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Una storia di stragi e di misteri

Una storia di stragi e misteri
di Giorgio Bongiovanni


L’ Italia è una Repubblica fondata sul segreto.
Segrete sono le strategie politiche, segrete sono le organizzazioni criminali, segreta è la verità sulle stragi, segreti sono i servizi che servono a mantenere i segreti.
Segreta è la vera storia del nostro Paese. Segreto è il vero volto della realtà.
Per un semplice motivo: il potere si fonda sul segreto.



Giuseppe de Lutiis riporta nel suo libro “I serivizi segreti in Italia” (Ed. Riuniti) una celebre citazione di Hans Enzenberger: “… il segreto di Stato è diventato uno strumento di dominio di prim’ordine (…) Il mana del segreto di Stato viene ripartito tra i suoi detentori e li immunizza, ognuno secondo il suo grado di iniziazione, contro la discussione. Il numero dei segreti di Stato che uno conosce diventa la misura del suo rango e dei suoi privilegi in una gerarchia sottilmente graduata. La massa dei dominati è senza segreti: non ha cioè nessun diritto di partecipare al potere, di criticarlo e di sorvegliarlo”.
Forse nessun paese del mondo cosiddetto civile-occidentale come l’Italia detiene un così alto numero di Segreti di Stato legati a vergognose stragi di cui, a distanza di decine di anni, si conoscono a malapena gli esecutori materiali.
Una tragica anomalia che affonda le sue radici nella storia stessa della nostra democrazia, non quella scritta dai vincitori, ma quella ricostruita con certosina pazienza da chi ha avuto la perseveranza ad aspettare e l’audacia di indagare tra i documenti e le prove seppelliti dai segreti di stato e dai depistaggi. Che, fortunatamente, come ogni cosa, non possono durare per sempre. Giustizia e Verità, invece, sono ancora molto lontane.
Forse perché non appartengono a questo mondo.


Terra  di mezzo
Un documento dell’Oss (Office of strategic service, il servizio segreto americano), datato tra il 1946 e il 1947, descriveva così il nostro Paese:
Al giorno d’oggi, l’Italia è un vasto campo di battaglia politica e di intrighi tra le maggiori potenze (Russia, Gran Bretagna e Vaticano). Una situazione dovuta alla fine del suo ruolo di grande potenza, della sua posizione strategica nel Mediterraneo e, infine, dall’assenza di un forte governo centrale.
Nel primo dopoguerra l’Italia si presentava quindi come una terra di mezzo ideale, per storia e geografia, quale campo di sperimentazione per i nuovi equilibri del mondo.
Il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi, spiega in un libro intervista (Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri ed. Einaudi) che, all’indomani della firma di Yalta, la nostra penisola era a tutti gli effetti da considerarsi una nazione a sovranità limitata la cui posizione di frontiera al limite dei due imperi l’ha condannata ad una situazione di instabilità e di dipendenza quasi endemica che è stata mantenuta nel corso degli anni con sistemi e metodi tanto diversi quanto uguali.
Le pressioni del cosiddetto Blocco occidentale e del Vaticano da una parte e del Pcus sovietico dell’altra si ripercuotevano all’interno del nostro paese sia a livello visibile, cioè nella dialettica di governo, sia a livello invisibile con uno scontro clandestino e silenzioso di strutture parallele e segrete che si tenevano sotto controllo a vicenda.
Di fatto le forze stesse della Resistenza, “Partigiani bianchi” e “Partigiani rossi”, che avevano gettato le basi per l’ordinamento giuridico della nuova democrazia si trovavano su fronti ideologicamente e politicamente opposti. Che dovevano rimanere tali affinché il patto di Yalta fosse rispettato. Non è poi da sottovalutare che in Italia, più che in ogni altra democrazia occidentale, il sistema politico italiano, da una parte e dall’altra, era condizionato da enormi flussi di denaro provenienti dall’estero.
Per conseguire l’obiettivo il Blocco occidentale cui l’Italia aderiva per sua stessa sopravvivenza aveva creato in Europa una serie di nuclei occulti che rientravano in una vasta operazione denominata Stay-behind. La tecnica di lasciare propri agenti occulti in territori occupati dal nemico (stay behind “restare dietro le linee”), specifica De Lutiis nel suo già citato libro, per conoscerne e contrastarne le mosse è stata perfezionata al punto da prevedere corpi appositamente addestrati a questo scopo.
Nel 1951 il capo del Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate), generale Umberto Broccoli, inviò al capo di Stato Maggiore della Difesa un promemoria nel quale proponeva la costituzione di una struttura con “carattere clandestino ed ordinamento cellulare tale da restare ignorata” ed aggiungeva che gli Stati Uniti avevano cercato di organizzare una cosa del genere ad insaputa dei servizi segreti italiani, ma che ora, chiarita l’incomprensione, erano disponibili a creare questa struttura di comune accordo.
Lavorarono quindi all’istituzione di “Gladio”, inaugurata ufficialmente il 26 novembre 1956, tra le cui finalità, almeno sulla carta, c’era quella di addestrare gruppi di persone pronte ad organizzare nuclei di resistenza nei territori eventualmente occupati da truppe nemiche in caso di invasione militare nel Paese. Il riferimento è ovviamente al possibile attacco comunista.
Sull’altro fronte però, spiega Pellegrino, era stata creata anche una specie di Gladio rossa che andò pian piano definendosi come un organismo a carattere difensivo che, nel caso in cui il partito comunista fosse stato dichiarato fuori legge, avrebbe dovuto proteggerne e far fuggire i dirigenti.
Gladio rimase un’organizzazione segreta dal 1956 al 1990 quando nel corso di tutt’altra indagine il ritrovamento di alcuni documenti spinse l’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti a rivelarne pubblicamente l’esistenza. Furono resi noti i 622 nomi dei gladiatori, l’avvocatura di Stato proclamò Gladio “un’istituzione creata e disciplinata dalla pubblica autorità” e l’allora Presidente Cossiga ne riconobbe pubblicamente la legittimità vantandone addirittura la paternità. Ma non fu sufficiente per gettare luce sulle moltissime zone d’ombra rimaste. In realtà fu sollevato più di un sospetto circa la partecipazione di Gladio al progetto di terrore e stragismo che mantenne costante l’instabilità dell’Italia. Chiarisce ancora Pellegrino che la Commissione stragi non ravvisò alcun elemento per provare responsabilità di Gladio nella strategia della tensione, tuttavia, scrive: “Considerando quello che è successo in Italia credo sia legittimo domandarsi se dietro questa facciata apparentemente ‘pulita’ non si nascondesse qualcos’altro”.
E ancora: “non vorrei violare segreti istruttori, tuttavia posso dire che da un’indagine giudiziaria sta emergendo un’ipotesi clamorosa: cioè che quando Andreotti parlò per la prima volta di Gladio volesse in realtà gettare in qualche modo un osso all’opinione pubblica per coprire qualcosa di più segreto, di più occulto e probabilmente anche di più antico rispetto a Gladio”.
Il riferimento ad una struttura sovranazionale e al di sopra delle parti ricorre incessantemente nella necessaria lettura tra le righe che si trova a fare qualsiasi storico o investigatore intenzionato a scoprire il filo logico di una storia di sangue troppo lunga e ancora troppo misteriosa.
E viene dalle parole seppur spezzettate di autorevoli uomini dello Stato, ma anche del controstato e di quei Servizi Segreti di cui ancora oggi poco si capisce il confine nebuloso della deviazione.
Le prime dichiarazioni in proposito vengono pubblicate dall’Europeo il 17 ottobre 1974 che riporta l’intervista a Roberto Cavallaro, arrestato per cospirazione politica su ordine di cattura della Procura di Padova: “L’organizzazione esiste di per se in una struttura legittima con lo scopo di impedire turbative alle istituzioni. Quando queste turbative si diffondono nel Paese (disordini, tensioni sindacali, violenze e così via) l’organizzazione si mette in moto per cercare di ristabilire l’ordine. E’ successo questo: che se le turbative non si verificavano venivano create ad arte dall’organizzazione attraverso tutti gli organi di estrema destra (ma guardi che ce ne sono altri di estrema sinistra) ora sotto processo nel quadro delle inchieste sulle cosiddette trame nere (Rosa dei venti, Ordine nero, la Fenice, il Mar di Fumagalli ecc..). Sentito dal giudice Tamburino Cavallaro ripeterà le stesse considerazioni specificando che ai vertici dell’organizzazione vi erano “i servizi segreti italiani ed americani, ma anche alcune potenti società multinazionali”.
Rivelazioni prorompenti che seppur prese con le pinze indussero il giudice a chiederne conto al tenente colonnello Amos Spiazzi che per la sua lunga permanenza all’ufficio “I” (Informazioni) del Sid (Servizio Informazioni Difesa) non poteva essere all’oscuro dell’eventuale esistenza di un eventuale Sid parallelo o Supersid: “… Ricevetti ordini dal mio superiore militare, appartenente all’Organizzazione di sicurezza delle Forze armate che non ha finalità eversive ma che si propone di difendere le istituzioni contro il marxismo. Questo organismo non si identifica con il Sid, ma in gran parte coincide con il Sid”.
“Ma come è composto questo organismo parallelo di sicurezza? E’ un organismo militare? – domandava il giudice Tamburino. “Mi risulta – rispondeva – che non ne facciano parte solo militari ma anche civili, industriali e politici”. In altra sede ebbe poi a precisare ulteriormente: “l’Organizzazione ha carattere di ufficialità, pur con l’elasticità per quanto riguarda metodi e personale, di volta in volta definiti con disposizioni orali. In sostanza l’organizzazione è composta dagli alter ego della struttura “I” ufficiale”.
Il generale Vito Miceli, allora capo del Sid, nel corso di un’udienza al processo per il tentato “golpe Borghese” confermò l’esistenza di questa organizzazione supersegreta precisando: “C’è ed è sempre esistita una particolare organizzazione segretissima che è a conoscenza delle maggiori cariche dello Stato. (…) Si tratta di un organismo inserito nell’ambito del Sid. Comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio “I” che assolve compiti prettamente istituzionali, anche se si tratta di attività ben lontana dalla ricerca informativa”.
Indagando poi sulle Br il generale Dalla Chiesa chiese all’allora colonnello Bozzo, che ne ha reso testimonianza in Commissione, di indagare su “una struttura segreta paramilitare con funzione organizzativa antinvasione ma che aveva poi debordato in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno, struttura che poteva aver avuto origine nel periodo della Resistenza attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso un controllo di alcune organizzazioni di altra tendenza. Questo gruppo sarebbe continuato nel dopoguerra e avrebbe costituito la tecnostruttura destinata a muovere le fila sia del terrorismo di destra sia del terrorismo di sinistra”.
Allo scopo, sottolinea ancora Pellegrino, di mantenere ad ogni costo l’equilibrio stabilito da Yalta.
Con lo scandalo della P2 emergono altre dichiarazioni come quelle rese dal generale Siro Rossetti, già responsabile del Sios-Esercito (Servizio Informazioni Operative e Situazioni esistente per tutte e tre le forze armate) e iscritto alla loggia che, riferendosi alle dichiarazioni di Miceli, aggiungeva: “L’organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, della finanza e dell’alta delinquenza”.
Che in parole spicce significa che suddetta “organizzazione” può operare attraverso propri elementi nei settori sopra indicati per svolgere attività che spaziano dall’acquisizione di informazioni alla messa in esecuzione di azioni di varia natura. Il che vuol dire che questo organismo ha propri infiltrati in tutti i settori e in tutti gli ambienti, in tutti i gruppi e in tutte le associazioni cioè che non tutti neofascisti o i brigatisti sono tali, che non lo sono tutti i mafiosi, che ci sono finanzieri, bancari, ufficiali delle Forze Armate, funzionari di polizia, politici di tutti i partiti e giornalisti di ogni testata che fanno capo a questa “organizzazione”.
L’alto ufficiale ha poi riferito un altro dato molto significativo: la struttura di cui parla è provvista di un elevatissimo numero di uomini capace di garantire l’assolvimento dei loro compiti nei campi indicati.
Se questa sovrastruttura sia coincisa o coincida con Gladio o se questa ne sia stata solo un’espressione, parte di un “network” che difficilmente si può pensare essere terminato con l’uscita alla luce della struttura non lo sappiamo, è indubitabile però che sia quella che stabilisce le regole del gioco, quello “grande”, di cui parlava Falcone. Ed è in questo quadro che va inserita Cosa Nostra, questo è il suo ambito di azione con la disponibilità di denaro, informazioni, uomini e silenzio che è sempre stata in grado di fornire. Solo se si comprende il suo ruolo nella storia del nostro Paese, passata e presente, si può arrivare a capire perché nonostante l’impegno incessante di molti uomini delle Forze dell’Ordine, della magistratura e della società civile e l’arresto di tanti capi, continua ad esistere, a proliferare e a sembrare invincibile. E una delle tante vie passa proprio attraverso l’esplorazione del rapporto tra la mafia e i servizi segreti, che per comodità di concetto e linguaggio, intenderemo come “deviati”. Quanto lo siano in realtà è molti difficile a dirsi.
 

