Press "Enter" to skip to content

In nome del corvo

alt
Il Palazzo di giustizia di Palermo
 
 Non si ferma l’azione del procuratore Francesco Messineo, del suo aggiunto Ingroia e dei pm Antonino Di Matteo e Roberto Scarpinato. Però l’attenzione sul pool aumenta di giorno in giorno

Lo scirocco porta “pensieri tinti”. E uno scirocco come quello degli ultimi giorni a Palermo non si vedeva da tempo. Già l’aereo fatica ad atterrare a Punta Raisi, fino all’ultimo l’opzione di una deviazione su Catania rimane molto concreta. Appena scesi dalla scaletta, questa specie di “bora” arroventata africana sembra volerti sollevare. Si cammina a fatica fino al pulmino. Quando soffia un vento del genere non si è di buonumore.

Al bar Lux ci aspettano da più di un’ora quando finalmente arriviamo a Palermo. Proprio davanti a questo bancone la mafia ammazzò il vicequestore Boris Giuliano. Uno dei tanti morti dello Stato nella guerra  fra clan che per più di un decennio ha insanguinato questa città fino agli anni delle stragi. Giuliano non è stato il primo e purtroppo neppure l’ultimo. L’appuntamento è casuale, ma qui i simboli contano. Anche quando emergono per caso. «Avete fatto bene a venire proprio ora. Perché è qui e ora che si gioca tutta la partita. A Palermo». L’interlocutore non può avere né un volto né un nome. Ma sa, frequenta, annusa. E fa “pensieri tinti” anche quando non soffia lo scirocco. «I conflitti, ovviamente, vengono tenuti lontani dagli occhi del pubblico – prosegue – e poi si distillano piccole perle di disinformazione da far cadere al momento giusto per colpire la persona giusta». Usciamo, nel vento, e ce ne andiamo verso il Giardino inglese. «Oggi non c’è bisogno né di sparare né di reprimere. La battaglia la giocate voi sui mezzi di stampa e non sapete neppure di essere delle armi. Delle armi e mai caricate a salve». Cosa intende? «Cosa intendo? Ma scherziamo? Qualsiasi fuga di notizia è misurata, voluta, gestita, diretta. Che sia vera o che sia falsa. Che sia “intera” o solo un pezzo. Guardiamo la questione del procuratore capo Messineo. Non era una novità e non era neppure una notizia che suo cognato fosse stato indagato anni fa. Che succede? Nel momento in cui si concentrano attorno a un nuovo procuratore aggiunto “di peso” come Antonio Ingroia, che ha carisma e ha “scuola”, energie e aspettative, e che soprattutto ha in mano indagini scottanti, esce sul giornale la polpetta avvelenata della non notizia sul cognato mafioso del suo capo. Attenzione, una notizia che non c’era, e infatti poi è rientrata. Ma intanto il segnale era stato dato». Dato a chi? «A Messineo, prima di tutto, che ha osato con la nomina di Ingroia modificare gli equilibri consolidati a Palazzo di giustizia. E a Ingroia stesso, che sa perfettamente di essere un obiettivo». Poi l’interlocutore se ne va lasciando, come spesso succede in questa città, i discorsi sospesi a metà. Ha un altro appuntamento che non può attendere per un aperitivo, dice.

Era tempo che a Palermo non soffiava uno scirocco del genere. E non è solo un affaire meteorologico a creare un clima così cupo in città. Dopo le grandi operazioni contro i clan, in particolare la Perseo di dicembre, qualcosa sembra essersi incrinato negli equilibri istituzionali e giudiziari. In coincidenza (sarà un caso?) con l’insediamento di Antonio Ingroia nel posto che venne ricoperto in passato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Procuratore aggiunto, uno dei tanti, ma con nelle mani indagini e coordinamenti di peso. Fra cui essere il destinatario di un nuovo “dichiarante”, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco del “sacco di Palermo” inquisito e condannato anche per concorso esterno con Cosa nostra, che dopo anni di silenzio ha iniziato a raccontare la sua verità. Due piani: quello degli affari e del riciclaggio nella Palermo degli anni 90 (e non solo); e quello più raggelante ancora della presunta trattativa fra Stato e mafia a cavallo delle stragi del 1992. E Ciancimino parla a Ingroia e a un altro pm di Palermo, Antonino Di Matteo. Quest’ultimo nel 2008, appena iniziato a raccogliere le prime dichiarazioni del figlio di don Vito, ha ricevuto una eloquente intimidazione, un razzo da segnalazione sparato davanti alla sua villa da una persona che, successivamente, si è data alla fuga.

