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Antonella Beccaria, la ricerca della verità

15/04/2024 – Antonella Beccaria è giornalista, saggista, autrice di documentari, podcast e format televisivi. Nelle sue inchieste ha trattato i principali casi di cronaca nera italiana come le stragi di Bologna, di Piazza Fontana, e la banda della Uno bianca. Una chiacchierata in “stile libero” sul difficile mestiere di giornalista.
Come è iniziata la tua carriera di giornalista, e perché ti sei avvicinata proprio alla cronaca nera?

Un po’ per caso, io non volevo fare la giornalista. Nel momento in cui mi sono diplomata e poi iscritta all’università, casualmente mi sono trovata in una redazione. Avevo 19 anni e scoprii che mi piaceva scrivere, andare dietro ai fatti di attualità. Mi piaceva in particolare il fatto che la mattina si uscisse di casa senza sapere cosa sarebbe successo perché tutto dipendeva da che piega avrebbe preso la giornata. Ho iniziato seguendo delle cose molto piccole, come la cronaca bianca e la cronaca politica in piccoli comuni dell’Oltrepò Pavese. Per diversi mesi mi sono trovata a scrivere di consigli comunali, stanziamenti per costruzione e ristrutturazione di tratti fognari, nulla di entusiasmante, ma sapevo che faceva parte di un processo di selezione, e che se avessi dimostrato che riuscivo a seguire quei fatti non particolarmente avventurosi poi ci sarebbe stato qualcos’altro.

Infatti una mattina ero in redazione, accade un fatto di cronaca nera abbastanza grosso, per cui i cronisti strutturati di nera si preparano ad uscire, uno arriva da me e mi dice: “Mettiti il cappotto e vieni anche tu”. Lì è iniziato il mio lavoro. Poi ho cominciato a seguire con costanza la cronaca nera, che significava fare molte telefonate, chiamavo tutti i pronto soccorso, i punti ambulanze, i vari comandi dei carabinieri, polizia, e poi andavo anche di persona nelle caserme un paio di volte al giorno. Sono stati degli anni belli, è stato interessante perché lavorando in nera si ha spesso a che fare con la violenza anche estrema e di conseguenza anche con persone che stanno molto male. Lì bisogna imparare e sviluppare un senso di empatia con le storie e con i protagonisti che direttamente o indirettamente vivono quei fatti.

Alcune delle inchieste di Antonella Beccaria raccontate nei suoi libri

Tra le tue numerose inchieste, quali sono quelle che ti hanno segnato di più?

La prima: era il 1995, da un anno era stata uccisa la giornalista Ilaria Alpi, la storia mi aveva colpito molto, per cui mi ero messa a studiare quella vicenda senza avere alcuna esperienza in fatti così rilevanti. Lì mi sono fatta le ossa, riuscii a scrivere i primi articoli che richiedevano una complessità molto maggiore rispetto a quello che avevo fatto fino a quel momento. Imparai a muovermi in ambienti diversi da quelli a cui ero abituata.

Nel corso del tempo tra le storie di cui mi sono occupata, particolare rilevanza e coinvolgimento ce l’hanno le stragi, quelle che si sono verificate dal 1969 agli anni Novanta. Io mi sono occupata in particolare di quella di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e poi della strage alla Stazione di Bologna, di cui sto continuando ad occuparmi perché i processi sono ancora in corso. Ciò che in qualche modo mi fa pensare di essere nel giusto nel raccontare quelle vicende è il rapporto che si è costruito con alcuni dei familiari delle vittime, alcuni dei sopravvissuti, un rapporto ormai di confidenza, di amicizia, il fatto che loro mi raccontino le loro storie, e in alcuni casi me le abbiano affidate in modo quasi inedito.

Penso alla storia di Marina Gamberini che abbiamo raccontato all’interno della trasmissione di Rai 3 La tredicesima ora, con Carlo Lucarelli. Una storia che mi ha reso molto orgogliosa e anche commossa, perché Marina non l’aveva mai raccontata a nessuno e si è fidata di me, per cui è stata una grossa responsabilità. Avevo molta paura la sera in cui è andata in onda la puntata, e il fatto che Marina si sia riconosciuta in quella storia e abbia detto che era stata raccontata con rispetto, mantenendo la veridicità dei fatti così come lei l’ha vissuta, per me è stato un motivo di commozione.

Da sempre ti occupi di vicende piuttosto inquietanti. Hai lavorato anche con Carlo Lucarelli, il maestro del brivido in Italia, e secondo la tua biografia sul sito del Fatto Quotidiano sei anche un’appassionata di film horror. Ma c’è qualcosa che ti fa paura?

Ah, tutto! (ride, ndr) In qualche modo lavorare su queste storie ti costringe a confrontarti anche con le tue paure, con i tuoi lati più fragili. Guardarci dentro, affrontarli, significa anche forse rafforzarsi come professionisti e come persone.

Nelle mie inchieste non ho mai provato paura a livello di minacce. Qualche volta forse c’è stato qualche episodio strano che mi ha messo sul chi va là, ma senza mai scadere in sindromi da complotto. Sono sempre molto laica quando accade qualcosa di strano e cerco sempre di ricondurlo a un’oggettività dei fatti. Più che altro le paure sono legate a raccontare bene certe storie. Se vogliamo è più una forma di insicurezza, di cautela, per non trascendere nel sensazionalismo, nella morbosità. Il rischio è sempre dietro l’angolo, soprattutto se si ha a che fare con fatti di sangue.

