9 aprile 2025 – Uno ha una postura quasi intimidita, una voce che lambisce il microfono senza aggredirlo, l’altro è decisamente più a proprio agio con la parola e con la platea. Si è al liceo Cottini di Torino, martedì 1 aprile. L’aula magna ospita alcune classi dell’istituto, qualche docente esterno, oltre che gli insegnanti liceali, una rappresentanza delle Agende rosse locali – al cui impegno si deve l’iniziativa – e i due relatori. L’uno è il generale in quiescenza dei Carabinieri, Michele Riccio, e l’altro è l’avvocato Fabio Repici. Il primo è stato testimone di una lunga stagione della storia repubblicana, quella che va dagli anni di piombo, accanto al generale dalla Chiesa, alle stragi del 1992-93; Fabio Repici è avvocato difensore di una fitta serie di familiari di vittime di mafia, dalla famiglia Borsellino a quella Alfano, dai familiari di Graziella Campagna a quelli di Attilio Manca, dalla famiglia Agostino alla famiglia Caccia e altre ancora.
Carmen Duca
L’occasione per dialogare con questi due diversi e robusti testimoni della nostra storia recente e meno recente è data dalla pubblicazione di un volume, “La strategia parallela. Il progetto occulto di assalto alla Repubblica”, scritto a due mani dallo stesso Riccio e dalla scrittrice Anna Vinci per le edizioni Zolfo (2024). Un’autobiografia raccontata dall’ex generale alla scrittrice, che si fa biografa e, insieme, confezionano un j’accuse terribile e pesante nei confronti di quanti, vestendo i panni istituzionali di uomini dello Stato, si sono mossi avversando, strozzando, tradendo, inquinando i dettami costituzionali sui quali pure avevano giurato. È Riccio che inizia a parlare, dopo una breve introduzione di Carmen Duca, responsabile locale delle Agende rosse. Lo fa con una certa esitazione, che esplicita: «Non sono abituato a parlare molto; sono più che altro un ufficiale operativo. Sono sempre stato un investigatore e ritrovarmi, ora, a raccontare storie vissute, esperienze di vita, mi è alquanto difficile». Del suo libro fornisce, inizialmente, le finalità: vorrei far comprendere cosa significhi operare delle scelte, scelte che segneranno il percorso di ognuno di voi. Perché “strategia parallela”? Perché la strategia è una linea d’azione in vista di un obiettivo e parallela perché esistono ambienti che perseguono finalità diverse, obiettivi diversi rispetto a quelli ufficiali; ossia non in linea con i principi costituzionali.
Michele Riccio
Non entra nei particolari, Riccio, lascia un po’ generico il discorso, soprattutto all’intendimento dei giovani studenti dinanzi a lui, a cui mancano, per varie ragioni, gli strumenti per decodificare in modo pieno e completo le sue osservazioni. La strategia parallela, continua, «è una vicenda che ho iniziato a percepire sin dall’inizio della mia esperienza da ufficiale dei carabinieri; anzi, da quando sono entrato in Accademia ho cominciato ad avere delle percezioni che tutto ciò che mi circondava non fosse proprio aderente a quanto mi aspettavo di vivere e agli impegni che stavo assumendo». Poi, accanto al generale dalla Chiesa – il “mio” generale, come affettuosamente lo chiama – quelle percezioni avevano iniziato a prendere forma e aveva cominciato a comprendere che esisteva «un ambiente che cercava di condizionare le nostre attività».
Si ferma, il generale Michele. E torna indietro, prova a contestualizzare, colloca il pubblico al termine della seconda guerra mondiale, una guerra persa in modo tragico, che ci fece perdere territori e, «io dico, anche la dignità». Una guerra promossa dal fascismo, dopo la quale i vincitori del conflitto, in primis gli Stati Uniti, «condizionarono lo sviluppo della nostra società, perché avevano deciso di contrapporsi a un nuovo nemico che si stava presentando, che era il comunismo». Bisognava fronteggiare l’avanzata del Partito comunista italiano e, a tal fine, furono create attività e strutture in cui furono chiamati uomini che davano garanzie in tal senso, «erano tutti, diciamo, provenienti dall’esperienza fascista». Frenare l’avanzata dei comunisti e condizionare le nostre istituzioni perché si allineassero a questo progetto, nato allora e tutt’ora esistente; questa era la strategia parallela.
