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Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano

E’ in libreria da poche settimane il nuovo libro di Alfio CarusoMilano ordina: uccidete Borsellino“. Rilanciamo una presentazione del libro fatta dall’autore in una recente intervista curata dal BLOG di Beppe Grillo insieme ad un commento a cura della nostra redazione.

Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano. La mafia è stato il braccio, altri lo hanno armato. Il numero di testimonianze, di pentiti, di indizi che, regolarmente, indicano nella politica e nell’imprenditoria l’origine dei delitti di Capaci e di via D’Amelio potrebbero riempire intere enciclopedie. Cui prodest? Alla mafia non sembra. Da Riina, a Brusca, ai fratelli Graviano il delitto Borsellino è costato il carcere a vita. I giudici al cimitero e i mafiosi in carcere.

E gli altri? I mandanti dove sono? Nessun politico, deputato, senatore, ministro è finito in galera per i due omicidi più eccellenti della Repubblica. Eppure i loro nomi emergono senza sosta, come l’acqua da un catino bucato, una verità che non si può fermare. Troppi ne sono a conoscenza e troppo pochi ne hanno goduto i benefici. Alfio Caruso spiega nel suo recente e inquietante libro: “Milano ordina: uccidete Borsellino” le connessioni tra imprenditori rispettati del Nord, capitali di sangue della mafia e la corsa contro il tempo di Borsellino.

(introduzione tratta dal BLOG di Beppe Grillo www.beppegrillo.it, 31 marzo 2010)



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Fonte: www.beppegrillo.it

Il gemellaggio Milano-Palermo

Mi chiamo Alfio Caruso e ho scritto un libro che si intitola: “Milano ordina uccidete Borsellino” in cui si racconta come la strage di Via d’Amelio nella quale morirono il Procuratore aggiunto di Palermo e 5 poliziotti di scorta sia strettamente collegata alla strage di Capaci in cui furono sterminati Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti di scorta e tutte e due queste mattanze vennero preordinate e compiute per impedire a Falcone e a Borsellino di puntare a Milano perché Falcone aveva capito e aveva quindi trasmesso a Borsellino questa sua idea, che la grande mafia siciliana faceva sì gli affari e i soldi in Sicilia e nel resto del mondo, ma poi investiva i propri capitali e li moltiplicava grazie a una rete di insospettabili soci e alleati che aveva a Milano.
Falcone viene ucciso poche settimane dopo aver pronunciato una frase fatidica: “la mafia è entrata in Borsa” e non era la prima volta che Falcone lo affermava, l’aveva già detto nel 1984 quando si era accorto che uno dei principali boss mafiosi rinviati a giudizio nel maxiprocesso, Salvatore Buscemi, il capo mandamento di Passo di Rigano e dell’Uditore, per evitare che la propria società di calcestruzzi, che si chiamava Anonima Calcestruzzi Palermo fosse confiscata, aveva creato una vendita fittizia alla Ferruzzi Holding e quindi da quel momento incomincia una ragnatela di intensi rapporti tra il Buscemi e la Ferruzzi Holding che fa sì che da un lato la Ferruzzi abbia il monopolio del calcestruzzo in Sicilia, e dall’altro lato sia i Buscemi sia altre famiglie mafiose riescono a riciclare con le banche e le finanziarie nei paradisi fiscali miliardi su miliardi.
Ma Falcone aveva anche ripetuto paradossalmente la frase: “la mafia è entrata in Borsa” in un convegno del 1991 a Castel Utveggio, di cui avrete sentito parlare e che forse oltre a ospitare una base clandestina del SISDE (Servizio segreto civile), forse è stato il luogo da cui hanno azionato il telecomando per far esplodere il tritolo in Via d’Amelio.
Falcone aveva deciso di puntare su Milano e di su tutte le connessioni che ormai lui conosceva e ovviamente è lecito pensare che avesse messo a parte di questo progetto l’amico del cuore, il fratello di tutte le sue battaglie, che era Paolo Borsellino, conseguentemente un minuto dopo la strage di Capaci l’altro obiettivo da colpire è Paolo Borsellino.


