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Stragi, Brusca: ”Falcone, Borsellino, Bellini. Messina Denaro sapeva”

di Aaron Pettinari   

Il pentito ascoltato al processo di Caltanissetta contro la primula rossa di Castelvetrano

Totò Riina mi ebbe a dire che, qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto. Queste cose me le dice alla fine del 1992, tra novembre e dicembre. Era il periodo in cui non avevamo più notizie e lui iniziava a preoccuparsi che poteva essere arrestato”. Ancora una volta è il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a tornare a parlare degli anni delle stragi. Il pentito è stato ascoltato innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta (presieduta da Roberta Serio) al processo che vede come imputato il superlatitante trapanese, Matteo Messina Denaro.
La primula rossa, già condannata per le stragi del 1993, è accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via d’Amelio, in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle rispettive scorte.
“Io sapevo che Messina Denaro era a capo della squadra che si era mossa su Roma per uccidere Falcone – ha spiegato il l’ex boss di San Giuseppe Jato rispondendo alle domande del pm Gabriele Paci Lui era un personaggio come me, a disposizione di Riina. Era la sua interfaccia su Trapani. Si parlava di Graviano perché lui aveva procurato parte dell’esplosivo per Capaci. Riina mi disse che una parte veniva dai ruderi delle bombe recuperate a mare e da altre fonti già sapevo di Graviano. E Riina confermò”.
In oltre tre ore di udienza Brusca, oltre a ricordare una serie di fatti che lo hanno visto protagonista assieme al boss di Castelvetrano (come l’omicidio di Vincenzo Milazzo ed Antonella Bellomo) ha evidenziato il ruolo del capomafia trapanese all’interno di Cosa nostra spiegando che “dopo la guerra di mafia, anche se era suo padre Francesco Messina Denaro a reggere la provincia di Trapani coadiuvato da Mariano Agate e da Vincenzo Milazzo, era più Matteo ad essere ‘operativo’. Alla morte del padre ereditò il ruolo senza bisogno di votazioni… La loro era una famiglia con contatti importanti sul territorio, personaggi di un certo livello nel trapanese sia in campo politico che finanziario”.

La strage di Capaci

La squadra su Roma e la strage di Capaci
Prima di raccontare alcuni dettagli sulla strage di Capaci il pentito ha ricordato l’incontro che ebbe con Riina nel febbraio del 1992: “Mi incaricò direttamente di occuparmi di Falcone. Chiamò a Vincenzo Sinacori che era in una stanza adiacente e gli disse di far scendere la squadra che era su Roma e di dire a Matteo che aveva risolto il problema”. Uccidere il giudice era da tempo nei piani di Cosa nostra ma l’attentato venne eseguito soltanto dopo la sentenza del maxi processo in Cassazione. “C’era grande preoccupazione per gli esiti del maxi processo – ha continuato Brusca – Ognuno portava avanti una strada per cercare di eliminare gli ergastoli e smontare il teorema Buscetta. Mi attivai io, lo fece Riina tramite il nipote, Giovanni Grizzafi. Lo fece Madonia per un’altra strada. Una speranza che durò finché Falcone non arrivò all’ufficio Affari Penali del Ministero della Giustizia. Cambiando le modalità della Cassazione con la turnazione dei giudici per noi non ci fu più modo. Riina attribuiva a Falcone la colpa ma successivamente anche all’onorevole Lima. C’era una lista a cui voleva ‘rompere le corna’. Falcone, Borsellino, Lima, Ignazio Salvo. Ricordo anche una riunione dove disse di uccidere Pietro Grasso, Arnaldo La Barbera, l’onorevole Mannino, Vizzini e qualcun altro. Soggetti che a vario titolo si erano attivati contro Cosa nostra o che non si erano messi a disposizione a seconda delle circostanze”. Brusca ha anche dichiarato che “dopo la morte di Lima tra gli obiettivi c’era anche l’onorevole Purpura che era in continuazione con quella corrente. Indirettamente volevamo colpire Andreotti che era in corsa alla Presidenza della Repubblica e noi lo volevamo azzoppare. Poi ci siamo riusciti con l’attentato di Capaci”.