- Carmen Duca, Michele Riccio, Fabio Repici e Franco Plataroti
Ancora oggi è presente questo progetto, il tentativo di condizionare le nostre scelte, portato avanti da uomini che si impegnano per attribuire determinati fatti, determinati crimini ad associazioni, a gruppi e ciò per nascondere la loro linea operativa. Ce ne sono molti di questi uomini delle strutture, dice Riccio; da loro ha compreso l’esistenza di questo progetto, partito prima di tutto utilizzando le strutture militari nei famosi golpe; chiede ai ragazzi quanti di loro abbiano sentito parlare dei tentativi di colpo di Stato negli anni Sessanta e Settanta. Non aspetta la risposta, cerca di spiegare che quei tentati rovesciamenti della Repubblica furono attuati strumentalizzando la frustrazione dei militari che arrivavano da una guerra persa e, fra questi, anche suo padre. E, dopo aver piegato ai loro fini la frustrazione derivante dal secondo conflitto mondiale, questi uomini «sono passati a strumentalizzare anche gli aspetti terroristici, perché questo è un progetto passato attraverso varie fasi, per arrivare poi all’utilizzo della criminalità organizzata, in maniera sempre più coinvolgente». Non si doveva arrivare a una rivoluzione – spiega ancora l’ospite del Cottini – non si doveva sovvertire lo Stato, ma creare un clima di tensione per rinsaldare lo Stato; una strategia che non era solo una scelta nazionale, «fatta in piena autonomia, ma asservita agli interessi della Nato e, principalmente, a quelli americani».
Riccio osserva che ha avuto la possibilità di passare attraverso tutte queste fasi, prima agli ordini del generale dalla Chiesa, «che ho seguito sino al 1982, quando è stato mandato in Sicilia, lì dove è stato assassinato, diciamo, dalla mafia. Ma non era certo la sola mano mafiosa ad aver voluto la sua morte». Poi, ha continuato, sino ai primi anni Duemila, quando ha lasciato il servizio attivo. Nel libro, precisa ancora, si è proposto, appunto, di indagare determinate vicende, tutte collegate e tutte parti «di questo progetto che io chiamo eversivo e che ha avuto il suo suggello e il suo completamento con l’esperienza siciliana». La Sicilia, aggiunge, è l’incontro con Luigi Ilardo, il quale gli ha fornito indicazioni su persone che aveva incontrato trent’anni prima durante le attività investigative con il generale dalla Chiesa. E se durante l’attività a fianco di quest’ultimo aveva visto in lui un conforto, una guida, dopo ammette di essersi trovato solo, privo di riferimenti, operando scelte non sempre felici, ma sempre improntate a quei valori portati avanti con coerenza in una vita, l’onore, il rispetto dello Stato, la lealtà, la dignità. Poi, riferendosi a uno spezzone del film di Sabina Guzzanti, “La trattativa”, nella parte in cui si parla di lui e di Luigi Ilardo – proiettato all’inizio dell’incontro e che lui ammette di non avere visto – aggiunge che Ilardo gli aveva chiesto di tutelare la sua dignità, si era affidato allo Stato, ed era stato tradito dallo Stato stesso. Ma lui, Michele Riccio, non ha mai voluto dimenticare di essere «un figlio del popolo a servizio del popolo e non degli interessi di un gruppo di potere che, diciamo, mi avrebbe consentito di vivere tranquillo».
E qui si ferma, lasciando il passo all’avvocato. Repici richiama subito alla mente il film della Guzzanti per precisare che Luigi Ilardo era un delinquente. Un uomo che, come talvolta accade, si era trovato in difficoltà nel mondo criminale in cui viveva e che, pur continuando a fare il mafioso, era un infiltrato per conto dello Stato nella più grossa organizzazione criminale del tempo, ossia Cosa nostra. E, in tale veste, aveva consentito l’arresto di alcuni dei più pericolosi latitanti presenti in Sicilia, alcuni dei quali erano persone con cui si era incontrato la sera prima. Fra questi, osserva l’avvocato, anche il principale responsabile del delitto di Graziella Campagna, caso di cui il giovane Repici si era occupato e che racconta al pubblico per sommi capi. Poi, torna su Ilardo, un mafioso infiltrato nella mafia, per conto di uno Stato che «non è stato in grado di tutelarlo»; e non per dargli una medaglia, precisa Repici, perché sempre un criminale era, ma perché sarebbe stato legittimo concedergli il bene della vita. Invece non fu così e Ilardo fu messo nel dimenticatoio. Queste, che paiono storie da film, accadevano regolarmente nella realtà in cui si è vissuto per lunghissimi decenni.