Paolo Borsellino e i legami tra imprese del Nord e la mafia

Borsellino in quei 53 giorni che lo separano dalla sua sorte, si era dato molto da fare, aveva compiuto dei passi che avevano inquietato i suoi carnefici, perché Borsellino il 25 giugno incontra segretamente il colonnello dei Carabinieri Mori e il capitano De Donno, in una caserma a Palermo e chiede a loro notizie particolareggiate sul dossier che avevano da poco consegnato alla Procura di Palermo che si chiamava: “Mafia e appalti” e in questo dossier figuravano i rapporti che erano stati ricostruiti, ma chiede anche conto di un’altra inchiesta condotta dal Ros dei Carabinieri a Milano, quella che va sotto il nome di: “Duomo connection” e che aveva visto l’esordio, se vogliamo, sulle scene nel mitico Capitano Ultimo, l’allora Capitano De Sapio  (De Caprio, ndr) e era stata un’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. Quest’ultima aveva anche parlato a Falcone perché tra i due c’era un grande rapporto professionale di stima e di affetto.
Quindi Borsellino chiede ai Ros di entrare a conoscenza di ogni dettaglio, ma Borsellino aveva capito che la regia unica degli appalti italiani era Palermo e ce lo racconta Di Pietro, perché Borsellino, rivela a Di Pietro che è vero che Milano è tangentopoli, la città delle tangenti, ma gli dice anche che esiste una cabina unica di regia per tutti gli appalti in Italia e questa cabina unica di regia è in Sicilia.
Il 29 giugno del 1992, il giorno di San Pietro e San Paolo, il giorno in cui Borsellino festeggiava l’onomastico, riceve a casa sua Fabio Salomone che è un giovane sostituto procuratore di Agrigento che ha molto collaborato sia con lui, sia con Falcone in parecchie indagini, si chiudono nello studio, addirittura Borsellino fa uscire il giovane Ingroia che era il suo pupillo, il suo allievo prediletto, con Ingroia era stato già a Marsala dove Borsellino aveva svolto le funzioni di Procuratore Capo. Si chiude nello studio con Salomone e parlano di tante cose, noi abbiamo soltanto ovviamente la versione di Salomone, crediamo a lui che dice che avevano parlato delle inchieste in corso, però Salomone è anche il fratello di Filippo Salomone che scopriremo essere il re degli appalti in Sicilia e grande amico di Pacini Battaglia, il re degli appalti in tutta Italia e uno dei grandi imputati di tangentopoli.
Quindi Borsellino cominciava a diventare una presenza sempre più inquietante, per coloro che avevano impedito a Falcone di arrivare a Milano e adesso dovevano impedirlo a Borsellino. Quel giorno Borsellino dà anche un’intervista a Gianluca Di Feo, inviato de Il Corriere della Sera e spiega a Di Feo l’importanza di un arresto compiuto poche settimane prima a Milano, quello di Pino Lottusi, titolare di una finanziaria, che per 10 anni aveva riciclato il danaro sporco di tutte le congreghe malavitose del pianeta.
Borsellino dice a Di Feo: Lottusi ha gestito il principale business interplanetario degli anni 80, facile immaginare quale possa essere stata la reazione di quanti, il 30 giugno, leggendo quell’intervista a Milano, avevano avuto un’ulteriore conferma sulla intelligenza da parte di Borsellino di quanto era in atto e di quanto era soprattutto avvenuto, perché poi scopriremo che le società di Lottusi erano molto collegate e in affari con una multinazionale, con una grande casa farmaceutica, con un famosissimo finanziere e anche con alcuni uomini politici.


