
Eppure Nino Agostino era un poliziotto di quelli che ci credono al proprio lavoro, di quelli che in missione ci sono da sempre, senza decreti di governo o premi in busta paga, in una Sicilia assolata che in quegli anni passa sui morti come fossero un colpo di sole. Eppure Nino Agostino, da vivo prima che da morto, è una storia italiana con tutti gli ingredienti della melma: un collega e (presunto amico) Guido Paolilli, oggi in pensione, che indaga sul caso e chiude il faldone parlando di “delitto passionale”. Come nelle più becere e scontate storie di pavidità d’indagine; una presunta collaborazione di Nino con i servizi segreti e un coinvolgimento nelle indagini per la cattura del boss dei boss Bernarso Provenzano; un foglietto, stropicciato, nel portafoglio in cui si legge “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”, e nell’armadio di casa, ovviamente, arriva prima di tutti una perquisizione che verbalizza di non avere trovato nulla di interessante.
Oggi Nino Agostino è un fantasma. Un fantasma con in tasca una storia sempre troppo poco conosciuta e un serie di incroci che lambisce anche Bruno Contrada. Suo padre Vincenzo, insieme alla moglie Augusta, caracolla per l’Italia raccontando di una famiglia sparata prima ancora di sbocciare rivendicando la giustizia. Ha la rabbia degli onesti traditi senza risposte e lo sguardo lieve di chi non ha mica smesso di voler essere padre di suo figlio, e una barba lunga che gli si appoggia all’altezza del cuore che non taglierà finché non avrà risposte.
Nel calderone altisonante della mafia epica la storia di Nino e Ida Agostino é una barba di storia. Nella quotidianità della memoria esercitata la storia di Nino e Ida Agostino é una storia da tenersi in tasca. Per ricordarsi almeno quante storie ci dimentichiamo, dimenticandoci che non ce le hanno nemmeno raccontate per intero.
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