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“Sì, quell’uomo è Faccia da mostro, ora fate luce sull’omicidio di mio figlio”

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di Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo – 6 dicembre 2013

Palermo.
Dal giorno che gli hanno ucciso suo figlio ha cercato senza fermarsi mai il misterioso uomo con la «faccia da mostro». Sono passati quasi venticinque anni e oggi Vincenzo Agostino, davanti alla foto che gli mostriamo di un ex poliziotto di Palermo sospettato di avere avuto un ruolo nei delitti eccellenti siciliani, giura: «È lui, dalla foto mi sembra proprio lui: è quello che è venuto una settimana prima a chiedere di Nino, una faccia così non si può dimenticare». Il padre di Nino Agostino, agente di pubblica sicurezza assassinato con sua moglie Ida il pomeriggio del 5 agosto 1989 sul lungomare di Villagrazia di Carini — mai trovati i sicari e i mandanti, Totò Riina ordinò senza successo un’indagine interna a Cosa Nostra per scoprire chi avesse ordinato il delitto — è sicuro che il volto sfregiato è quello che vide tanto tempo fa.
Ma è solo una foto, la foto di Giovanni Aiello, l’ex sbirro dell’antirapine della squadra mobile palermitana che abbiamo intervistato ieri l’altro in Calabria, a Montauro, in provincia di Catanzaro. L’ex poliziotto, che è indagato da quattro procure per certi suoi contatti con le cosche e per le vicende delle stragi del 1992, nega naturalmente ogni accusa e dice di non avere messo più piede a Palermo dal 1976. Vincenzo Agostino invece insiste: «Dubbi non ne ho, però voglio guardarlo da vicino».

È la prima volta che vede la foto di Giovanni Aiello?

«No, non è la prima volta. Qualche anno fa, i magistrati me ne avevano fatto vedere una di Aiello quando era giovane, appena arruolato. Non aveva ancora il volto sfregiato, i suoi capelli erano cortissimi. Quella foto non mi disse nulla, non l’ho riconosciuto. Ma adesso che lo vedo com’è oggi, dentro di me sento un fuoco».

È davvero sicuro che sia lui l’uomo che cercava suo figlio in quella terribile estate del 1989?
«Sono sicuro ma chiedo alla magistratura di farmi vedere di persona questo signore, fatemelo vedere al più presto, non capisco perché non mi abbiano mai fatto vedere la sua faccia dopo quella fucilata ma solo prima. Solo vedendolo da vicino avrò la certezza al cento per cento».

Quando venne a Villagrazia, a casa sua, l’uomo che lei oggi dice di riconoscere?
«Sei o sette giorni prima dell’uccisione di mio figlio».

Cosa voleva?
«Erano in due. Questo con il volto sfregiato guidava una moto, quell’altro era più giovane, di statura più bassa e con i capelli scuri. Fu quello più basso a bussare alla porta della mia villetta. Mi chiese dov’era Nino. Io gli risposi che era in viaggio di nozze. Fu a quel punto che l’altro, lo sfregiato, che fino a quel momento era rimasto sulla moto, disse all’amico: “Digli che siamo dei colleghi, poliziotti”. E se ne andarono. Una settimana dopo uccisero Nino e Ida, che era incinta».

Suo figlio era ufficialmente un agente del commissariato San Lorenzo, eppure aveva confidato a un collega di pattuglia che in quei mesi era impegnato in servizi speciali, a caccia di latitanti come Riina e Provenzano.
«La sera del delitto quel collega raccontò subito tutto al capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, consegnò anche una relazione di servizio. Ma nessuno prese in considerazione quella notizia così importante. La sera del delitto, la polizia e non so chi altri, erano invece molto interessati agli appunti di Nino che custodiva in un armadio della sua camera da letto. Si fecero aprire la porta di casa da mia figlia Flora, che poi sentì qualcuno dire: “Li abbiamo trovati”. Dopo si portarono Flora alla squadra mobile, nel cuore della notte, per chiederle se sapeva di un’ex fidanzata di Nino. Le dissero anche il nome. Così cominciarono a indagare sulla pista passionale. Come sempre, quando qualcuno vuole depistare».

Quando si è accorto che nessuno voleva davvero indagare sulla morte di suo figlio?
«Nei giorni successivi al delitto. Chiesi degli appunti di Nino. Ma nessuno ne sapeva parlare, nessuno mi diceva niente. Qualche tempo dopo mi chiamarono ancora alla squadra mobile e mi mostrarono delle fotografie, per vedere se riconoscevo la “faccia da mostro” che era venuto a cercare Nino a casa una settimana prima».

Quali fotografie le fecero vedere?
«Tante, una era di Vincenzo Scarantino, quel balordo che 3 anni dopo sarebbe stato utilizzato dalla stessa squadra mobile come falso pentito della strage Borsellino».

Vincenzo Scarantino, il pentito fasullo?
«Sì, mi fecero vedere la sua foto già nel 1989. Come se fosse già implicato in qualcosa di strano».

E poi l’inchiesta sulla morte di suo figlio com’è finita?
«La squadra mobile di Arnaldo La Barbera consegnò alla magistratura un rapporto in cui si ipotizzava che l’omicidio di Nino fosse la vendetta della famiglia dell’ex fidanzata di Nino. Poi non si è saputo più niente».

Cosa farà adesso?
«Andrò dai pm, voglio fare il riconoscimento di questa foto davanti a loro. Non mi arrendo. Sono certo che la morte di mio figlio non bisogna cercarla dentro la mafia ma dentro lo Stato».

Tratto da: La Repubblica

In foto: Vincenzo Agostino insieme alla moglie Augusta Schiera

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