Milano ordina: “Uccidete Borsellino”

Borsellino è pronto per portare a compimento l’opera di Falcone, però Borsellino sa, come racconta lui stesso alla moglie e a un amico fidato in quei giorni, che è arrivato il tritolo per lui. Sa che la sua è una corsa contro la morte, spera soltanto di poter fare in fretta, ma non gli lasceranno questo tempo. Quello che oggi sappiamo stava già scritto da anni in anni in inchieste, in atti di tribunali, in sentenze di rinvio a giudizio, in testimonianze rese in Tribunale, mancavano soltanto dei tasselli utili per completare questo mosaico e questi tasselli sono stati forniti dalle dichiarazioni di Spatuzza, quest’ultimo cosa si racconta? Ci racconta che lui ha rubato la 126 che poi fu imbottita di tritolo e l’ha consegnata al capo del suo mandamento che si chiamava Mangano, un omonimo di Vittorio Mangano, questo si chiama Nino Mangano e c’era con Mangano un estraneo e per di più poi Spatuzza ci dice che in 18 anni nessuno ha mai saputo dentro Cosa Nostra, chi azionò il telecomando della strage in Via d’Amelio e dove era situato l’uomo con il telecomando in mano.
Spatuzza ci ha anche raccontato che era tutto pronto per uccidere Falcone a Roma, che lui aveva portato le armi, che la mafia, facendo la posta a Falcone, era andata a Roma, lo squadrone dei killer con Messina Denaro, Grigoli, lo stesso Spatuzza, avevano scoperto che Falcone andava da solo, disarmato ogni sera a cena in un ristorante di Campo dei Fiori, La Carbonaia, e quindi sarebbe stato facilissimo coglierlo alla sprovvista, ma poi Riina aveva stabilito che bisognasse uccidere Falcone, come dice Provenzano, bisognava montare quel popò di spettacolino a Capaci. Riina sapeva benissimo che la mafia avrebbe avuto un contraccolpo micidiale dopo un attentato eversivo come quello di Capaci, però evidentemente (era, ndr) convinto di poter riscuotere un incasso superiore ai guasti che ne sarebbero derivati.
Lo stesso avviene per D’Amelio, è un’altra strage dal chiaro sapore eversivo, ma evidentemente viene compiuta perché i guadagni saranno superiori. Riina con la strage di via D’Amelio ha, come ha detto suo cognato Bagarella, lo stesso ruolo che ebbe Ponzio Pilato nella crocifissione del Cristo, non disse né sì né no, se ne lavò le mani, ha raccontato. Da quello che ci racconta Spatuzza possiamo immaginare che siano stati i Graviano a chiedere a Riina il permesso di compiere questa strage e i Graviano erano gli uomini legati a Milano, gli uomini della mafia che più avevano contatti e rapporti a Milano. Borsellino quindi non viene ucciso, come peraltro scrive benissimo la sentenza d’appello del Borsellino bis già nel 2002, perché salta la trattativa tra Vito Ciancimino e il Colonnello Mori perché i Carabinieri respingono inizialmente il papello proposto da Riina, quello è un falso obiettivo. Borsellino viene ucciso per impedirgli di arrivare a Milano e era lo stesso motivo per cui è stato ucciso Falcone e mi sembra che continuare a parlare del fallimento della trattativa sia soltanto l’ennesimo tentativo di nascondere i veri motivi delle due terrificanti stragi del 1992.

Alfio Caruso (Fonte: www.beppegrillo.it, 31 marzo 2010)

Commento

a cura di Marco Bertelli

Vorrei aggiungere un breve commento all’intervista rilasciata da Alfio Caruso al BLOG di Beppe Grillo, intervista che rimanda al libro recentemente scritto dallo stesso Caruso “Milano ordina: uccidete Borsellino”, un testo ricco di informazioni e spunti di approfondimento. 