Fabio Repici
Repici prova, quindi, a ragionare con la platea sul significato della storia e della memoria e sull’importanza di non perdere i pezzi della nostra vicenda collettiva. Parte dal 1992, anno che ha rappresentato una svolta per tanti giovani, l’anno delle autobombe, delle autostrade sventrate, quello che ha segnato il racconto pubblico per decenni. E che forse, ora, può apparire ai più giovani come preistoria, alla stregua – precisa l’avvocato – dei fatti immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale quando lui era giovane come i suoi attuali uditori. Eppure, aggiunge, la memoria serve, la storia collettiva serve; servono per cercare di discernere il vero dal falso, tanto più in un’epoca come questa, quella onlife, termine con il quale si intende una vita perennemente interconnessa, in cui un mostruoso flusso di informazioni impedisce di separare il grano dal loglio. In questa realtà di ipertrofia comunicativa è possibile che vengano fatte credere cose diverse da quelle accadute nella realtà. Il libro di Riccio, precisa, cerca proprio di contrastare quanto di falso ci sia in alcune versioni ufficiali della storia che ci è stata raccontata. È la conseguenza di un fatto ovvio, sottolinea l’ospite del Cottini, «il racconto pubblico è sempre un po’ il racconto del potere» ed è chiaro che i padroni dell’informazione difficilmente mettano in circolazione notizie o interpretazioni che vadano contro il loro interesse. E cita, non a caso, il romanzo orwelliano “1984”, in cui campeggia l’uso della neolingua, che stabilisce che “la guerra è la pace” e cambia il bianco con il nero, giusta la volontà del regime.
Bene, prosegue Repici, la nostra storia repubblicana è intrisa di questa neolingua e di sangue. All’indomani della fine della seconda guerra mondiale, dopo il referendum del 1946 e prima ancora dell’entrata in vigore dell’attuale Costituzione, nel gennaio ’48, la Sicilia fu scossa dall’eccidio di Portella della Ginestra, il primo maggio del 1947. Contadini, lavoratori, sindacalisti furono fatti oggetto di colpi di mitra, bombe, armi da fuoco da parte di banditi «che avevano anche appoggi politici e che cercavano di piegare nel sangue la lotta di liberazione di cittadini che cercavano di veder riconosciuti i propri diritti». Da allora, la storia d’Italia è stata segnata dal sangue di vittime innocenti. Da loro, puntualizza l’avvocato quello che è il centro concettuale del suo discorso, ho imparato una cosa importante, ossia che la ricerca della verità da affermare nel discorso pubblico in questo paese è stata promossa «quasi sempre e quasi solo dai familiari delle vittime, perché avevano una necessità dell’anima. […] Anziché essere messi a carico delle istituzioni, gli sforzi per ottenere verità e giustizia sono stati messi sulle spalle dei familiari delle vittime, che hanno dovuto supplire alle inerzie delle istituzioni».
Per dare forza alla sua tesi, Repici evoca la vicenda dell’ufficiale dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli, immortalato con in mano la valigetta di Paolo Borsellino, mentre intorno era l’inferno; a distanza di quasi 33 anni, stiamo ancora aspettando, ironizza con amarezza l’avvocato, che quell’ufficiale scriva una relazione di servizio, come quelle scritte negli anni da Riccio, sul perché abbia prelevato la valigetta e dove sia finita l’agenda rossa contenuta all’interno. Non un mafioso di Corleone, non uno ‘ndranghetista a Torino, ma un uomo dello Stato. E poi, con un salto apparentemente ardito, parla al pubblico di un film, “Argentina. 1985”, legato alla dittatura dei colonnelli, ai desaparecidos, ai giovani prelevati e uccisi non perché «comunisti o rivoluzionari, ma perché volevano essere liberi». Due dei dittatori, spiega Repici, ossia il generale Videla e l’ammiraglio Massera erano iscritti a una loggia massonica, la P2. E contro quella dittatura, prima ancora che cadesse, si mossero le madri di Plaza de Mayo, che reclamavano la verità e la verità arrivò, non grazie alle istituzioni, ma alle mamme che si erano spese per ottenere giustizia. E aggiunge, tornando in Italia, il caso Stefano Cucchi, sollecitato dalla tenacia della sorella Ilaria, che ha portato alla condanna di uomini dello Stato.