Oltreoceano
La missione in Sicilia non poteva fallire. Per questo gli alleati decisero di muoversi per tempo creando una fitta rete informativa a scopo esplorativo, tanto per avere un’idea del “carattere” dei siciliani, per poi dare il via ad una sorta di “preparazione psicologica” all’invasione. Le condizioni dell’isola erano pressoché disastrose tra fame, sete e disordini di ogni genere. Il lavoro da fare era complesso, ma non impossibile. E la strategia partiva da casa.
I mafiosi che erano sfuggiti alla repressione del Prefetto Mori emigrando in America avevano fatto fortuna, esercitavano una rispettabile influenza e disponevano di non poche entrature in vari ambienti come quelli militari dove prestavano il loro ausilio come interpreti o strani accompagnatori, alcuni di loro furono addirittura arruolati direttamente nei servizi segreti della Marina Americana. Illustrissimi del calibro di Joe Profacy, Vincent Mangano, Nick Gentile, Vito Genovese e l’immancabile Lucky Luciano si resero disponibili ad offrire la loro preziosa consulenza sfruttando gli antichi legami mai interrotti con la terra natia.
Per portarsi avanti, nel contempo, L’Oss (Office Strategic Service) mandò Max Corvo e Vincent Scamporino, il capo del settore italiano del secret intelligence, a Favignana dove erano rinchiusi i mafiosi “perseguitati” dal Prefetto di ferro e li fece liberare.
Dopo lo sbarco il loro primo incarico fu quello di mettere ordine, chi poteva farlo meglio di coloro che avevano sempre avuto un controllo serrato del territorio?
In pochissimo tempo i padrini ripresero il comando e eliminarono con accanita sistematicità le decine di bande che infestavano l’isola, tutte tranne una: quella di Salvatore Giuliano ricondotta sotto l’egida della famiglia di Montelepre  che controllava da giusta distanza la mitica azione rivoluzionaria del bandito. In men che non si dica venne a crearsi in Sicilia una catena di persone e personaggi, in numero sempre crescente, disposti a mettersi dalla parte dei vincitori. I capimafia di fatto si sentirono nobilitati e vennero elevati al grado di “liberatori”.
Ma la vera legittimazione venne con l’assegnazione dei comuni ai vecchi boss che si ritrovarono di nuovo padroni dei loro feudi e con la fascia tricolore posta di traverso sul petto: Don Calò Pizzini divenne sindaco di Villalba, Salvatore Malta di Vallelunga, Genco Russo sovraintentente agli Affari Civili di Mussomeli e altri rivestirono incarichi ufficiali in diversi ambiti.
A consentire il salto di qualità però fu la dimostrazione sul campo di quanto il potere mafioso potesse rendersi funzionale a scopi e scenari di ben più ampio respiro.
Dopo una prima fase di assestamento avevano ripreso vigore in Sicilia quei movimenti che sulla scia dei Fasci Siciliani, soppressi nel sangue prima della guerra, rivendicavano terra e diritti. A tal punto da costituire una forte coalizione di sinistra che sotto il nome di Blocco del popolo aveva ottenuto una netta vittoria alle prime elezioni regionali in Sicilia il 30 aprile 1947.
Sul pianoro di Portella della Ginestra quel 1° maggio quindi non si festeggiava solo la tradizionale festa del lavoro ripristinata dopo anni di fascismo, ma anche e soprattutto la vittoria elettorale che rappresentava un grande cambiamento. Che però non era tollerabile. 
Verso le dieci del mattino mentre uomini, donne, anziani e bambini si erano riuniti sotto il palco per ascoltare i comizi si udì un crepitio, come di “fuochi d’artificio”. Trascorse qualche minuto prima che la folla si rendesse conto di essere al centro di una raffica di proiettili e cominciasse a scappare in ogni direzione. Per ventisette persone non vi fu scampo, altre undici furono gravemente ferite, per tutti gli altri rimase indelebile il segno della prevaricazione e del sopruso.
Sono trascorsi quasi sessantanni da quel giorno e ancora non è stato possibile accertare la verità su mandanti e esecutori di quella che è diventata a tutti gli effetti la prima Strage di Stato.
La storia dei vincitori, tre mille depistaggi e misteriose morti, ci ha offerto solo un capro espiatorio: quel bandito Giuliano che tanto attirava l’attenzione dei servizi segreti americani; prima incoronato colonnello dell’Evis, l’esercito indipendentista che voleva fare della Sicilia il 49° stato americano e poi pazientemente innalzato a paladino della battaglia per eccellenza: quella contro i comunisti, la canea rossa che andava estirpata! Come aveva scritto niente di meno che al presidente Truman.
Il povero Giuliano che sicuramente a Portella era presente e fece sparare i suoi uomini finì miseramente la sua carriera di bandito-eroe tradito e ucciso dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta cui non toccò sorte migliore, tradito a sua volta da un caffè corretto alla stricnina. Gusto amaro per tappargli la bocca per sempre dopo quelle sue altisonanti dichiarazioni che chiamavano in causa anche i vertici dello Stato.
Con la desecretazione di molti atti contenuti negli archivi segreti statunitensi, inglesi e italiani, oggi sono molti gli storici, primo fra tutti Giuseppe Casarrubea (Storia Segreta della Sicilia, Bompiani), a sostenere che a sparare a Portella non ci fosse solo Giuliano, ma anche gli americani e i mafiosi.
Comunque sia andata l’effetto che ci si proponeva, cioè l’arretramento delle sinistre, fu ottenuto. Il primo governo di unità nazionale costituitosi di lì a breve escluse completamente i partiti di sinistra dando vita così a quel fenomeno definito come Democrazia Bloccata.
E si condannava così la Sicilia, come il resto del meridione d’Italia, all’indigenza e al sottosviluppo, continuo serbatoio per la manovalanza criminale cui le mafie, padrone di un territorio senza Stato, attingono le nuove leve pronte a tutto per un pezzo di pane e un misero sogno di gloria.
La mafia, Cosa Nostra, aveva così reso quel prestigioso servigio che le avrebbe garantito negli anni impunità e silenzio, quegli ingredienti necessari per farla diventare quella potenza criminale ed economica che è a tutt’oggi.
 