Tanto nell’intervista quanto nel libro Alfio Caruso mette al primo posto fra i moventi della strage di Via D’Amelio la preoccupazione dei colletti bianchi alleati di Cosa Nostra per l’attenzione investigativa che Paolo Borsellino stava concentrando sull’asse Milano-Palermo, interesse testimoniato da un’intervista rilasciata dal Magistrato il 29 giugno 1992 al giornalista Gianluca Di Feo, dai colloqui che Borsellino ebbe con Antonio Di Pietro, dalle conclusioni della sentenza BORSELLINO BIS e da numerosi altri elementi presentati nel libro. “Dopo quasi vent’anni il movente dell’uccisione di Borsellino – scrive Caruso – è uscito dalle nebbie nelle quali l’avevano avvolto. Più dell’ipotetica opposizione alla trattativa fra i carabinieri e Ciancimino, più del desiderio dell’ala stragista di reagire all’iniziale respingimento del papello, più della volontà di liberarsi di un pericoloso nemico, più della garanzia che l’ampliamento della campagna di morte avrebbe indotto le istituzioni ad abbassare la testa, più insomma del voler fare la guerra per fare poi la pace, sulla sorte di Borsellino ha inciso la condanna capitale emessa da Milano. Gl’intoccabili che avevano gioito per Capaci hanno percepito che Paolo si era posto sulle loro tracce. Per salvaguardare il fruttuoso e consolidato solidazio con Cosa Nostra hanno ritenuto indispensabile liberarsi del gentiluomo dal sorriso dolce. Significa che Milano ordina, Palermo esegue” (Milano ordina: uccidete Borsellino, Alfio Caruso, Longanesi, 2010, pag. 166). Nell’intervista al BLOG di Beppe Grillo Caruso aggiunge che gli “sembra che continuare a parlare del fallimento della trattativa sia soltanto l’ennesimo tentativo di nascondere i veri motivi delle due terrificanti stragi del 1992”.

Ritengo che il libro di Alfio Caruso sia davvero ben documentato. Sono pertanto convinto che questa nuova pubblicazione possa dare un contributo importante ad approfondire il contesto nel quale maturarono le stragi di Capaci e via D’Amelio nel 1992 e a tener viva l’attenzione sulle inchieste in corso per individuare eventuali responsabilità esterne all’organizzazione criminale Cosa Nostra nella pianificazione ed esecuzione di questi eccidi.
Tuttavia non condivido del tutto la conclusione dell’autore
in merito ai moventi della strage di via D’Amelio. Credo infatti che sia davvero difficile individuare un movente predominante rispetto agli altri e cercherò di spiegare le ragioni alla base di questa valutazione personale.

Nonostante il contesto  delle responsabilità in cui maturò l’accelerazione della fase esecutiva della strage sia davvero complesso ed in parte ancora sconosciuto, alcuni punti di riferimento sono stati fissati in via definitiva. E’ sempre necessario tener presente la distinzione tra i moventi che spinsero i vertici di Cosa Nostra a deliberare l’eliminazione di Paolo Borsellino ed i fattori esterni all’organizzazione criminale che determinarono l’accelerazione della fase esecutiva del delitto.
Il nome di Paolo Borsellino era già stato inserito tra la fine del 1991 ed i primi mesi del 1992 in una lista di obiettivi che i vertici di Cosa Nostra scelsero di colpire perchè ritenuti nemici irriducibili dell’organizzazione. Nello stesso elenco comparivano i nomi di alcuni esponenti politici che i capi di Cosa Nostra avevano deciso di eliminare perchè ritenuti non più in grado di mantenere le promesse fatte all’associazione criminale (vedi anche l’intervista di Maurizio Torrealta a Luca Tescaroli del 20 febbraio 2010). L’anomalia o patologia della strage di via D’Amelio consiste nell’improvvisa accelerazione con la quale si giunse alla fase esecutiva dell’eccidio. La sentenza d’appello BORSELLINO BIS ha individuato tre fattori esterni a Cosa Nostra che causarono tale accelerazione interferendo con i meccanismi decisionali della strage.

Il primo fattore è costituito dalla possibilità che Salvatore Riina fosse venuto a conoscenza di un’intervista rilasciata da Paolo Borsellino il 21 maggio 1992 a due giornalisti francesi nella quale il Magistrato menzionava alcune delle “teste di ponte” della mafia al nord Italia citando il mafioso Vittorio Mangano.

Alla fine di Maggio del 1992, dopo la strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell’Utri (Marcello, ndr) e Berlusconi (Silvio, ndr), rapporti che avrebbero potuto nuocere fortemente sul piano dell’immagine, sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di Cosa Nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme amministrative e legislative che conducessero in ultima istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxiprocesso. Con quell’intervista Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica ma anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza. Riina aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. È questo il primo argomento che spiega la fretta, l’urgenza e l’apparente intempestività della strage. Agire prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell’intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario (sentenza d’appello BORSELLINO BIS, capitolo quinto).

