove la individuiamo? Siamo dinanzi a un disastro.

Quindi è un danno sia per l’accusa sia per la difesa, oltre che per l’informazione.

Certo. Vale sia per l’accusa sia per la difesa. Dobbiamo sempre ricordare che l’intercettazione è un mezzo di ricerca della prova. E che la gente può mentire. Quindi anche le conversazioni intercettate possono contenere delle menzogne o delle verità. Facciamo un esempio. Tizio, indagato per rapina, intercettato fa il nome di un complice, che in quel momento è estraneo alle indagini. Che si fa? Non essendo ‘parte’, secondo la dicitura della norma, non dovrebbe essere citato neanche nei brogliacci. A quel punto l’investigatore – immagino – dovrà stilare una relazione di servizio. E qual è la differenza? Il punto, però, è che l’arbitrio dell’accusa nel censurare una parte d’indagine o valorizzarla diventa dominante. E non è un bene.

Diventano quindi dominanti il ruolo dell’accusa e quello della difesa?

Ipotizziamo che Tizio citi Caio come complice di un presunto assassino. Io da avvocato verifico che Caio, in quel momento, era però morto da tempo. Un’intercettazione simile non solo sarebbe inattendibile, ma potrebbe portare a scagionare un innocente. Il punto è che con queste norme, poiché Caio non viene citato, io, da avvocato, come posso verificare se all’epoca dei fatti era vivo o morto? Per questo le ripeto: il Processo da finzione letteraria potrà tragicamente diventare realtà.

Antonio Massari (Il Fatto Quotidiano)

 

 

 

 

 

 

 

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