Anni di piombo
La partecipazione della mafia ad alcune delle vicende tragiche e ancora oscure che hanno scosso da sempre gli equilibri interni del nostro Paese è stata tale da indurre alcuni studiosi tra cui Emanuele Macaluso a definirla come una sorta di gladio siciliana.
Il suo iniziale “ingaggio”, se così si può definire, da parte dei Servizi Segreti, con lo sbarco, la gestione del territorio e la risoluzione del problema Giuliano diviene, nel corso degli anni, con il rafforzamento economico, militare e politico della mafia una collaborazione la cui reale dimensione verrà poi disvelata dalle dichiarazioni dei pentiti.
Tommaso Buscetta, il primo a spalancare al giudice Giovanni Falcone le porte di Cosa Nostra, spiegò, e all’inizio con non poca riluttanza, che durante uno dei suoi viaggi tra gli Stati Uniti e l’Italia, fece tappa in Svizzera per sentire in cosa consisteva l’offerta fatta a Cosa Nostra dal principe nero Junio Valerio Borghese perché la mafia partecipasse al tentativo golpista previsto per la fine degli anni Settanta. A confermare le sue dichiarazioni anche Antonino Calderone, uomo d’onore della famiglia di Catania: “Mentre Liggio si nascondeva a Catania ricevette la visita di due capi di Cosa Nostra, Salvatore Greco “chicchiteddu” e Tommaso Buscetta che dovevano discutere con lui di una questione di notevole importanza: la partecipazione della mafia al cosiddetto Golpe Borghese del 1970”. Il progetto di occupazione dei vertici dello Stato ideato da Borghese sarebbe dovuto scattare la notte dell’8 dicembre 1970 ma, per motivi mai pienamente chiariti, fu bloccato all’ultimo momento.
Sempre tramite i collaboratori di giustizia sappiamo che sebbene alla fine Cosa Nostra decise di non prendere parte al progetto golpista risulta invece coinvolta nella “morte bianca” del giornalista Mauro De Mauro scomparso nel nulla la notte del 16 settembre 1970, probabilmente perché, data la sua passata vicinanza alla Decima Mas, era a conoscenza del progetto. Oggi dopo cinquant’anni infatti l’unico ad essere sotto processo è Totò Riina.
A riferire del coinvolgimento di Cosa Nostra nella cosiddetta strategia della tensione degli anni Settanta è ancora Buscetta quando spiega alla Commissione Parlamentare Antimafia che Cosa Nostra fece esplodere molte bombe in Sicilia in quegli anni perché: “dovevamo scassare la credibilità dello stato italiano”. Antonino Calderone, si legge nella sentenza di condanna al processo d’appello per la strage del rapido 904, è ancora più esaustivo sul punto: “… come ho già riferito, negli inizi del 1970 o meglio fine 1969 Cosa Nostra programmò una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni esplosivi da collocare in varie città come Palermo, Catania ed Enna. Io stesso vidi uno di questi ordigni che era ad orologeria. Questo programma, che prevedeva anche attentati a persone appartenenti a varie categorie, era volto a creare ‘bordello’ e cioè marasma, confusione, in modo che il governo non si potesse orientare sulla provenienza delle varie azioni e non pensasse soltanto alla mafia. Incaricato di sovrintendere agli attentati dinamitardi era Madonia Francesco di Resuttana”.
Sempre Buscetta spiega che nel 1974 mentre si trovava in carcere gli fecero sapere che era in programma un altro golpe: “Ho ricevuto dal mio direttore del carcere, dott. De Cesare, la notizia che dopo pochi giorni sarebbe successo un colpo di Stato, e che io sarei passato, attraverso un brigadiere della matricola, per un cunicolo, sarei entrato in casa sua e sarei stato liberato”.
Quando quattro anni più tardi venne sequestrato Aldo Moro, Buscetta, che era ancora in carcere venne contattato da un uomo legato a Frank Coppola e a quanto pare ai servizi segreti italiani affinché Cosa Nostra si interessasse per la sua liberazione, ma non agì in nessun modo poiché comprese che non vi era interesse a liberare lo statista.
Sul finire del 1979 racconta ancora il pentito dai mille segreti che rivelò, e probabilmente in parte, solo dopo la morte del giudice Falcone, che una non meglio precisata entità avrebbe chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Una dichiarazione che ha trovato una conferma formidabile solo di recente quando intercettato dalle cimici poste nel suo salotto il capo del mandamento palermitano di Brancaccio, uno dei più potenti, Giuseppe Guttadauro ha commentato con Salvatore Aragona, altro mafioso: «Salvatore…ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…». «E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…».
Rivelazione inquietante che riapre ancora una volta la questione dei mandanti esterni che chiesero, seppur in convergenza di interessi con Cosa Nostra, l’esecuzione del generale, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo. La verità giudiziaria che ha condannato all’ergastolo gli esecutori tra cui Nino Madonia, Calogero Ganci, diventato poi collaboratore di giustizia, ha infatti lasciato irrisolti i tantissimi quesiti sui reali moventi dell’eccidio. Se da una parte infatti il generale, in soli cento giorni a Palermo, aveva già dato un assaggio di quella che sarebbe stata la sua politica antimafia a tutti i livelli: politico, sociale e militare Cosa Nostra aveva in questo senso solo un interesse preventivo nei confronti del suo operato. Molti invece erano i segreti a conoscenza del generale dopo anni di onorato servizio dell’Arma per avere partecipato alle indagini sulle Br ed essere stato a conoscenza dei tanti retroscena del sequestro Moro.
La stessa dinamica dell’agguato presenta anomalie che suggeriscono una responsabilità solo parziale della mafia.
A comporre il gruppo di fuoco quel giorno uomini d’onore di primissimo piano tra cui Pino Greco Scarpa, della famiglia di Brancaccio e fedelissimo di Riina, e Antonino Madonia reggente, assieme al fratello Salvo, dell’antico ed influente mandamento di Resuttana.
Racconta il Ganci che Pino Greco era a bordo di una moto, mentre egli stesso e Madonia seguivano l’A112 del generale a bordo di un’auto. Mentre il Greco cominciava a sparare contro l’Alfetta dell’agente di custodia, la macchina con a bordo Madonia la superò per affiancarsi a quella del generale. Il killer, abbassato il finestrino,  girato, appoggiato con le spalle contro il cruscotto e le ginocchia sul sedile, aveva aperto il fuoco contro le due vittime. Pino Greco, sopraggiunto qualche minuto più tardi, aveva infierito contro l’auto del generale ormai ferma.
Al termine dell’operazione – prosegue il collaboratore – tra i due boss si era scatenata una violenta discussione. Greco accusava Madonia di aver colpito per primo il generale, levandogli così “la medaglia”, ma soprattutto di averlo messo in pericolo rischiando di raggiungerlo con una scarica di proiettili.
Effettivamente il comportamento del Madonia era stato alquanto imprudente per un professionista del suo rango e Pino Greco se ne era fortemente insospettito, tanto che, riferisce un altro collaboratore di eccezione Tullio Cannella, cominciò a chiedersi per quale ragione si era dovuto compiere un omicidio tanto eccellente e per conto di chi. Troppe domande persino per un capo come lui. Fu fatto uccidere da Riina in persona per mano del suo compagno più fidato Peppuccio Lucchese che gli sparò un colpo alla nuca, a tradimento, per essere sicuro al cento per cento che il suo spietatissimo amico non avesse nessuna possibilità di replica.
In realtà il comportamento apparentemente inspiegabile del Madonia potrebbe trovare ragione nei rapporti occulti della sua famiglia con i Servizi segreti. Era il patriarca Francesco ad avere il coordinamento della strategia della tensione siciliana e forse solo attraverso di lui poteva arrivare l’informazione che non solo il generale doveva essere ucciso, ma anche sua moglie depositaria di molti segreti, come lei stessa aveva rivelato alla propria madre, che ne diede testimonianza a processo.
Molte ipotesi sono state sollevate alla ricerca dei reali mandanti dell’omicidio del generale e in plurime direzioni, dalla sua aperta dichiarazione di guerra ai grandi elettori di Andreotti in Sicilia che già da allora erano ritenuti più che contigui alla mafia, alle sue indagini sui patrimoni criminali, ma in questa prospettiva del “favore” richiesto a Cosa Nostra non può certamente essere tralasciato il grande peso di informazioni riservate di cui era in possesso il generale. Senz’altro sufficienti per consentirgli di comprendere quel filo di collegamento tra poteri forti e poteri criminali di cui aveva sospetto già ai tempi delle sue investigazioni sulle brigate rosse e di cui aveva parlato all’allora colonnello Bozzo.
Non sono stati mai un mistero comunque la solitudine e l’isolamento in cui operò il generale negli ultimi anni della sua carriera ne che il suo telefono a villa Withaker fosse sottoposto a sorveglianza.
Il clima di veleno e di vuoto che vengono a crearsi attorno ad una vittima eccellente corrispondono ad una strategia specifica, progettata ad arte come nei migliori manuali d’intelligence, e si è ripetuta ossessivamente per tutti i terribili efferati omicidi che hanno insanguinato in modo particolare la Sicilia.
Fino a quando perdurò in Italia la strategia della tensione Cosa Nostra ne fu coinvolta con una sorta di competenza territoriale, agiva per lo più in “casa” e ovunque avesse le sue basi più stabili. Un esempio in questo senso ci viene direttamente dalla sentenza di secondo grado del processo per la strage di Natale in cui l’esplosione del rapido 904 avvenuta alle 19,08 circa del 23 dicembre 1984 uccise 16 persone e causò il ferimento di 260 passeggeri.
Tra i condannati all’ergastolo Pippo Calò, reggente del mandamento di Porta Nuova, e soprannominato il “cassiere della mafia” perché incaricato per conto di Riina e di tutta l’organizzazione di riciclare i grossi proventi del traffico di droga. Per questa ragione si era trasferito a Roma dove aveva creato un vero e proprio avamposto di Cosa Nostra affiliando alcuni componenti della nota Banda della Magliana e da dove si era inserito in grossi business tra cui quelli con il faccendiere Flavio Carboni in Sardegna che lo coinvolgeranno anche nell’omicidio del banchiere Roberto Calvi.
I giudici d’appello, ripercorrendo l’intera vicenda, analizzano il coinvolgimento della mafia nei suoi rapporti con la destra eversiva e organizzazioni mediorientali per via dell’utilizzazione dei medesimi traffici di stupefacenti ed armi, ma non hanno dubbi nel rilevare che il suo raggio d’azione vada inserito in un quadro ben più vasto.
“Le stragi come questa – scrivono i giudici – non sono mai fini a se stesse poiché esse sono in funzione di una utilizzazione del massacro in chiave latamente politica. Il termine ‘latamente’ sta ad indicare una utilizzazione indiretta, propria dei fatti di strage, commessi da gruppi interni al nostro Paese, gruppi che, come dimostrato, non rivendicano mai pubblicamente il fatto, non avendo interesse ad attribuirsene la paternità, per essere enormi e disumani gli effetti, ma che raggiungono il risultato voluto, che è la creazione del terrore attraverso il compimento di una azione ad effetto destabilizzante”.
La forza di Cosa Nostra si era accresciuta negli anni grazie ai grandi miliardi del traffico di droga, ma anche e soprattutto grazie alle coperture di cui godevano i vecchi boss come Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade, ereditati poi da Riina e Provenzano.
Liggio, di cui si è sempre sospettato il legame occulto con i servizi, a protezione della sua lunghissima latitanza, dimostrò la sua influenza, anche al di sopra delle regole stesse dell’organizzazione, facendo assassinare il giudice Scaglione senza nemmeno informare gli altri due componenti del triumvirato.
Oltre ad essere un nemico giurato di Cosa Nostra il giudice era il solo depositario dei segreti di Gaspare Pisciotta, il luogo tenente di Giuliano che indicò tra i mandanti della strage di Portella, i ministri Scelba e Mattarella. Rivelazione che il magistrato non fece tuttavia in tempo a verbalizzare.
Che Badalamenti godesse di entrature in ambienti istituzionali e in particolare nell’arma dei carabinieri è ormai storia così come l’appartenenza di Stefano Bontade alla massoneria.
Le segrete alleanze con questi ambienti, se vogliamo, “deviati”, aveva fatto di Cosa Nostra un’organizzazione criminale talmente potente, attrezzata, ramificata da presentarsi come “predisposta all’attuazione di un complesso piano criminoso”  proprio per “il tipo di attività – spiegano i giudici – per l’imponenza degli investimenti economici e per la portata dell’attività criminale”.
Se nei primi anni Settanta Cosa Nostra viene “solamente” interpellata per partecipare agli eventi destabilizzanti di quegli anni, affidati invece nella propria parte operativa alle frange estremiste tanto nere quanto rosse, a partire dalla fine degli anni Ottanta sarà diverso il suo ruolo nel cambio di equilibri che porta al passaggio tra la fine della Prima e della Seconda Repubblica.