Questo primo fattore esterno che influì sulla dinamica delle decisioni di Cosa Nostra riguarda dunque i rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord e rimanda alla pista degli investimenti di Cosa Nostra al Nord Italia che Alfio Caruso considera la chiave di lettura  principale per capire i moventi della strage di via D’Amelio.

Il secondo fattore esterno a Cosa Nostra che spiega l’anticipazione della strage di via D’Amelio fu la “trattativa” avviata nella seconda metà di giungo 1992 da Giuseppe De Donno, capitano del ROS dei Carabinieri, e proseguita insieme a Mario Mori, colonnello del ROS, con i vertici di Cosa Nostra attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

Non disponiamo di riscontri al se come e quando Borsellino abbia saputo della trattativa che era stata avviata. Che la trattativa vi sia stata è stato confermato dal generale Mori e dal capitano De Donno. E che Riina legasse la strage eseguita e quelle pianificate dopo Capaci a questa trattativa ci è dichiarato a chiare lettere da Brusca…Come è agevole rilevare, le indicazioni offerte dai due ufficiali dei carabinieri non permettono di riscontrare la tesi di Brusca di un contributo diretto della “trattativa”, avviata subito dopo Capaci tra il capitano De Donno e Vito Ciancimino, all’accelerazione della strage di via D’Amelio. E’ certo, tuttavia, che fissato il contatto e stabilito che i carabinieri avevano avvicinato il Ciancimino subito dopo la strage di Capaci per prendere contatti con Cosa nostra (al di là di quanto ha detto il capitano De Donno, un uomo esperto come Ciancimino non poteva non comprendere e comunicare a chi di dovere che quei generici discorsi sulle cause della strage e sulle intenzioni e le motivazioni dei mafiosi ad altro non potevano preludere che ad una richiesta di dialogo), la comunicazione di Riina a Brusca (“si sono fatti sotto”) era assolutamente giustificata dal modo in cui quel contatto si era realizzato, rafforzandosi così la convinzione di Riina di poter portare lo Stato a trattare e a fare concessioni a suon di stragi, avendo dimostrato quel primo contatto ai mafiosi che dall’altra parte si brancolava nel buio e si era disponibili ad un “dialogo” o ad una “trattativa”, nella quale far rientrare quei famosi punti del “papello”, la cui esistenza non può essere negata per il solo fatto che la negano i due ufficiali. E’ assolutamente logico pensare che Ciancimino, quando chiese di sapere cosa avessero da offrire gli interlocutori e quando capì che non avevano da offrire in concreto alcunché, abbia capito che non era il caso di presentare le richieste di Cosa Nostra. Ovvero è ben possibile che l’ambasciatore di Riina, Cinà, abbia atteso, prima di autorizzare la presentazione delle richieste dell’organizzazione, di sapere quale fosse il grado di disponibilità ad accoglierle e il grado di rappresentatività dei carabinieri. In tutti i casi, questa vicenda rappresenta un fattore che ha interferito con i processi decisionali della strage. Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante (sentenza d’appello BORSELLINO BIS, capitolo quinto).

Al di là delle intenzioni dei suoi promotori, l’apertura da parte di appartenenti alle Istituzioni di un canale di comunicazione indirizzato a quegli interlocutori (i vertici di Cosa Nostra), in quel momento storico (subito dopo la strage di Capaci) e con quegli scopi (inizialmente l’immediata cessazione della strategia stragista ed in prospettiva la collaborazione di Vito Ciancimino con obiettivo la cattura dei grandi latitanti di Cosa Nostra) ebbe l’effetto di convincere i capi mafiosi che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione mafiosa.


Il terzo fattore esterno a Cosa Nostra che contribuì alla patologia nella tempistica della strage di via D’Amelio
fu la candidatura di Paolo Borsellino a Procuratore Nazionale Antimafia da parte dell’allora ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il quale lanciò pubblicamente la proposta il 28 maggio 1992 (senza aver prima chiesto il parere allo stesso Borsellino) determinando una pericolosissima sovraesposizione del Magistrato.
Borsellino scrisse privatamente a Scotti declinando in modo cortese ma fermo la proposta e lasciando al ministro la decisione se rendere pubblico il contenuto della missiva. L’on. Scotti ritenne di non dare pubblicità alla lettera e di conservarla riservata, limitandosi a darne comunicazione al Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e al ministro della Giustizia Claudio Martelli.

