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Intercettazioni e disinformazione

Se fino a qualche tempo fa era solo un’ipotesi formulata dai peggiori complottisti, oggi abbiamo la certezza che è in atto una deliberata e scientificamente pianificata “revisione” dei fatti. Un revisionismo orchestrato ad arte da un eccellente apparato di disinformazione che aveva dato i suoi frutti quando si era sfiorata la grazia per Bruno Contrada, proseguita con le dolci parole di Francesco La Licata sul traditore dai capelli bianchi, e che tocca l’apice tra le pagine del settimanale “Corriere Magazine”.

La firma questa volta la mette Pietro Calabrese, new entry del sistema, che in coda ad un articolo dedicato a Giuseppe Ayala, magistrato e pm del Maxiprocesso, assolve con nonchalance un altro giudice, collega di Ayala: Domenico Signorino. Lo chiama Mimmo. Ecco le parole del prode Calabrese: “Quattro dei giudici che tra gli altri iniziarono ad occuparsi del maxiprocesso, due, Falcone e Borsellino, sono stati ammazzati, uno, Mimmo Signorino, è morto suicida perchè stressato dall’incubo di intercettazioni telefoniche (poi risultate inesistenti, ma intanto era stato “mascariato”) […]”. Balle, balle, balle, con un fine che vi dirò dopo. Non c’era nessuna intercettazione in ballo. Nemmeno la voce, tranne che alcuni apparati a lui vicini non gli avessero all’epoca passato la notizia. Le voci che giravano nel dicembre del 1992 non parlavano di intercettazioni, bensì, di un pentito, ritenuto dalla Procura di Palermo “prezioso” e sicuramente attendibile come Gaspare Mutolo, che aveva riferito a Paolo Borsellino, presente il dott. Aliquò, della collusione con Cosa Nostra di Bruno Contrada e del giudice Domenico Signorino.
Ma come Calabrese volutamente ignora, non era la prima volta che Mutolo parlava di Signorino. E non era nemmeno una vendetta contro il pm del Maxi: troppo scontata. Mutolo lo aveva fatto con Giovanni Falcone il 16 dicembre 1991 nel carcere di Spoleto. Falcone: “Ti faccio parlare con il dottor De Gennaro”. Mutolo: “Si , me lo ricordo. E’ quello di Buscetta. La mafia pure lui deve uccidere, quindi non può essere colluso. E per me è una sicurezza. Con lui ci parlo, non con i giudici di Palermo perchè il tribunale è uno scolapasta. Quando lei indagava su Marino Mannoia, noi lo sapevamo prima dei giornali. Tutto quello che succedeva il giudice Signorino lo mandava a dire“.
Signorino si suicida (il che è una tragedia al di là della sua innocenza o colpevolezza) non perchè, come dice il revisionista Calabrese, stressato dalle intercettazioni, ma perchè Mutolo, e altri pentiti stavano cominciando a parlare. Mutolo era stato molto preciso e sincero: aveva detto a Paolo Borsellino che Domenico Signorino era in mano a Cosa Nostra, non perchè fosse un criminale, ma perchè a causa di debiti di gioco era stato aiutato da alcuni uomini d’onore, che secondo le indagini lo avevano favorito anche nell’acquisto di alcuni appartamenti. Racconta anche che i boss Riccobono e Micalizzi si erano recati a casa del giudice, e descrive alcuni particolari dell’appartamento che effettivamente corrispondono.
Ma andiamo con ordine. Smascheriamo gradualmente la falsa notizia targata Calabrese. Mutolo accusava Bruno Contrada di frequentare l’appartamento in via Jung 12, al 16° piano, che gli sarebbe stato messo a disposizione dal costruttore mafioso Angelo Graziano per intercessione di Riccobono, boss mafioso. Questo appartamentino, a seguito di indagini condotte dalla stessa Dia, è risultato essere di proprietà dell’ingegnere Gualberto Artemisio Carducci, costruttore dello stabile, e ceduto in locazione proprio al dottor Domenico Signorino.
Prendete appunti. Il pentito Di Carlo, sta raccontando di aver incontrato la vergine Dell’Utri nel 1980 in Inghilterra ad un matrimonio di Jimmi Fauci, il cui nome si trova nelle inchieste per traffico di droga contro i Caruana-Cuntrera. Dice che alla festa avrebbero preso parte anche Teresi, Gaetano Cinà e l’imprenditore Lillo Adamo. Lillo Adamo è niente di meno che cognato di Domenico Signorino.
Ma non solo. Mutolo dice che Contrada aveva ricevuto dal boss Riccobono una Alfa Romeo da regalare alla sua amante, dice però che non sa se Riccobono provvide di persona all’acquisto dell’auto. Secondo le indagini l’auto risulta effettivamente acquistata nella concessionaria Alfa Romeo di Lillo Adamo (già titolare della “Sicilauto”, con la quale vendeva sempre Alfa Romeo), cognato del pm. Si scopre anche che Riccobono è solito comprare auto da Adamo.
Queste accuse Mutolo le ripete anche il 5 febbraio del 1993 davanti alla Commissione Antimafia. Ribadisce le accuse a Salvo Lima (che si incaricava di addomesticare i processi agli uomini di Cosa Nostra), al giudice Domenico Signorino, colluso con la mafia, a Bruno Contrada e al giudice Corrado Carnevale definito “una garanzia” per Cosa Nostra. Facciamo un salto indietro. Primo luglio 1992. Paolo Borsellino sta interrogando Mutolo a Roma, un attimo prima che Mancino lo voglia al Ministero. Questo ce lo dice non un pentito ma lo stesso Paolo Borsellino. Sulla fiducia, piuttosto che a Mancino, crediamo al giudice. Non si offenda.