Cambio della guardia

L’offensiva aperta dal pool antimafia di Palermo sul piano giudiziario nei primi anni Ottanta ha messo a rischio uno dei capisaldi su cui si basa tanto la mafia quanto i vari poteri occulti: il segreto. Con le loro intuizioni Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi costrinsero Cosa Nostra per la prima volta nella storia a giocare sulla difensiva e a cambiare strategie e referenti. Quei referenti che vedendola in difficoltà le girarono le spalle.
Tommaso Buscetta condusse il giudice Falcone quasi per mano nei meandri dell’organizzazione avvertendolo dei rischi e soprattutto evitando di fornirgli quelle informazioni che, a suo avviso, il Paese non era in grado di recepire. Buscetta però non era un mafioso qualunque. Sebbene non rivestisse cariche ufficiali all’interno del sodalizio criminale, godeva di rispetto da parte di tutti e soprattutto era in possesso di informazioni più che delicate che esulavano dallo stretto ambito della gestione di Cosa Nostra. Il boss dei due mondi, come lo avevano appropriatamente ribattezzato i giornalisti, era molto legato al potere americano che ha interesse, ad un certo punto, che il giudice Falcone indaghi su Cosa Nostra, ma non su Giulio Andreotti per esempio. Difficile pensare che un mafioso qualsiasi, seppur scaltro e carismatico, abbia una visione tanto globale degli assetti interni di un Paese da poterlo valutare come “non pronto” a recepire la verità.
Quando infatti Buscetta farà il nome di Andreotti, questi, il 1° giugno 1994 rilascerà delle dichiarazioni in diretta ad un giornalista di Rai 1 molto interessanti proprio in questo senso. Il senatore allude ad un complotto ordito da qualcuno che ne tira le fila e il giornalista gli domanda:
D: “Ecco, ma questo tira fili, lei ha detto che potrebbe trovarsi negli Stati Uniti, a chi pensa? R: No, io intanto penso a tutta la rete di mafia siculo-americana che è una rete molto forte, molto presente, molto attiva e anche molto protetta, diciamolo pure… D: Molto protetta da chi? R: Ehm beh molto protetta da una parte dei loro servizi. (…) D: Mi scusi, ma lei mi consentirà di dire che sentire Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, ventuno volte ministro affermare che il tira fili, diciamo, di questo complotto è negli Stati Uniti, che dietro ci potrebbe essere l’ombra, anche… R: Io ho detto può essere, potrebbe non essere il solo, potrebbero…”.
Quella stessa America che proteggerà Buscetta fino alla morte.
Giovanni Falcone non era un ingenuo. Sapeva giocare le sue carte e aveva di certo compreso la caratura di Buscetta al di là del suo essere un uomo d’onore. Accettò quel limite che gli aveva posto il pentito e lo aveva fatto fruttare al meglio, ma sapeva di essere solo all’inizio e che non sarebbe stato affatto facile proseguire sul livello delle contiguità che fanno il gioco “grande”. Infatti non glielo permisero.
Forse ne prese pienamente coscienza solo con il fallito attentato all’Addaura. Quando, il 21 giugno 1989, gli uomini addetti alla sua sorveglianza rinvenirono sulle rocce di fronte alla sua abitazione estiva una borsa sportiva in plastica piena di candelotti di dinamite. Se fossero esplosi avrebbero certamente ucciso non solo lui e la moglie, ma anche i due magistrati elvetici Carla del Ponte e Claudio Lehman in quei giorni a Palermo per completare il lavoro di indagine che stavano svolgendo in collaborazione con il giudice italiano sul traffico di stupefacenti e riciclaggio di denaro sporco tra la Sicilia, la Svizzera e gli Stati Uniti.
A Saverio Lodato che lo intervistò per l’Unità parlò di “menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Aveva poi aggiunto: «Sto assistendo all’identico meccanismo che portò all’eliminazione del generale dalla Chiesa. (…) Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere».
Al giornalista e amico Francesco La Licata Falcone fece un commento più esplicito.
«Capisci cos’è successo? Si è verificata la saldatura. C’è stata la coincidenza di interessi…».
Fu subito chiaro a Falcone e successivamente agli inquirenti che si occuparono dell’inchiesta che anche in questo caso Cosa Nostra non agì da sola.
L’attentato si verificava in un momento “perfetto”, per dirla con le parole di Giovanni Brusca, perché il giudice era solo, emarginato, al centro di continue polemiche e attacchi infamanti come quelli che provenivano dal cosiddetto “corvo”. Era osteggiato tanto all’interno della procura che della magistratura più in generale, da ampi settori della politica e della stampa. Le sue inchieste, condotte tra mille difficoltà e ostacoli, lo avevano portato a realizzare, in collaborazione con le autorità straniere, e in particolare con gli Stati Uniti, operazioni importantissime a danno non solo di Cosa Nostra italiana, ma anche americana. La rogatoria internazionale che stava espletando in Svizzera poco tempo prima dell’Addaura di concerto con i medesimi magistrati lo aveva portato ad investigare anche sul paradiso elvetico nel quale erano occultati i miliardi del traffico di droga e non solo quelli dei mafiosi. Interrogando poi Oliviero Tognoli, il faccendiere coinvolto nell’inchiesta Pizza Connection con l’accusa di riciclaggio, questi gli aveva rivelato, senza però volerlo verbalizzare, di essere riuscito a fuggire dall’hotel Ponte di Palermo grazie ad una soffiata. A salvarlo era stato il questore Bruno Contrada, poi numero tre del Sisde, ancora oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Una dichiarazione riportata dallo stesso Falcone e confermata dalla dottoressa del Ponte, ma mai ripetuta dal Tognoli e smentita dai suoi avvocati.
Il giudice era convinto che l’attentato non avesse la pura finalità di avvertirlo, ma propriamente quella di assassinare lui e i suoi ospiti secondo un disegno criminale ben preciso. Da quel momento, raccontano familiari e amici, cominciò davvero ad avere paura, non tanto di morire, a quell’idea si era abituato, ma di non avere abbastanza tempo per portare a termine il suo compito.
Il sostituto procuratore Luca Tescaroli, che si è occupato dell’istruttoria di primo grado, scrive nella sua requisitoria, pubblicata poi nel libro I misteri dell’Addaura (Rubettino, 2001), che tanto il clima politico e sociale creatosi attorno a Falcone quanto le anomalie investigative e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia “appaiono idonei a corroborare l’ipotesi di ulteriori forme di concorso nel reato da parte di soggetti appartenenti ad entità portatrici di interessi convergenti a quelli, preminenti, di Cosa Nostra”.
Francesco Di Carlo, uomo d’onore di primo piano della famiglia di Altofonte, da anni punto di riferimento per il traffico di stupefacenti e riciclaggio del denaro sporco a Londra, ha rivelato agli inquirenti che qualche tempo dopo l’Addaura, mentre si trovava detenuto nella prigione di Full Sutton, era stato visitato due volte nel giro di quattro-sei mesi da esponenti dei Servizi Segreti di diversi paesi, tra cui inglesi ed israeliani, che gli avevano chiesto, anche non in maniera sempre garbata, un interessamento per eliminare Falcone.
Inoltre la presenza dei colleghi svizzeri e l’intenzione di Falcone di fare un bagno proprio nel tratto di mare di fronte alla casa era un particolare noto a ben pochi, teoricamente a conoscenza solo dell’ambito istituzionale, così da indurre ad ipotizzare l’esistenza di una cosiddetta “talpa istituzionale” collegata ai membri del commando operativo.
Non meno rilevanti sono l’ “errore” compiuto dall’artificiere Maresciallo Tumino che per disinnescare l’ordigno lo fece esplodere in modo tale da cancellare qualsiasi prova e le continue interferenze dell’ufficio Alto Commissario Antimafia con il lavoro di Falcone al punto di compromettere la possibilità di collaborazione con la giustizia di Gaetano Badalamenti.
Il cosiddetto corvo, scrive infatti Tescaroli, “non poteva identificarsi in un solo individuo, ma rappresentava l’antisistema costituito, verosimilmente, da un’alleanza trasversale di soggetti appartenenti ad ambienti di polizia, all’Alto Commissariato ed a Servizi deviati delle Istituzioni. Ecco allora – aggiunge – che non deve sorprendere che Francesco Di Carlo non abbia riferito tutte le sue conoscenze sul fatto che ci occupa, motivando l’esercizio della facoltà di non rispondere con la non fiducia in determinati ‘apparati dello Stato’”.
Indicazioni in questo senso ci arrivano anche dall’interno di Cosa Nostra, dagli organizzatori materiali del piano criminale. L’Addaura rientra nel mandamento di Resuttana, quindi dei Madonia. Ritorna ancora una volta il nome di questa potentissima famiglia palermitana il cui coinvolgimento in fatti così eclatanti risale, come abbiamo già visto, sia agli anni Settanta che Ottanta. Antonino Madonia, come nel caso del generale dalla Chiesa, volle agire da solo sul campo, ma non poté farlo nella fase preparatoria. L’esplosivo infatti gli era stato fornito da Salvatore Biondino, capo del mandamento di San Lorenzo, e uomo ombra di Salvatore Riina, suo autista e segretario, catturato infatti con lui il 15 gennaio 1993 a Palermo.
Sulla sua figura misteriosa si sono pronunciati pochi collaboratori di giustizia. Salvatore Cancemi, capo del mandamento di Porta Nuova, lo descrive come un personaggio importantissimo che aveva contatti a tutti i livelli, comprese le istituzioni e i servizi segreti.
Un uomo di strategia, e nello stesso tempo feroce assassino. Accolse con tale disappunto il fallimento all’Addaura da architettare un nuovo macabro attentato: chiedere ad un malato terminale del mandamento di San Lorenzo se fosse stato disposto a farsi saltare per aria in Tribunale uccidendo Falcone.
A svelare questi agghiaccianti retroscena è uno dei soldati di Biondino, Francesco Onorato, ma il suo racconto più importante per comprendere appieno la reale caratura del boss è un altro.
Emanuele Piazza aveva 26 anni, la passione per il mare e tanta voglia di fare. Da pochi anni in polizia collaborava in maniera riservata con i servizi segreti alla ricerca dei latitanti. Forse un po’ ingenuo o forse solo amante del rischio Emanuele era riuscito a stringere una buona relazione di conoscenza con Onorato; condividevano infatti la passione per la boxe e spesso si fermavano a fare due chiacchiere. In una di queste occasioni passava per caso da quelle parti il Biondino che li vide. Più tardi fece chiamare Onorato e gli disse: “Ma che fai? Ti abbracci con gli sbirri?”. A sufficienza per sentenziarne la morte.
Come facesse Biondino a conoscere il lavoro super riservato di Emanuele resta un mistero. Così come sarebbe rimasta la scomparsa del poliziotto se Onorato non avesse rivelato ai giudici che Emanuele era stato strangolato nello scantinato di un negozio di Capaci e il suo cadavere disciolto nell’acido.
La vicenda di Emanuele è legata a quella di un altro ragazzo, un altro agente segreto, cui il destino ha riservato la stessa tragica fine, poiché entrambi muoiono a breve distanza di tempo e appaiono in qualche modo collegati con il fallito attentato all’Addaura.
Antonino Agostino viene ucciso a Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989 assieme alla giovane moglie Giovanna Ida Castelluccio che aspettava un bambino. Sulla loro drammatica scomparsa l’autorità giudiziaria non è riuscita a far luce in alcun modo e ha recentemente archiviato anche l’ultima indagine a carico di ignoti.
Le poche informazioni provengono dal confidente del Ros Luigi Ilardo, reggente del mandamento provinciale di Caltanissetta in sostituzione del potentissimo zio Piddu Madonia, fedelissimo di Bernardo Provenzano, il quale, parlando con il colonnello Michele Riccio dell’intreccio tra mafia e politica, gli riferì del ruolo svolto dai servizi segreti in taluni omicidi, poi addossati a Cosa Nostra e in particolare gli accennava anche dell’omicidio dell’Agostino e della moglie e lo metteva in relazione con la scomparsa di Emanuele Piazza.
“… una parte importante l’hanno giocata i Servizi Segreti nell’omicidio dell’agente Agostino con la moglie e nella scomparsa di un altro agente della Pubblica Sicurezza, che era collega di Agostino, e che come lui aveva la passione del mare.
In particolare erano dei sub, e mi ricordo che mi fu confidato che questi due agenti sono stati quelli, su mandato non so… dei Servizi Segreti… cosa… sono stati incaricati di piazzare la borsa con la bomba sulla scogliera dell’Addaura, dove c’era Falcone che passava la villeggiatura estiva…”. Tempo più tardi suo cugino gli confermava questa confidenza aggiungendo poi che ad eliminare sia Emanuele che Agostino erano stati gli stessi Servizi segreti.
“… hanno fatto ammazzare questi due poliziotti perché erano quelli che erano andati a mettere la bomba all’Addaura…”.
In particolare, aggiunge, “mi ricordo che si diceva che c’era proprio uno di questi agenti dei Servizi Segreti, che era… in faccia, dice, che aveva la faccia di un mostro e questo girava imperterrito in Palermo e molte volte hanno cercato la posta per poterlo fottere a questo qua, perché in diversi fatti, dalle testimonianze che poi emergevano dalle persone che assistevano a questi fatti, veniva proprio confermato la presenza di questo… sia quando spararono al piccolo Domino, sia quando spararono ad Agostino, sia quando, prima di… che si venisse a scoprire la bomba all’ Addaura, c’era stata una signora che aveva visto a bordo di una macchina, proprio nelle immediatezze della villa dove c’era Falcone, due individui fra cui uno che aveva questa faccia così brutta… 
Perciò non so qual era il motivo per cui i Servizi Segreti facevano questi… partecipavano a queste azioni in Sicilia, se era… diciamo, anche se noialtri davamo delle giustificazioni, sempre da quello che si sentiva dire, che era per coprire determinati uomini politici che avevano interesse a coprire determinati fatti che erano successi in Sicilia o che succedevano in quel periodo, mettendo fuori gioco magistrati o politici che volevano far scoprire tutte ‘ste magagne”.
Gli inquirenti hanno inutilmente cercato di identificare questo presunto agente dalla “faccia da mostro”, ma alla richiesta di poter visionare gli archivi del personale Sisde in servizio presso i “centri” di Roma e Palermo dal gennaio 1987 al settembre 1989 è giunta una risposta di diniego poiché sussiste su tali informazioni il “segreto di Stato”.
Per i magistrati non è stato poi possibile formulare una richiesta per un ambito più ristretto di possibili soggetti come suggerito dal Sisde e si sono visti perciò costretti all’archiviazione.
Luigi Ilardo fu assassinato a Catania nel 1996, una settimana prima di rendere ufficiale la sua collaborazione con la giustizia; le sue dichiarazioni sono confluite in diversi processi e sono sempre state ritenute rilevanti e attendibili.
Tuttavia il sostituto procuratore Tescaroli che ha indagato sull’ Addaura ha escluso un coinvolgimento dei due agenti nell’attentato.
Permane perciò a tutt’oggi ancora sconosciuto il movente dell’omicidio dell’ Agente Agostino e di sua moglie e ancora più inquietante l’enigmatica frase pronunciata da Falcone al funerale dei due giovani: “questi due ragazzi mi hanno salvato la vita”.
Purtroppo però, solo per poco.