Alla luce di queste conclusioni della sentenza BORSELLINO BIS, ritengo che sia difficile individuare un movente della strage di via D’Amelio prevalente sugli altri. Si tratta piuttosto di un quadro articolato nel quale più moventi concorrono tra loro rafforzandosi a vicenda.

Per illuminare fino in fondo lo scenario delle stragi del 1992-93 sarebbe forse più corretto parlare di “trattative” più che di un’unica “trattativa” fra i vertici di Cosa Nostra e pezzi dello Stato. Nella sentenza BORSELLINO BIS ed in quella sulla strage di via dei Georgofili a Firenze del 27 maggio 1993 è stata infatti accertata l’esistenza di una “seconda trattativa” tra Cosa Nostra e lo Stato. Si tratta di una trattativa che ebbe luogo tra la primavera ed il mese di dicembre del 1992 e che vide protagonista Paolo Bellini, un criminale con trascorsi nella destra eversiva operante nella zona di Reggio Emilia e giá collaboratore del servizio segreto militare (SISMI) nei primi anni ottanta. Bellini fu al centro di una serie di contatti fra membri di Cosa Nostra e rappresentanti delle Istituzioni al fine di recuperare alcune opere d´arte trafugate dalla Pinacoteca di Modena. Questa “trattativa” oltre al Bellini coinvolse il mafioso di Altofonte Antonino Gioé ed il maresciallo dei carabinieri del nucleo tutela del patrimonio artistico Roberto Tempesta.
Infine bisogna ricordare che sono attualmente in corso indagini e dibattimenti su un quadro ancora più ampio inerente altre possibili trattative fra pezzi dello Stato e Cosa Nostra che presumibilmente si sovrapposero alle “due trattative” del 1992 delle quali è già stata accertata l’esistenza o ne furono in parte l’evoluzione. Gli investigatori sono chiamati oggi a raccogliere il testimone delle risultanze dell’istruttoria nel processo BORSELLINO BIS:

Era doveroso riportare il contenuto di questa importante e inquietante testimonianza (del dr. Gioacchino Genchi, ndr), tenuto conto dell’impostazione di alcuni motivi d’appello e delle correlate richieste istruttorie. Attraverso essa abbiamo appreso che i vuoti di conoscenza che tuttora permangono nella ricostruzione dell’intera operazione che portò alla strage di via D’Amelio, possono essere imputati anche a carenze investigative non casuali. Addirittura questo limite sembra possa avere condizionato l’intera investigazione sui grandi delitti del 1992, come è spesso capitato per i grandi delitti del dopoguerra in Italia, quasi esista un limite insormontabile nella comprensione di questi fatti che nessun inquirente indipendente debba superare. Tutto ciò ripropone con attualità la necessità di riprendere nelle sedi opportune le indagini sulle questioni alle quali manca tuttora risposta” (sentenza d’appello BORSELLINO BIS, capitolo terzo).

Nel momento in cui sarà possibile colmare queste “carenze investigative non casuali” ed avvicinare il “limite insormontabile nella comprensione dei fatti” si potrà avere un quadro ancora più completo sui moventi della strage di via D’Amelio e sui nomi delle entità esterne a Cosa Nostra che con questa interagirono nella istigazione e preparazione del delitto. Compito della società civile è quello di affiancare e sostenere in tutti i modi possibili gli uomini e le donne delle Istituzioni che stanno dando del loro meglio per raggiungere questo difficile obiettivo.


LINK:

a) Sentenza d´appello BORSELLINO BIS emessa dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta presieduta dal dott. Francesco Caruso il 18 marzo 2002

b) Il primo capitolo del libro “Milano ordina: uccidete Borsellino”, Alfio Caruso, Longanesi, 2010

 


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