Fotogramma tratto da “Italicus. La verità negata”, regia di Enza Negroni, soggetto e consulenza storica di Antonella Beccaria (2022)

Stefano Pesce in “Italicus. La verità negata”, regia di Enza Negroni, soggetto e consulenza storica di Antonella Beccaria (2022)

Francesca Gabucci in “Italicus. La verità negata”, regia di Enza Negroni, soggetto e consulenza storica di Antonella Beccaria (2022)

Nella tua carriera hai utilizzato davvero tutti i media: come cambia l’approccio del tuo lavoro rispetto al mezzo?

In una prima fase non cambia, nel senso che la fase di raccolta della documentazione, di analisi, di studio della storia è assolutamente trasversale, è sempre la stessa. Si mettono insieme le carte, le testimonianze, si studia fino a quando si ha una padronanza sufficiente della vicenda.

Cambia poi nel momento di stesura della storia, perché ovviamente ogni medium ha le proprie particolarità. Scrivere un articolo per la carta stampata è diverso da un podcast, cambiano i ragionamenti che stanno alla base della narrazione, per cui se lavoro a un documentario ragiono in termini di una scrittura visiva, se lavoro per un podcast ragiono in termini di una forte componente di sonorizzazione a supporto della narrazione.

Fotogramma tratto da “Voci in nero”, regia di Riccardo Marchesini (2012)

Fotogramma tratto da “Voci in nero”, regia di Riccardo Marchesini (2012)

Fotogramma tratto da “Voci in nero”, regia di Riccardo Marchesini (2012)

Fotogramma tratto da “Voci in nero”, regia di Riccardo Marchesini (2012)

Quale preferisci tra questi media?

Mi piace molto l’audio, il racconto in podcast è probabilmente uno di quelli che preferisco, anche se l’audiovisivo, e in particolare il documentario, ha una portata veramente dirompente, importante, perché restituisce uno spaccato a tutto tondo della storia, per cui le parole prendono una forma visiva, vedo colori, vedo atmosfere, per questo è importante.

Posso allungare la mano verso il mio spettatore e trasportarlo in un mondo che in altri contesti si chiamerebbe “immersivo”. È chiaro che lui rimane dall’altra parte dello schermo, non entra dentro, però si trova una realtà così come si era manifestata quando si è manifestato l’evento che racconto.

Dal 2014 insegni alla scuola di scrittura di Bottega Finzioni. Quali sono i valori che vuoi trasmettere ai tuoi studenti?

Soprattutto il fatto che se si vogliono raccontare delle storie che hanno a che fare con la realtà occorre studiare, e tanto. I miei allievi non sempre sono contenti quando si ritrovano addosso centinaia, o più spesso migliaia di pagine, da doversi leggere in un linguaggio molto tecnico che è in genere quello giudiziario. Però mi ha dato soddisfazione in diversi casi vedere che poi in loro nasceva la passione dello scavare nella storia.

Quali sono i modelli a cui ti ispiri?

Ce ne sono diversi, sicuramente un modello è stato Andrea Purgatori, il giornalista che indagò su Ustica, che per primo scrisse che l’aereo era stato abbattuto probabilmente da un missile durante un’azione di guerra non dichiarata che fece delle vittime civili. Andrea lo conoscevo, scrisse anche la prefazione di uno dei miei primi libri, e poi qualche mese prima della sua scomparsa partecipai a una puntata di Atlantide sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Il lavoro che lui ha fatto nel corso della sua vita è stato straordinario.
Dopodiché ci sono i miti classici degli autori, come Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti che scoprirono lo scandalo del Watergate e di conseguenza i libri, gli articoli, i film che vennero tratti dalla loro vicenda. Questi fanno parte delle mitologie tali per cui una ragazzina inizia a pensare di voler fare la giornalista.

Come vedi il futuro del giornalismo?

Io temo che il lavoro del giornalista non abbia delle prospettive così rosee. I posti all’interno delle redazioni sono sempre più contingentati, ci sono delle applicazioni di intelligenza artificiale che hanno iniziato a prendere il posto dei cronisti. Al momento mi vengono in mente trasposizioni di dati di borsa per cui questi sistemi prendono elementi quantitativi e numerici e li trasformano in un linguaggio che sia intellegibile anche per i non addetti ai lavori.
Se per queste funzioni può essere utile, di certo non lascia ben sperare che dei sistemi automatizzati possano prendere il posto di persone che si formano per fare quel lavoro, che sono preparate a lavorare sui documenti. C’è un lavoro per cui la componente umana è imprescindibile.

Federico Dolce (www.emiliodoc.it)

Note:

Antonella Beccaria ha collaborato con “Il Fatto Quotidiano” e ha lavorato a produzioni Rai, Sky e Crime+Investigation come “La tredicesima ora”, “Le muse inquietanti” e “Profondo Nero”, insieme a Carlo Lucarelli. È vicedirettrice della Fondazione Bottega Finzioni, presso cui insegna. A gennaio 2024 è uscito il suo ultimo libro “GOLPE DI STATO – Neofascisti, servizi segreti, P2: tutti gli attacchi a una Repubblica incompiuta” edito da Paper First.

 

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