Scacco al re
Quando si verificò la strage di Capaci il clima attorno a Giovanni Falcone era pressoché il medesimo dell’Addaura. La sua ardita scelta di continuare la lotta alla mafia dalla stanza dei bottoni, dall’ufficio degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, alle strette dipendenze, cioè, del Ministro Martelli, non era stata compresa quasi da nessuno. Le critiche gli erano piovute da tutti i lati, chi in buona fede, chi no. Agli amici più stretti, preoccupati per la sua decisione praticamente obbligata dato l’ostruzionismo che viveva a Palermo, aveva detto: “Posso anche essere più intelligente di Martelli! Aspettate e vedrete!”. E aveva avuto ragione perché in breve tempo era riuscito a far firmare al Ministro provvedimenti importantissimi e soprattutto era riuscito ad istituire la superprocura antimafia che avrebbe dovuto presiedere. Ma sembrava che nemmeno questo incarico gli sarebbe stato affidato, nonostante fosse lui l’ideatore dell’ufficio e il massimo esperto in assoluto in temi di criminalità organizzata. Quindi, sempre isolato, sempre osteggiato, quel 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, accompagnato dalla moglie Francesca Morvillo, prese il suo ultimo volo per Palermo. Della deflagrazione che a Capaci sconquassò l’autostrada e distrusse la vita dei due magistrati, dei ragazzi della scorta e delle loro rispettive famiglie si è detto e scritto molto. Ma mentre gli anni trascorrono questa strage come le altre sprofonda nelle sabbie mobili dei misteri irrisolti che rimandano puntualmente alla “convergenza di interessi” nel movente e all’altrettanto usuale traccia dei “servizi” nella pianificazione e nell’esecuzione.
Mentre era detenuto in Inghilterra Francesco Di Carlo trascorreva le sue giornate con Nizzar Hindawi, un soggetto di origine palestinese che aveva lavorato nei servizi segreti siriani, coinvolto nell’attentato all’aereo di linea caduto in Gran Bretagna che provocò la morte di circa 300 persone con il quale, spiega, aveva stretto un’intima amicizia. Un giorno, racconta il collaboratore, “era già avvenuto il tentativo di uccidere Falcone nella sua villa dell’Addaura. Fece venire gente da Roma. Mi dissero che in Italia c’era chi lavorava a togliere di mezzo Falcone. E chiedevano un aiuto. Io gli indicai mio cugino Nino Gioè. Poi so che si sono incontrati. Lui mi disse: ‘Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose’. Io avevo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti (il generale Santovito, ndr.) a Roma. Era una persona per bene, però era il capo dei servizi segreti. Perciò capivo un po’ di servizi e quello che c’era sotto. E allora mio cugino cercavo di guidarlo: ‘Sì, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre’. L’unica cosa che potevo dire era questa. Non lo so si era poi esposto tanto, perché l’ultima volta che l’ho sentito, Nino era molto preoccupato. Poi l’hanno arrestato e ha fatto la fine che ha fatto”.
Gioè si suicidò in carcere il 29 luglio 1993 e sebbene non vi siano dubbi sulle modalità del suo gesto, ne permangono sulle ragioni che lo hanno indotto a compierlo. Anche perché Gioè interpreta in quegli anni tremendi della strategia stragista una parte tra le più inquietanti.
“Fu un vero suicidio – si domanda il pm Luca Tescaroli nella requisitoria – o una morte procurata per impedire una collaborazione con possibili effetti destabilizzanti su apparati deviati dello Stato? E al riguardo va ricordato che Gioè non è stato solo colui che venne in contatto con i personaggi indicati da Di Carlo, ma è stato il soggetto che aveva avviato quella sorta di trattativa durante la fase preparatoria della strage di Capaci avente ad oggetto il recupero di opere d’arte di provenienza furtiva, a fronte di benefici carcerari per boss mafiosi, quello stesso Bellini che insufflò l’idea in seno a Cosa Nostra, gia nel corso del 1992, di colpire i beni appartenenti al patrimonio della nazione (la Torre di Pisa) e che risultò in contatto con appartenenti al Nucleo tutela del patrimonio artistico dei carabinieri prima, e con ufficiali del Ros e della Dia, poi”.
Sei mesi più tardi Di Carlo ricevette in carcere un’altra visita, questa volta molto meno cortese. Raccontò infatti che una sera si ritrovò in una stanza piena di persone; a lui si rivolsero in quattro, qualcuno parlava italiano ma l’accento era maggiormente americano-inglese. Gli chiesero informazioni sul caso Calvi e lo minacciarono. Di Carlo si chiuse in un mutismo, ma l’incontro lo aveva preoccupato molto tanto che scrisse una lettera al cugino Gioè perché riferisse dell’accaduto a Riina. Ebbe poi rassicurazione che il capo di Cosa Nostra si sarebbe occupato personalmente della faccenda. Il fatto fu clamorosamente confermato in aula durante il processo per la strage di Capaci quando un difensore chiese dell’episodio che poteva essere a conoscenza solo da chi era informato degli incontri, cioè da qualcuno degli imputati della Cupola. Di Carlo in seguito, come precedentemente accennato, si rifiutò di aggiungere particolari di cui era a conoscenza, per sfiducia in certi “apparati dello Stato”.
Mentre Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo morivano in ospedale e la Procura di Caltanissetta disponeva il sigillo sia degli uffici che dell’abitazione del giudice, qualcuno, probabilmente in grado di oltrepassare tranquillamente qualsiasi divieto, si introduceva nella sua casa di Roma da dove sparì per un certo periodo di tempo il databank Casio in cui Falcone annotava appunti e considerazioni per poi riapparire misteriosamente, manomesso, alla fine del mese di giugno, e nel suo studio di via Arenula dove, allo stesso modo, veniva violato il contenuto del computer portatile Compaq. Secondo gli inquirenti, tra l’altro, il lavoro era stato eseguito maldestramente lasciando evidenti tracce di manipolazione. Per quale fine?
Il consulente della Procura di Palermo Gioacchino Genchi, sentito a processo, ha provato a fornire una risposta al quesito: “Bisogna bilanciare la malafede, l’incapacità o la volontà di dissimulare simulando, perché a volte ci si può fingere estremamente imbecilli per far sembrare tutto quello che si fa come frutto di un’attività puerile”.
Rimane avvolto nel mistero anche un altro dei tanti elementi inquietanti di questo processo: il ritrovamento, tre giorni dopo l’esplosione, di un bigliettino con su scritto: “Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2.GUS, via Selci numero 26, via Pacinotti” seguito da un numero di cellulare 0337/806133. Dalle prime indagini l’utenza telefonica risulta in uso a tale “Lorenzo Naracci,  funzionario appartenente al Sisde, servizio segreto civile”.
Il Gus, Gestione unificata servizi, è una società di copertura dei Servizi Segreti e Naracci è stato vice capo della struttura informativa di Palermo e ha lavorato con Bruno Contrada sia a Roma che a Palermo. Il Gus ha sede in via In Selci a Roma mentre in via Pacinotti a Palermo, si trova la Telecom e il “guasto numero 2” indica la probabilità di una clonazione in atto.
Tante, tantissime informazioni in un solo bigliettino, forse troppe.
“L’ipotesi di una convergenza di interessi  di settori deviati dei servizi segreti – scrive il pm Tescaroli nella sua requisitoria – viene corroborata dal rinvenimento di questo bigliettino”, tuttavia “ci si deve chiedere, in effetti: come mai un biglietto con un’annotazione relativa al nome e alla sede di una società del Sisde, nonché ad un numero telefonico di un funzionario appartenente alla medesima struttura siano stati rinvenuti in quel luogo proprio nella immediatezza dell’eccidio? Quando, da chi e per quale motivo è stato fatto ritrovare quel sito?”
Domande senza risposta. Depistaggio?
Mezza verità? Mezza Menzogna? Difficile pensare che gli agenti dei servizi segreti che agirono sul teatro della strage, come è risultato dalle indagini, si siano distrattamente persi un foglietto così “esplicativo”.
E quell’indicazione di clonazione telefonica che rimanda proprio a quello strano giro di telefonini che ruota attorno alla strage di Capaci?
Le investigazioni porteranno ad una specie di agenzia esperta in clonazioni presso cui si servivano anche i mafiosi: lo si scoprirà grazie ai collaboratori di giustizia che rivelano che gli stragisti sul posto fece uso proprio di telefonini clonati. Che, però, lasciano traccia.
Qualcuno infatti si era premunito utilizzando, il giorno della strage, un telefonino fantasma, cioè apparentemente disattivato, per chiamare un numero del Minnesota, negli Stati Uniti. Un’inquietante coincidenza con la strage in cui morì il Giudice Istruttore Rocco Chinnici, quando l’Fbi intercettava un mafioso di primo piano Gino Mineo al telefono con un anonimo interlocutore di Palermo che lo informava dell’esito dell’eccidio.
Dell’interessamento dei cugini d’America sui grandi delitti siciliani e proprio su quello di Falcone ha parlato chiaramente anche Antonino Giuffré, l’ex braccio destro di Bernardo Provenzano. Disturbati dall’attività del magistrato che aveva ampiamente varcato l’oceano i Gambino, una delle cinque potentissime famiglie di New York, aveva inviato addirittura il proprio avvocato ad interloquire con i cugini italiani affinché si comprendesse l’entità delle dichiarazioni di Buscetta e soprattutto affinché si provvedesse a fermare questo Falcone.
Riina, tramite Giuffré, che aveva titolarità a parlare con gli americani grazie al suo legame di parentela, da parte della moglie, con gli Stanfa di Philadelphia, aveva inviato rassicurazioni in merito. E la “malafigura” fatta all’Addaura era stata riparata a Capaci.
Nonostante le manomissioni i consulenti della  Procura, grazie agli ingegneri della Casio, riuscirono a recuperare la memoria del databank del giudice, nel quale erano riposti i dati delle ultime indagini su cui stava lavorando il giudice. Il delitto Lima, gli omicidi politici, tutte le sue straordinarie intuizioni, e un vero e proprio archivio sulla vicenda Gladio. Anche questo era stato consultato da chi si era introdotto nel software.
“Le schede sono inserite nell’ambito del programma Perseo. – Hanno spiegato i consulenti informatici. – E non basta conoscere la password per consultarlo, bisogna anche avere una serie di conoscenze approfondite e specifiche sul funzionamento del programma, che è utilizzato solo dalle Procure e da uffici investigativi ad altissimo livello. I servizi segreti per intenderci”.
A confermare questa intenzione di Falcone ad indagare su Gladio il giudice Alfredo Morvillo, oggi procuratore aggiunto a Palermo: “Ricordo con precisione che il dottore Falcone parlò delle indagini su Gladio in più di una riunione nell’ufficio del procuratore Giammanco a proposito degli omicidi politici. Ne ho un ricordo preciso perché quell’inchiesta costituì oggetto di discussione: Giovanni Falcone aveva delle idee circa la possibilità di ricominciare tutto daccapo sugli elenchi, in maniera più approfondita, invece il procuratore Giammanco non la pensava allo stesso modo. E assegnò il fascicolo ad un altro magistrato”.
Che pista stava seguendo Giovanni Falcone? A cosa si riferiva quando, rileggendo la storia dei tanti colleghi e amici che lo avevano preceduto nella sua tragica fine, scrisse “si muore quando si è lasciati soli o quando si entra in un gioco troppo grande?”
Cos’è questo gioco grande? e chi sono i giocatori?
Aveva fatto in tempo Giovanni Falcone a trasferire quanto di sua conoscenza all’amico fraterno e altrettanto geniale collega Paolo Borsellino?
Non lo sappiamo con certezza. L’unica cosa che è sempre stata chiara ai familiari e ai colleghi di Borsellino è che per seguire l’imput lasciatogli con Falcone non avesse abbastanza tempo. Lo sapeva e lo ripeteva continuamente. Affermava anche di essere a conoscenza di informazioni che avrebbe riferito quanto prima all’autorità giudiziaria e lavorava incessantemente giorno e notte per non lasciarsi sfuggire nessuna pista che lo potesse portare a scoprire gli esecutori e i mandanti interni ed esterni dell’assassinio di Giovanni Falcone.
Un’altra strage, se possibile ancora più misteriosa, se possibile ancor più avvolta nei Segreti di Stato. Questa volta sono i collaboratori di giustizia stessi, nonostante le preziosissime rivelazioni, a tracciare una sorta di confine invalicabile oltre il quale non intendono andare costringendo i giudici del cosiddetto “Borsellino ter” ad ammettere nella motivazione della sentenza che “la Corte è pienamente consapevole che la ricostruzione dei fatti che intende offrire è gravemente lacunosa, rimanendo tuttora non identificata una larga parte degli attentatori e dovendosi ancora sciogliere innumerevoli e importanti interrogativi riguardo alle modalità operative seguite dai medesimi”.
Perché?
In realtà la strage di via D’Amelio presenta ben più di un’anomalia rispetto alla “tradizione stragista” di Cosa Nostra. La tempistica prima di tutto, la cosiddetta accelerazione con cui Riina decise di procedere a “fare il fatto di Borsellino” lasciò letteralmente interdetti gli altri membri della Cupola che non fecero mistero delle loro perplessità. Al compare Raffaele Ganci che per confidenza si permise, in disparte, di avanzare una qualche rimostranza il capo dell’organizzazione rispose con assoluta fermezza che: “La responsabilità era sua”. E solo 57 giorni dopo la morte di Falcone assassinarono Borsellino scatenando una reazione senza precedenti sia della pubblica opinione sia da parte dello Stato. Una scelta strategica del tutto sbagliata, si dirà, ma Salvatore Cancemi, che all’inizio della sua collaborazione non si sognò nemmeno di nominare la strage di via D’Amelio, semplicemente suggerisce: “Riina non era un pazzo, se l’ha fatto è perché aveva avuto qualche garanzia”. E con questa frase l’ex membro della Commissione di Cosa Nostra si sbilancia ad indicare i possibili referenti politici con cui Riina e Provenzano, che “sono la stessa cosa”, potevano aver preso accordi, ma non a riferire quanto sa sugli esecutori materiali della strage. Si limita infatti a ricostruire il percorso di sorveglianza compiuto da lui stesso, da Raffaele Ganci e dai suoi figli, ma non conosce sugli esecutori materiali.
Ancora più eclatante la posizione di Giovan Battista Ferrante che ha confessato di aver provato il telecomando che ha fatto detonare l’esplosivo, di aver partecipato alla perlustrazione della zona di abitazione del magistrato, ma ha dichiarato di non sapere chi rispose al telefono quando, alle 16.52, chiamò uno dei cellulari del gruppo operativo della strage per dare il via libera. Un numero tra l’altro che aveva composto più volte in quel giorno. “Volevo provare il campo”, ha spiegato durante il processo. A fornirgli quel numero, intestato a Cristoforo Cannella, era stato Salvatore Biondino che glielo aveva scritto su un biglietto.
I tabulati telefonici però non fanno altro che infittire il mistero.
Ed è proprio seguendo le tracce lasciate dai telefoni che il consulente della Procura Gioacchino Genchi riesce a ricollegare Gaetano Scotto, condannato all’ergastolo per la strage, con il Cerisdi una scuola per manager ospitata al Castello Utveggio che dal Monte Pellegrino sovrasta Palermo e soprattutto offre una visuale eccezionale su via D’Amelio.
Erano emerse due telefonate importanti, una cinque mesi prima dell’omicidio Borsellino da Scotto, e un’altra del ’91, effettuata da un altro boss di Bagheria, Gaetano Scaduto. La squadra mobile avvia un’indagine che però si ferma subito tra ostacoli e il trasferimento degli inquirenti.
Solo dieci anni dopo in sede dibattimentale Genchi ha potuto spiegare che: “Nella sede del Cerisdi si trovava una postazione di soggetti già appartenenti all’Alto Commissario per la lotta alla mafia e poi forse in forza al Sisde, il servizio segreto civile. Il Sisde, all’epoca, aveva smentito nettamente che quei soggetti fossero appartenenti alla struttura”. Poco tempo dopo però sbaraccarono tutto e lasciarono il Castello. La Procura fece poi esaminare il traffico telefonico del Cerisdi, ma solo quelle in entrata fatte dai cellulari poiché in quegli anni quelle dagli apparecchi fissi non venivano registrate.
I magistrati hanno accertato che indubbiamente furono due i gruppi che operarono sul posto: uno composto dai mafiosi di cui si è detto che si occupava della parte preliminare e un altro, su cui vige il più cupo dei silenzi, che ha portato a termine il lavoro.
Qualcun altro poi entrò in azione subito dopo la deflagrazione. Quando l’inferno divampò in via D’Amelio in quello scempio di corpi e lamiere qualcuno si introdusse nell’auto blindata del giudice Borsellino, prese la sua borsa da lavoro la portò lontano, sottrasse la preziosissima agenda rossa in cui il magistrato annotava tutti i suoi appunti di lavoro più riservati e la riportò nella blindata.
Una fotografia e un filmato ritrovati recentemente ritraggono un uomo, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli tra carcasse e fuoco con una borsa di cuoio in mano. Interrogato dai pm di Caltanissetta, ha fatto il nome di tre magistrati cui avrebbe consegnato la borsa, ma il suo racconto non trova riscontri e finisce iscritto nel registro degli indagati. Altro mistero.
Una ricostruzione ipotetica degli eventi quindi è possibile solo risalendo ai rapporti interni di Cosa Nostra. 
Salvatore Biondino è l’incaricato di gestire la pianificazione sia della strage di Capaci che in modo particolare quella di via D’Amelio, procura l’esplosivo, tra cui il rarissimo T4 di solito lavorato in ambiente militare, e fornisce il numero a cui far pervenire la comunicazione dell’arrivo del corteo del giudice. E’ il braccio consapevole che si muove sul campo assieme agli altri grandi capi mandamento coinvolti in questa strage: Pietro Aglieri, Carlo Greco, i Graviano, tutti ferocissimi stragisti, giovani, condannati all’ergastolo che dopo anni di carcere non hanno mai dato un solo minimo cenno di cedimento. Sono custodi di grandi segreti che non violeranno a nessun costo.
Cosa Nostra dunque acconsente che qualcun altro partecipi alla strage, qualcuno con cui ha un dialogo diretto e riservato, qualcuno come i servizi segreti.
Un contributo di notevole spessore, invece, è venuto dalla collaborazione di Antonino Giuffré che ha spiegato agli inquirenti che mentre la strage di Capaci era stata decisa da Riina, quella di via D’Amelio era stata voluta da Provenzano. Questo perché “non si sa bene come” il capo di Cosa Nostra aveva saputo che Borsellino rappresentava un ostacolo sia per le trattative in corso tra pezzi dello Stato e l’organizzazione, alla ricerca di nuovi referenti in quel momento politicamente così difficile per il Paese, in bilico tra la cosiddetta Prima e Seconda Repubblica, sia per le indagini che il magistrato stava svolgendo sull’omicidio di Falcone.
Che Provenzano abbia sempre avuto contatti di primissimo livello con entità esterne all’organizzazione era un po’ sulla bocca di tutti in Cosa Nostra. Leoluca Bagarella, suo compaesano, ma anche suo eterno rivale nella successione a Riina, non esita – secondo il pentito Tullio Cannella – a definirlo sbirro e sospetta di un suo intervento nella cattura del potente cognato.
Salvatore Cancemi rivela invece che un giorno, mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Rosalba di Gregorio (che ha smentito l’accaduto ndr.) lo aveva preso sotto braccio e gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. E il pentito non ha dubbi nell’identificarlo con Provenzano, considerato l’epilogo per Riina, e Bagarella, a suo avviso, non possedeva una pari valenza.
La sua stessa incredibile latitanza record finita solo l’11 aprile scorso dopo 43 anni è indice del grado di coperture di cui ha goduto quest’uomo e non sono riscontrabili solamente nella fitta rete di fiancheggiatori, imprenditori e politicanti che lo hanno aiutato tanto negli affari quanto nelle esigenze primarie. Più volte Provenzano è riuscito a sfuggire alla cattura quasi certa pianificata con grande scrupolo da ottime squadre di investigatori, come a Mezzojuso nel 1995, quando su indicazione del confidente Luigi Ilardo il corpo diretto dal colonnello Michele Riccio fu fermato sulla soglia della masseria in cui Provenzano stava tenendo una riunione al vertice.


