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Gaspare Mutolo: “Mangano non era uno stalliere”

 
altC’è un pittore che cancella tutte le firme dai suoi quadri e riscrive un diverso nome. È la prima volta dopo venticinque anni che può farlo. Prima fu il boss mafioso Luciano Liggio a rubargli l’identità artistica e autografare le sue tele più riuscite. Poi gli toccò usare il nome che si erano inventati per lui quando era entrato nel programma di protezione. Ora, finito di scontare la pena, può uscire allo scoperto: è Gaspare Mutolo, che a Vanity Fair, in edicola dall’11 novembre, racconta una carriera di artista autodidatta che sfiora tutti i nomi della cupola di Cosa Nostra. Ma rivela anche di un mancato sequestro che avrebbe potuto cambiare la storia d’Italia.

Lei è stato condannato per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Poi è diventato il primo pentito del clan vincente, ha aiutato Falcone, è stato l’ultimo a vedere Borsellino nella sua veste di magistrato. E intanto dipingeva. Come ha cominciato?
«Nell’83 finii al carcere di Sollicciano, prima del maxiprocesso, stavo in cella con un altro gruppo di mafiosi, ma ogni mattina passavo davanti a quella dell’Aragonese e rimanevo incantato. Si chiamava Mungo, ma veniva da Aragona e si era dato quel nome d’arte. Aveva l’ergastolo perché aveva ammazzato la moglie per gelosia e buttato il cadavere. Dipingeva benissimo. All’ora d’aria gli andavo vicino. Chiedevo: è difficile dipingere? E lui: se vieni in cella con me t’insegno. Ho chiesto il trasferimento».

Quando arriva Liggio?
«Quando mi trasferiscono a Palermo per il maxiprocesso. Finisco in cella, tra gli altri, con il fratello di Bernardo Provenzano, Salvatore, e quattro nipoti di Liggio: Pino, Luca, Giacomo e Franco. Lui, Luciano Liggio, stava di fronte e passava ore a leggere i filosofi. Un giorno dico a Pino: ma perché tuo zio invece di perdere tempo a leggere non impara a dipingere, che è una cosa che dà benefici? Detto e fatto: Liggio chiede che mi spostino nella sua cella e io divento il suo maestro».

Com’era Liggio pittore?
«Mah. Ci metteva ore per fare una margheritina. Diceva sempre: ah, Gaspare, avessi la tua mano! D’oro hai le mani».

 Ha avuto altri discepoli eccellenti?
«Salvatore Provenzano, che faceva quadretti da regalare alla moglie. E Leoluca Bagarella».

Il vice di Provenzano? Il cognato di Riina? L’assassino del commissario Boris Giuliano e di altri cento?
«Quello faceva solo fiorellini, e malamente».

Invece per lei e per Liggio si pensò a una mostra.
«Eravamo in tre. C’era anche il Vampiro: aveva i dentoni, era il figlio di un commissario, ma ammalato di mafia. Bronzini, si chiamava. Come pittore bravo, però. Ci avevano autorizzati a stare insieme noi tre, per dipingere. Quando lo seppe l’avvocato di Liggio, Traina (…), gli venne l’idea della mostra. Disse: è meglio se esponete uno alla volta, cominciamo con Liggio. Ci rimanemmo male. Ancora peggio quando presero i nostri quadri, soprattutto miei, e li firmarono Liggio».

Poi lei si è pentito ed è uscito. Ha continuato a dipingere?
«Sempre. Quando sto davanti alla tela dimentico di esistere. Non so più chi sono».

Qui però ci tocca ricordarlo.
«Mi sono sempre assunto tutte le mie responsabilità. Sono stato un rapinatore, un mafioso, ho trafficato droga, partecipato a sequestri. Poi ho scelto di collaborare: ho fatto seicento nomi, spiegato centocinquanta omicidi, raccontato i legami tra la mafia e la magistratura, la polizia, la politica. Oggi ho pagato il mio conto, fino in fondo».

Mai avuto la scorta?
«Hanno provato a darmela, più di una volta. Ho sempre detto che se debbono ammazzarmi lo fanno. E meglio allora che non muoia nessun innocente con me e per me. Guardi Falcone. Guardi Borsellino. Se non avessero avuto la scorta morivano lo stesso, ma gli altri no».

Che cosa ricorda di Falcone?
«Uno che capiva. Ho scelto lui per passare dall’altra parte. Chi altri? Poi, morto lui, ho voluto parlare solo con Borsellino».

Fino al suo penultimo giorno di vita. Com’era, alla vigilia della fine?
«L’uomo che teneva una sigaretta in ogni mano. Tanto era nervoso. Era andato a parlare con quelli della polizia e quelli gli avevano detto: “Dottore, se Mutolo ha bisogno di qualcosa…”. Era tornato con quelle due sigarette accese e una domanda: come fanno a sapere che sto parlando con Mutolo?».

Lei ha frequentato più diavoli che santi. È stato l’autista di Riina. Ci andava d’accordo?
«È peggiorato col tempo. È diventato un dittatore sanguinario. Quando ha cominciato a far ammazzare per niente, a far ammazzare le donne incinte, è stata la fine di tutto. Io ho fatto molti errori, ma cose così mai».

Qual è stata l’impresa più clamorosa a cui ha preso parte?
«Una che non andò mai in porto. Negli anni ’70 dovevamo rapire Berlusconi. Manco sapevo che si chiamava così. Ci avevano detto: quello di Milano 2. Allora il capo dei capi era Gaetano Badalamenti e aveva proibito i sequestri in Sicilia. Non c’era problema, con tutti i ricchi che stavano al Nord. Allora li facevamo in Lombardia, roba pulita: mai donne e bambini, niente orecchie tagliate, niente sangue. Trattativa, pagamento, restituzione. Eravamo in diciotto per rapire Berlusconi, c’era anche Contorno. Poi arrivò il contrordine. E dopo, per tenere alla larga Turatello e altri malintenzionati, Berlusconi assunse Mangano».

Lo stalliere?
«Vabbè, stalliere. Quello era uno in gamba, diciamo così»

Tratto da V
anity Fair

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