Ecco chiarito il riferimento all’Argentina, con un sottile sottotesto non dichiarato. È davvero una democrazia quella che rinuncia alla ricerca della verità e la scarica sull’amore familiare infranto da una morte violenta? Che la nostra sia una democrazia parziale, lo ribadisce ancora Michele Riccio, sollecitato da una domanda provocatoria di Carmen Duca. Come possiamo spiegare ai ragazzi – chiede la responsabile delle Agende rosse torinesi – che lei, generale, è stato arrestato e processato e il generale Mori è, oggi, consulente della Commissione antimafia? L’ex generale risponde a lungo, tralasciando il riferimento all’attuale ruolo rivestito da Mori e soffermandosi, nel dettaglio, sulla vicenda di Ilardo e sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano, capo di quella mafia siciliana già entrata «con tutte e quattro le gambe nella massoneria» e, per questo, tanto più pericolosa perché in contatto con parti dello Stato. Fu Ilardo a chiarire all’ufficiale che non avrebbe parlato solo di omicidi, di traffici, ma di connessioni tra lo Stato e Cosa nostra, di attentati che la mafia «aveva posto in essere ma su ispirazione dello Stato» e di cui avevano pagato le conseguenze i soli criminali. «Stia attento perché sopra di lei c’è qualcuno che è in contatto con noi», lo ammonì Ilardo; noi, cioè la mafia, e chi potrà essere sopra un colonnello, se non un generale? pensò Riccio. E spiega delle confidenze di Ilardo, del crescente rapporto fiduciario tra loro due, degli attentati «che partivano da relazioni [di Cosa nostra] con i servizi segreti» e di catture eccellenti dei boss che «non erano solo abilità o capacità delle forze di polizia, ma erano anche, diciamo, trattative poste in essere […] I mafiosi hanno sempre parlato con lo Stato», sin dai tempi dello sbarco in Sicilia. Ilardo racconta, Riccio riporta ai suoi superiori, ma il generale Mori blocca le osservazioni legate alla politica. Eppure, il confidente riferisce questioni importanti, Cosa nostra dopo aver abbandonato il progetto di fare un proprio partito, «si era avvicinata a una nuova formazione politica, che era Forza Italia». Mori non vuole relazioni, Riccio, invece, scrive.
E si arriva a Provenzano, grazie a Ilardo, che spiega dove si trova il covo del boss, ma Mori, non una sola volta, dice a Riccio che non riescono a trovare la tana e lui e il confidente ripetono la strada, la rifanno per fornire indicazioni più precise. E Provenzano resta dov’è, per anni, mentre Mori spinge perché Ilardo sia seguito dal magistrato Tinebra e non da Caselli. E Riccio racconta ancora dei suoi dubbi, della sua solitudine, della mancanza di punti di riferimento in quel momento, dovuta anche al fatto che i suoi colleghi «appartenevano al cerchio magico», ossia alla strategia parallela. E mostra agli uditori Ilardo, presso la sede del Ros, in attesa di parlare con i magistrati: è il 2 maggio 1996, nella sala arriva Mori, Ilardo si alza di impeto e gli sbatte in faccia: «certi attentati li avete commessi voi e noi ne abbiamo pagato le conseguenze». Mori non risponde, va via, scompare, poco dopo Ilardo, entrato dai magistrati, ignora Tinebra e si siede dinanzi a Caselli e parla, sino a che Tinebra non sbotta: «interrompete tutto, ci rivedremo la prossima volta». Ma non ci sarà una prossima volta, spiega Riccio. La voce della collaborazione di Ilardo esce dalla procura di Caltanissetta, il confidente viene ucciso, è il 10 maggio 1996. E a lui, all’allora colonnello Riccio, si chiede, dopo la morte di Ilardo, «di non parlare, di non fare nessun rapporto giudiziario, di non rappresentare nulla. E io, invece, ho messo tutto per iscritto. Non ho timore a scrivere con il sangue che la morte di Ilardo veniva, diciamo, dalle maglie dello Stato».
Ecco, tutto ciò è arrivato alle orecchie dei presenti in sala. E molto di più, compreso il meccanismo di delegittimazione del colonnello, per intiepidire l’effetto delle sue relazioni, per fiaccarne la volontà di denuncia. Perché, appunto, ci sono verità indicibili che devono restare tali. Una di queste è che lo Stato ha anche un volto mostruoso. Per dare ulteriore forza alla sua controstoria, Michele Riccio, riferendo di un colloquio con un suo collega siciliano, molti anni prima, ricorda al termine del suo intervento che questi lo raccomandò: «stai attento: facendo mafia, non saprai mai chi è amico e chi è nemico». Come recitava il mantra di “1984”? La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Il libro di Riccio e Vinci rende realistica la distopia orwelliana. Merita una lettura, anche se si tratta di un realistico racconto dell’orrore.
Franco Plataroti (www.girodivite.it)
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