Una vita non vale un monumento
E’ fuor di dubbio che fu Cosa Nostra a ideare e a realizzare le stragi, ma è altrettanto certo che non agì da sola e che gli effetti della strategia del terrore si inseriscono in uno scenario di grandi mutamenti politici e non solo, avvenuti nel nostro Paese proprio nel biennio di sangue scatenato dai mafiosi. Altri tre eventi delittuosi e come sempre misteriosi aggiungono elementi a questo quadro: la cattura di Salvatore Riina, le bombe del ’93, fatte esplodere a Firenze, Milano e Roma, e il fallito attentato allo stadio Olimpico.
Il 15 gennaio 1993 con un’operazione da manuale il capitano Ultimo e i suoi uomini catturarono Salvatore Riina. Un risultato eccellente e di grande importanza per lo Stato, che era stato così duramente umiliato dall’eliminazione dei due magistrati, oscurato però da un altro segreto. Ufficialmente per un’incomprensione, ma in realtà per ragioni che rimarranno segrete poiché non è stato possibile accertarle processualmente, la villa in cui il capo di Cosa Nostra viveva la sua agiata latitanza con la famiglia è rimasta priva di sorveglianza per ben 18 giorni. Un tempo più che sufficiente per consentire agli uomini d’onore più fidati di prelevare la signora Ninetta Bagarella e i suoi figli e di fare rientro in tutta tranquillità a Corleone, e ad un altro gruppo di svuotare completamente la casa, di ridipingerla e soprattutto di svuotare la cassaforte.
Secondo Giovanni Brusca Riina teneva ben protetti i suoi documenti e non esclude che nel caveau di cui è stata trovata l’incassatura nel muro vi potesse essere anche una qualche carta riconducibile al cosiddetto “papello”, cioè a quella sorta di elenco di richieste che Riina aveva avanzato per migliorare le condizioni carcerare e modificare i provvedimenti legislativi contro Cosa Nostra in cambio della cessazione delle stragi. Una trattativa insomma mirata però più che altro al ristabilimento dei vecchi equilibri di sempre con nuovi interlocutori che la crisi politica scossa dal vento di tangentopoli avrebbe prodotto di lì a poco.
Qualcosa andò storto per Riina però. Ed è lui stesso dopo dieci anni di silenzio assoluto a lanciare un messaggio tanto inquietante quanto chiaro a tutti coloro che sono in grado di comprenderlo. Durante il processo per il fallito attentato allo stadio Olimpico chiede al Presidente di poter parlare, lamenta di essere il parafulmine d’Italia e chiede perché non si voglia indagare su tutti quegli indizi che rimandano ai Servizi Segreti e perché non si interroghi il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, Massimo, che si rese tramite per il dialogo avvenuto con l’allora comandante del Ros Mario Mori e il colonnello De Donno per trattare sulla cattura di Riina e la cessazione delle bombe. E domanda: sono stato venduto?
Un sospetto che aveva serpeggiato nelle colonne di Cosa Nostra sin da subito alimentando i conflitti interni. La grande regia non poteva che essere di Bernardo Provenzano. Era lui, secondo Giuffré, a gestire i contatti riservati dell’organizzazione, ed è stato lui a sollecitare a Riina la strage di Via D’Amelio e soprattutto è stato lui a riportare Cosa Nostra in equilibrio con gli affari, le collusioni politiche e la pacifica coabitazione con lo Stato. Ci ha impiegato una decina d’anni, esattamente come aveva previsto, quando, parlando con Luigi Ilardo, raccomandava di tenere tutte le situazioni sotto controllo così da non fare scruscio, non fare rumore e destare l’attenzione delle forze dell’ordine.
Una strategia che non è scattata immediatamente dopo l’arresto di Riina però. Almeno in apparenza.
Bagarella, Brusca e i fratelli Graviano tra gli altri volevano portare a termine quel progetto iniziato con Riina a Mazara del Vallo quando, durante una classica mangiata, avevano discusso di quella strana idea riportata dal Gioè, in trattativa con Bellini, di attaccare il patrimonio artistico. Provenzano diede il suo consenso ma raccomandò che qualsiasi azione avvenisse fuori dalla Sicilia.
Il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili, proprio di fronte al museo degli Uffizi, una tremenda deflagrazione strapperà alla vita 5 persone: Fabrizio Nencioni di 30 anni e la sua famiglia, la moglie Angela di 36 anni e le figlie Nadia di 9 anni e Caterina di appena di 50 giorni e Davide Capolicchio 22 anni e provocherà 48 feriti, molte famiglie rimarranno senza tetto e danneggerà gravemente le opere contenute nella pinacoteca.
Fu poi la volta di Roma e Milano dove nella notte tra il 27 e il 28 luglio, morirono altre cinque persone: il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Stefano Piperno, Sergio Passotto, Carlo La Catena e un cittadino marocchino Driss Moussafir trovato agonizzante nei giardini pubblici davanti alla villa reale, dall’altra parte della strada e altri sei feriti.
«Se tu vai ad eliminare una persona, se ne leva una e ne metti un’altra. Se tu vai ad eliminare un’opera d’arte, un fatto storico, non è che lo puoi andare a ricostruire, quindi lo Stato ci sta molto attento, quindi l’interesse è molto più che per la persona fisica”. Aveva spiegato Bellini, quello strano traffichino d’arte legato ad indefiniti servizi segreti, tramite per un periodo di un altro negoziato, quello con Gioè per conto di Brusca: benefici carcerari per i detenuti, in particolare Bernardo Brusca, in cambio del ritrovamento di opere d’arte rubate.
Tuttavia l’offensiva di Cosa Nostra allo Stato non si era ancora placata. Un’altra bomba avrebbe dovuto listare a lutto il Paese nell’ottobre del 1993 quando Bagarella ideò un attentato allo Stadio Olimpico di Roma che avrebbe dovuto uccidere i carabinieri in servizio quel giorno. Un guasto non fece esplodere il detonatore e mise il silenzio definitivo anche sulla strategia stragista. Era finita.
Da quel momento e con i successivi arresti di tutti i cosiddetti stragisti: Brusca, Bagarella, i Graviano ecc… ha inizio la “ristrutturazione di Cosa Nostra su vasta scala” ideata da Provenzano e da un direttorio di superfedelissimi tra cui Salvatore Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro che oggi, all’indomani della cattura del grande boss, vecchio e stanco, si preparano a tenere le redini dell’organizzazione.