Racconta Mutolo: “mi dice di scrivere e di mettere a verbale quello che gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva“. Mutolo vuole che prima però si cerchino riscontri a quello che dice. Non vuole essere considerato bugiardo. Sa che sta parlando dello Stato colluso, e vuole credibilità. Nella nostra storia entra anche un certo Gioacchino Pennino, medico, pentito, definito il Buscetta della politica. Pennino entra a far parte di “Cosa Nostra” alla fine del 1977, nella famiglia mafiosa di Brancaccio. Racconta che che Enzo Sutera gli aveva riferito che il giudice Signorino era nelle mani della loro “famiglia” mafiosa; che tra il Riccobono e Signorino c’era un rapporto talmente intimo che il giudice si accompagnava al Riccobono, latitante, anche in auto, insieme, e ciò per tutelarlo con la sua presenza da eventuali controlli o fermo da parte di organi di polizia.
Ma andiamo al giudice. Signorino ha una grande passione per il bridge. Passa i pomeriggi al “Circoletto” regno del bridge palermitano, con amici e uomini politici locali come l’ ex leader repubblicano in Sicilia Aristide Gunnella, suo amico, condannato nel dicembre 2005 dalla Corte d’Appello di Caltanissetta per il reato di corruzione aggravata, e da sempre considerato molto vicino ad ambienti mafiosi. Era stato Gunnella ad assumere, in qualità di consigliere delegato dell’Ente Minerario Siciliano, alla vigilia delle elezioni del 1968 il capo mafia Giuseppe Di Cristina. Questa amicizia non passa inosservata.
Dopo la partenza di Paolo Borsellino da Marsala, è proprio Signorino che viene mandato a sostituirlo, ma la sua esperienza marsalese dura poco. I due sostituti di Borsellino premono da subito per il suo allontanamento, anche perchè Signorino risultava teste in due procedimenti a carico di Gunnella. Signorino figurava come “persona a conoscenza dei fatti”.
Ora siamo a dicembre. 1992. La stampa sbatte in prima pagina le indiscrezioni sulle parole di Mutolo. Signorino non sembra così sconvolto, non così tanto da far pensare ad una decisione così tragica come quella del suicidio: “Vorrei essere ascoltato subito dai giudici di Caltanissetta“. E ai giornalisti dice scherzando: “Ragazzi, attenti a salutarmi. Coi tempi che corrono anche una stretta di mano potrebbe mettervi nei guai“.
A Palermo sta per arrivare il terremoto. Di li a poco verrà arrestato Bruno Contrada, amico di Signorino. E sembra che Contrada utilizzi questa amicizia come tutela: Gilda Ziino, la vedova dell’imprenditore Parisi, ucciso dalla mafia, racconta che Contrada le avrebbe sconsigliato di parlare con Falcone, e di “rivelare tutto solo al giudice Signorino“. Molto strano.
Ma le intercettazioni, le voce sui controlli telefonici, dove sono? E se anche ci fossero state, se Signorino non fosse stato colluso, quale sarebbe stato il problema? E soprattutto: un pm dovrebbe essere preparato a subire ogni tipo di delegittimazione. Perchè Signorino non ha avuto la forza per difendersi? Evidentemente aveva qualcosa da temere. Riina avrebbe potuto additare Falcone e Borsellino come collusi, perchè nessuno ci provò? Perchè non lo erano.
Il problema non erano le intercettazioni, caro Calabrese. Il problema è che non era più solo Mutolo a parlare di Signorino. Ne parlava Buscetta come “persona avvicinabile” da parte di Cosa Nostra, ne parlava Francesco Marino Mannoia e ne parlava Marchese (“un giudice accessibile“). E con Mutolo siamo a quattro.
Sempre nei primi giorni di dicembre, il giudice aveva ricevuto dal Csm l’ invito telefonico a presentarsi a Roma giovedi’ 10 dicembre, al mattino. Il 2 dicembre viene sentito dai sostituti procuratori di Caltanissetta, Cardella e Vaccara, che non gli chiedono conto delle accuse di Mutolo, ma gli contestano “di aver ricevuto” l’ appartamento di 200 metri quadrati, un superattico su due piani, di fronte al Monte Pellegrino. Inoltre, di “essere intervenuto a favore di alcuni mafiosi arrestati nel blitz dell’ 81 a Villagrazia di Carini” nel quale il padrino Rosario Riccobono sarebbe intervenuto su Signorino, probabilmente attraverso suo suocero, Lillo Adamo, per “aggiustare” la posizione processuale degli arrestati.
Diciassette ore dopo Signorino si uccide. Noi possiamo fermarci qui. Rispettando il dolore dei familiari del giudice.
Il fine di Calabrese, invece, non è solo revisionista, per redimere Signorino. Ma è anche molto attuale, ed è veramente subdolo: fornire un assist a Silvio Berlusconi sul caso “intercettazioni”. Su questi aberranti metodi di indagine che portano alla morte dei giudici, uccisi da altri giudici e dai giornalisti che pubblicano i verbali.
Ci ha provato, se non fosse che lui per Berlusconi ha diretto, nel 2004, Panorama forse qualcuno gli avrebbe creduto. Riprovi Calabrese, magari la prossima volta sarò distratto.

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