Paolo Bellini

La trattativa e gli incontri con Bellini
Diverse domande da parte del pubblico ministero sono state fatte in merito agli incontri avuti tra i boss di Cosa nostra con l’ex estremista nero, Paolo Bellini. “Questi contatti avvengono prima della strage di Capaci e fino all’arresto di Antonino Gioé – ha ricordato Brusca – Proprio Gioé lo aveva portato e lo riteneva una persona seria. Questo soggetto si presentò dicendo che veniva per conto di personaggi politici e che poteva esserci il modo di ottenere benefici carcerari recuperando delle opere d’arte”. E’ questo uno degli altri piani della trattativa che Cosa nostra avrebbe cercato di imbastire per ottenere favori.
“Dopo Capaci mi incontrai con Riina – ha aggiunto rispondendo alle domande del pm – Una volta venne soddisfatto e mi disse che ‘si erano fatti sotto’, senza specificare chi, e che gli aveva ‘consegnato un papello tanto’ con tutta una serie di richieste scritte. Tempo dopo mi disse che le avevano rifiutate. Per questo c’era da andare avanti su tutte le strade possibili”.
Bellini è un soggetto sospettato di essere addirittura il suggeritore delle stragi del ’93 a monumenti e opere d’arte. “Il suggerimento viene da lui, non abbiamo altra fonte – ha dichiarato Brusca – Dopo Capaci è lui a parlare della Torre di Pisa o delle siringhe sulla spiaggia di Rimini. Diceva di creare allarme al turismo, senza il bisogno di fare attentati eclatanti”. Discorsi che Cosa nostra metterà da parte fino al 1993 quando poi verranno avviate le stragi in Continente. In realtà, però, un primo atto avvenne già nell’ottobre del 1992 quando fu collocato un proiettile nel Giardino di Boboli dal boss catanese Santo Mazzei. “Mazzei era già combinato e con lui si parlò di certi argomenti. Ma quella fu una sua iniziativa personale. Arrivò ad un incontro dicendo di accendere il televisore che aveva anche rivendicato quell’azione. Ma la tv non ne parlò. Cosa disse Riina? Che era contento di quello spirito di iniziativa anche se nessuno lo aveva autorizzato. Del resto trattandosi di fuori la Sicilia non c’era bisogno. Ma lui sapeva quello che era il progetto. Ha anticipato quello che si discuteva”.
Tornando a parlare della vicenda Bellini, l’ex boss di San Giuseppe Jato ha anche raccontato di essersi messo in contatto direttamente con Matteo Messina Denaro per il recupero delle opere d’arte. “Lui era informato di questa questione. Mi mandò Riina da lui dicendomi che era a conoscenza di tutto e che sapeva anche che poteva dare una mano d’aiuto per il recupero delle opere d’arte. Lui era uno competente e il padre aveva anche fatto dei traffici. Tramite un soggetto che è stato anche arrestato di recente (Giovanni Franco Becchina) c’era il modo di recuperare qualcosa. Mi portarono una foto di un cane con la testa mozzata e mi parlò di un vaso, che era nelle loro disponibilità in Svizzera, dal valore di un miliardo di lire. Riina poi mi fa dare alcune fotografie da parte di Salvatore Biondino che ritraevano tre quattro quadri rubati. Consegnammo queste a Bellini ed un bigliettino con i nomi di quei soggetti di cui chiedevamo i benefici. C’era Pippo Calò, Luciano Liggio, mio padre Bernardo, Giovan Battista Pullarà e Giuseppe Giacomo Gambino. Solo per quest’ultimo e mio padre si poteva sperare in una detenzione domiciliare”.
Ma non è stata quella l’unica volta in cui Brusca ebbe modo di rapportarsi con il boss di Castelvetrano rispetto a stragi e trattative. “Finché Riina è libero abbiamo un certo tipo di rapporto. Ma io ho comunque la concretezza che lui sa di Capaci, ma anche su Borsellino”. L’audizione di Brusca, infine, è stata rinviato al prossimo 9 gennaio quando, presumibilmente, si terrà anche il controesame.

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da Antimafiaduemila.com

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