Senza volto
Si dice che prima di comprendere appieno un fatto storico occorre che trascorrano anni, e in parte è sicuramente così, ma la storia del nostro Paese presenta caratteristiche talmente ricorrenti da consentire ben più di una semplice ipotesi.
Spiega Giovanni Pellegrino nel già citato testo che, a partire dal 1974 vi fu una fase di transazione della violenza: dall’eversione nera alla furia brigatista. Ed è proprio in questo periodo che si verifica un inquietante attività da parte di apparati dello Stato per depistare i magistrati che indagano sulle stragi.
“I servizi volevano impedire che i giudici scoprissero l’esistenza di Gladio, coperta da segreto atlantico, e di quella vasta rete di organizzazioni paramilitari clandestine legate agli apparati. Dovevano difendere il segreto Nato, ma temevano anche che la magistratura scoprisse l’alleanza operativa tra queste organizzazioni clandestine e la destra fascista e, ai livelli più alti, le connivenze e le responsabilità politiche. Dunque, anche quando quella strategia fu abbandonata, interessi istituzionali e politici impedivano che fosse disvelata. Si è chiuso il conto con quella fase attraverso lo sganciamento progressivo dalla manovalanza fascista, ma l’esigenza e la volontà di tenere tutto coperto hanno prevalso a lungo”.
Lo stesso potrà dirsi anni dopo dell’eversione rossa. Curcio stesso ammetterà in sede di Commissione: “Perché ci sono tante storie in questo Paese che vengono taciute o non potranno mai essere chiarite per una sorta di sortilegio? (…) una sorta di complicità fra noi e i poteri che impediscono ai poteri e a noi di dire cosa è veramente successo… quella parte degli anni Settanta, quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce (…) cose che noi non riusciamo a dire perché non abbiamo le parole e le prove per dirle, ma che tutti sappiamo”.
Attraverso l’azione guidata dei servizi segreti e l’opposizione “subdola e strisciante” del Segreto di Stato si è resa impossibile in quegli anni l’accertamento della verità: un metodo che ha subito qualche cambiamento forse solo nella sua manifestazione immediata, ma non nel suo significato.
“Gerarchie occulte – scrive il magistrato Libero Mancuso, consulente per la Commissione – catene di comando non istituzionali, ordini illegali di tacere e mentire alla magistratura consentivano e consentiranno deviazioni, trame occulte e ostacolo definitivi all’accertamento delle responsabilità politiche di tutti coloro che parteciparono a quell’intricato intreccio di illegalità costituzionali”.
Con il trascorrere degli anni la strategia di condizionamento della politica del nostro paese si fa più sofisticata. “Si avverte sempre meno il ‘tintinnio delle sciabole e sempre più quello degli zecchini”, si progetta cioè di utilizzare il controllo sociale come leva per la modificazione istituzionale più che gli apparati di forza cui si ricorre solo in extrema ratio. E il mezzo scelto per conquistare e mantenere il potere è la corruzione. Un programma che trova la sua fabbrica nella P2 di Licio Gelli la cui scoperta non modificherà quasi per nulla, salvo forse ritardarlo leggermente, il “piano di rinascita” democratica apertamente enucleato dal suo primo patrocinatore, anche di recente.
Il passaggio forzato dalla Prima alla Seconda Repubblica avviene proprio facendo saltare il sistema di corruzione di cui quasi tutti erano parte, al fine di eliminare il vecchio per far subentrare il nuovo, anche se solo fino ad un certo punto.
La sensazione è che si recida una parte appositamente troppo compromessa per poi salvare l’intero sistema che può agilmente perseguire gli scopi che si è prefissi salvo magari apporre qualche lieve modifica di rotta, sempre più precisa. Un po’ come giustamente sospetta la Commissione circa la scelta di Andreotti di far conoscere solo una piccola parte della verità su Gladio per nasconderne in realtà la vera natura.
Cosa Nostra e i Servizi Segreti, che continuiamo a definire deviati, tanto per sottolineare la presenza di più soggetti che confluiscono in maniera parallela al raggiungimento degli obiettivi, fanno parte di questo sistema, e tanto dell’una quanto dell’altra sono stati “bruciati” gli elementi che potevano essere sacrificati affinché la “malapianta”, potata, potesse rinvigorirsi e crescere.
“Possiamo affermare con certezza – scrive il pm Luca Tescaroli nella sua requisitoria – che l’organizzazione denominata “Cosa Nostra” è un soggetto criminale che, particolarmente a partire dagli anni 1991-92, ha recitato una parte non marginale nel quadro politico-istituzionale della Nazione”.
Cosa Nostra partecipa fin da subito al cambio di assetti prospettato per quel periodo. Quando infatti, su ispirazioni riconducibili ad ambienti massonici ed eversivi, rappresentati ancora da Licio Gelli e da personaggi come Stefano delle Chiaie, si vanno formando in tutto il Paese leghe autonomiste, non perde l’occasione di formare un partito tutto suo. Sicilia Libera è la creatura cui Leoluca Bagarella dedica le sue attenzioni, nella quale finalmente intravede la possibilità di fare a meno dei politici e di rendere la Sicilia autonoma.
A ricondurre Bagarella a tutt’altra realtà, come un moderno Giuliano, sono i fratelli Graviano e in particolare Filippo che, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Tullio Cannella gli disse:
“Ti sei messo in politica, ma perché non lasci stare, visto chi c’è chi si cura i politici …, ci sono io che ho rapporti ad alti livelli e ben presto verranno risolti i problemi che ci danno i pentiti…”.
I contatti di cui si vantava Graviano erano, sempre secondo il collaboratore, con Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e ideatore di Forza Italia.
Dichiarazioni che hanno trovato conferma in quelle di Antonino Giuffré che dalla privilegiata vicinanza con Provenzano apprese che si era deciso di lasciar perdere la questione leghista e di saltare “sul carro di Forza Italia”. Contrariamente alla sua solita attitudine il capo di Cosa Nostra si era sbilanciato e si era assunto la responsabilità della scelta.
E chiosa ancora Giuffré: «nel momento in cui Provenzano si è assunto delle responsabilità, sta significare che aveva avuto a sua volta delle garanzie».
La strategia stragista decisa da Riina già a partire dal 1991 con lo scopo di “chiudere i conti” con i nemici e i traditori aveva anche ben altre finalità che i magistrati non esistano a definire “di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”. E si inserisce, con la partecipazione attiva dei servizi segreti la cui traccia è evidente in ognuna delle stragi del biennio, in un periodo storico nevralgico “estremamente adatto – scrive Tescaroli – per un verso, a far saltare ogni equilibrio esistente e, peraltro, a crearne di nuovi, caratterizzati da nuovi e più favorevoli rapporti di forze, segnato in un contesto del cosiddetto ‘ingorgo istituzionale’: dimissioni ed elezioni del nuovo capo dello Stato, dimissioni del governo e nuove elezioni politiche anticipate”.
“Tutto cambia affinché nulla cambi” è il gattopardesco sguardo di verità che si stende sulla Sicilia sull’Italia e sul Mondo. Segreto, strategia e violenza sono le tre braccia di cui si serve il potere. Osceno, cioè fuori scena, occulto così come lo definisce con grande maestria il procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato. Un potere che non si vede, che non si sente, che non si tocca, ma di cui abbiamo tutti sicura percezione.
La mafia, nei suoi personaggi più potenti e scaltri, i Servizi Segreti, nelle deviazioni, la Massoneria, nelle sue cellule impazzite, la Finanza nei suoi speculatori più spietati, ecc… una parte dei tanti tutto che rimandano ad un unico Tutto, a quel Gioco Grande di cui Giovanni Falcone, vittima consapevole, aveva già cercato di togliere la maschera, senza riuscirvi, sì, ma indicando la via. Che se perseguita solo da pochi, isolati, delegittimati, calunniati e derisi non potrà essere altro che costellata da nuove dolenti croci.