Se si dovesse fare un azzardo giornalistico si potrebbe quasi osare un paragone: da un lato il “binomio” fra procuratore aggiunto e dichiarante e dall’altro quello fra Buscetta e Falcone. Qualcuno l’azzardo ha provato pure a farlo, ma se Ingroia è della scuola del giudice ucciso a Capaci nel 1992 con la moglie e i ragazzi della scorta Ciancimino è tutto meno che un neo Buscetta. Buscetta era uomo d’onore, delle famiglie perdenti di Cosa nostra, conosceva e dirigeva direttamente, era parte integrante del sistema di potere del clan anche se sconfitti dai Corleonesi in piena espansione. Massimo Ciancimino invece non è uomo d’onore, ha vissuto all’ombra del discusso e discutibilissimo padre, che di lui si fidava ma fino a un certo punto visto il carattere da “scavezzacollo” del rampollo. E ha avuto a che fare più con i “piccioli” che con i picciotti. Ma parla, e pure troppo. Dopo ogni sua deposizione rilascia battute e non solo ai magistrati. Le pagine dei giornali sono piene di sue dichiarazioni, o meglio “mezze” dichiarazioni. Eppure, nonostante le contraddizioni del personaggio, Ciancimino sta svelando alcuni aspetti totalmente inediti degli affari del padre e delle società connesse al “tesoro Ciancimino” (che rimane tuttora imponente nonostante i numerosi sequestri eseguiti dall’autorità giudiziaria negli anni). E poi quel capitolo che rischia di mettere a soqquadro mezza Repubblica: la trattativa fra Stato e Cosa nostra. E la credibilità di Massimo, a quanto sembra, aumenta. Anche perché, a proposito delle dichiarazioni relative ai “piccioli” viene affiancato da un altro dichiarante, l’avvocato Gianni Lapis. Ecco cosa avrebbe detto, durante l’ultima udienza di Bologna, il figlio di don Vito su chi fossero i soci del padre: «Salvo Lima, Calogero Pumilia, Enzo Zanghì, Pino Blanda, Enzo Cirà  e Carlo Vizzini, personaggi legati alla società del gas di mio padre da vincoli societari». Sommiamo dichiarazioni del genere a quelle per cui sarà sentito nei prossimi mesi anche a Roma in relazione a uno dei presunti protagonisti della trattativa, il generale dei Ros dei carabinieri Mori, e il peso specifico di questo “dichiarante” diventa devastante. Ma l’attenzione sul gruppo di magistrati aumenta di giorno in giorno. Grazie al lavoro del procuratore Francesco Messineo, del suo aggiunto Ingroia e dei pm Antonino Di Matteo e Roberto Scarpinato, l’azione del pool non si ferma solo a questi capitoli spinosi.

La rogna, e qui si parla di criminalità organizzata e non di colletti bianchi o eventuali rapporti con pezzi dello Stato, è la questione latitanti. Sono tre quelli più pericolosi: Messina Denaro, Nicchi e Raccuglia. Ma è su Raccuglia che in questo momento si sta accentrando l’attenzione. Nicchi è in ritirata e Messina Denaro ormai relegato al suo territorio nel trapanese. È proprio novità di questi ultimi giorni che Ingroia risulti essere riferimento del fascicolo dedicato al “veterinario” (questo il soprannome di Raccuglia) da anni introvabile nonostante sia evidente che non si è mai spostato dal suo territorio di origine. Raccuglia è l’uomo forte, papabile per il dominio di una nuova fase di Cosa nostra. Che proprio Ingroia sia titolare dell’inchiesta è una notizia che pesa. E non poco.

Pietro Orsatti (fonte http://www.orsatti.info)

Be First to Comment

Lascia un commento

WP Twitter Auto Publish Powered By : XYZScripts.com