Giorgio Bongiovanni

 

I servizi affossarono l’inchiesta sulla scomparsa di   De Mauro
Palermo.

 

E’ in corso dinanzi alla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo il processo per far luce sull’omicidio del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, sequestrato dalla mafia il 16 ottobre 1970. L’unico imputato è Totò Riina, collegato in videoconferenza da Milano, che all’epoca dei fatti era sostituto di Luciano Liggio in seno al triumvirato di cui facevano parte anche Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Riina è accusato di essere stato il mandante della scomparsa di De Mauro che, secondo l’accusa, si collega sia con il golpe Borghese sia con la morte di Enrico Mattei. Il pentito siciliano Francesco Di Carlo ha deposto il 14 giugno sostenendo che il giornalista fu ucciso perché aveva saputo che a Roma stavano organizzando un colpo di Stato e che Cosa Nostra si era messa a disposizione dei golpisti. <<Cosa Nostra – ha aggiunto Di Carlo – non aderì successivamente al progetto dei generali perché questi ultimi volevano un elenco dei diecimila mafiosi che dovevano essere messi a disposizione e che per essere riconosciuti dovevano indossare una fascia al braccio nel giorno dello stesso golpe>>. A detta del pentito, da Roma arrivò l’ordine di zittire il giornalista e furono Emanuele D’Agostino, Bernardo Provenzano e Stefano Giaconia a sequestrarlo. Il giornalista fu <<affucato>>, strangolato dopo un interrogatorio per scoprire da chi aveva appreso la notizia.
A sua moglie De Mauro riferì di avere tra le mani un grosso colpo giornalistico, una notizia tanto grande da far tremare l’Italia. Lo ha raccontato ai giudici nella stessa udienza del 14 giugno Elda Barbieri, la vedova del giornalista, che in aula ha anche aggiunto un episodio riferitole dal capo della mobile Boris Giuliano: << Boris Giuliano mi disse che nel corso di una riunione era venuto qualcuno a Roma per affossare l’indagine sulla scomparsa di mio marito>>. Ora si scopre anche che lo stesso episodio, anni fa, era stato riferito dal pm Ugo Saito, attualmente in pensione, ai suoi colleghi di Pavia che avevano aperto un’inchiesta su De Mauro. Saito riferì di aver appreso da Boris Giuliano che la decisione di chiudere le indagini sul giornalista fu presa nel corso di una riunione a Villa Boscogrande alla presenza di uomini dei servizi segreti.
Anche Totò Riina accusa i servizi segreti e lo fa tramite il suo avvocato, Luca Cianferoni. Secondo il boss in quel sequestro c’era l’ombra degli 007.
Dora Quaranta


tratto da ANTIMAFIADuemila n. 3-2006

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