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La riflessione di Fabio Repici: Vittime di mafia e veleni dell’anti-anti-mafia

25 agosto 2022 – Ci sono evenienze in cui uno fino all’ultimo evita perfino di fiatare, sperando che mistificazioni e veleni stolidi e ingiusti vengano meno da soli. Poi, però, càpita di doversi arrendere, quando il sonno della ragione continua a fomentare quelle mistificazioni e quei veleni stolidi e ingiusti.

Per questo mi sto usando violenza, nello scrivere queste righe. Ma, davvero, non mi è più possibile tacere. Seppure sia una di quelle occasioni in cui il dovere della parresia rischia di entrare in conflitto con altre pulsioni anch’esse eticamente rilevanti.

C’è, a Palermo, una famiglia che per oltre trent’anni ha dovuto penare e lottare in modo tanto strenuo quanto angosciante prima di avere un processo per l’uccisione di un proprio congiunto e di sua moglie. Si tratta, come ognuno sa, della famiglia del poliziotto Antonino Agostino (nella foto, ndr), assassinato il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini, insieme alla giovanissima moglie Ida Castelluccio. L’indimenticata signora Augusta, mamma dell’agente ucciso, non ha fatto in tempo a veder iniziare il processo. Pure questo le è stato negato. Dalla sua tomba, come ha voluto che venisse scolpito, aspetta verità e giustizia.

Come se non bastasse, perfino le coraggiose testimonianze dei familiari di Nino Agostino sono divenute oggetto di vomitevoli falsificazioni, che, partite dal mondo sempre più spesso nauseabondo dei social network, rischiano di essere ingigantite, ignoranza aiutando e spirito critico mancando.

Il 5 ottobre 2021 davanti alla Corte di assise di Palermo ha deposto una delle sorelle di Nino, Nunzia Agostino. Tra l’altro, ha raccontato di come nel 1992 lei e i suoi familiari fossero disperati per lo stato delle indagini, che non avevano mai avuto sviluppi dopo una psichiatrica causale passionale del delitto ipotizzata in una informativa del famigerato Arnaldo La Barbera un mese e mezzo dopo il duplice omicidio. Per quel motivo negli ultimi mesi del 1992 lei si era rivolta all’avvocato Carlo Palermo (a tutti noto come il magistrato destinatario del gravissimo attentato di Pizzolungo del 2 aprile 1985, nel quale egli fu solo ferito ma purtroppo rimasero uccisi Barbara Rizzo e i suoi figli Giuseppe e Salvatore Asta, gemellini di sei anni). Carlo Palermo nei primi giorni del 1993, per contrastare la richiesta di archiviazione avanzata a ottobre 1992 dal pm Giustino Sciacchitano, aveva depositato una memoria difensiva che aveva provocato reazioni inimmaginabili. Carlo Palermo, insieme a tanto altro, aveva evocato «un possibile coinvolgimento dei servizi segreti nell’omicidio di mio fratello». Ne era venuta una reazione sconvolgente – ha aggiunto Nunzia Agostino – con una intimazione/consiglio al signor Vincenzo Agostino (padre di Nino) affinché convincesse, in qualunque modo, la figlia a revocare il mandato all’avvocato Carlo Palermo, con un chiaro messaggio: «Perché in nessun modo dovevano essere coinvolti i servizi segreti nell’omicidio di mio fratello. Non solo, aggiunse pure che se io avessi continuato con questa pista con l’avvocato Palermo mio fratello addirittura poteva essere accusato dell’omicidio del piccolo Claudio Domino». Non è difficile comprendere l’effetto di terrore nei familiari di Nino Agostino al pensiero del possibile ulteriore fango gettato sulla memoria del proprio caro. Nunzia Agostino aveva spiegato come avevano già dovuto ingurgitare ben più che schizzi di fango, perché dagli ambienti investigativi addirittura erano già state fatte filtrare voci velenose secondo cui «si cominciava a ipotizzare il possibile coinvolgimento di mio fratello nell’attentato all’Addaura».

La lotta per la verità e la giustizia, insomma, fin dai primi anni per i familiari del poliziotto Nino Agostino si era intrecciata con l’impegno ancora più straziante di preservare la memoria di una vittima dal fango utile anch’esso a ostacolare la ricostruzione dei fatti.

Del resto, era lo stesso periodo di tempo in cui, anche da settori istituzionali e perfino da esponenti ufficialmente militanti nella lotta alla mafia, analoghi veleni venivano inoculati in società nel tentativo di distruggere la credibilità di Giovanni Falcone, accusato anch’egli di esserselo fatto da sé, l’attentato all’Addaura. Per chi non ci credesse, sul web è facile reperire discorsi nei quali lo stesso Falcone raccontò di quelle vomitevoli insinuazioni.

E forse non a caso quelle infamanti voci furono messe in circolo ai danni del poliziotto Agostino e del magistrato Falcone, visto che oggi ci sono le prove di un rapporto fra i due, sintomatico della militanza del poliziotto dalla parte del magistrato, come certificato dalla presenza di Giovanni Falcone non solo al funerale di Nino Agostino e Ida Castelluccio, ma anche, senza alcun preavviso, alla veglia funebre per le salme dei due giovani sposi assassinati, allestita nei locali del commissariato San Lorenzo. Nell’occasione, Falcone affermò davanti a tutti i presenti che egli doveva la vita a quelle bare e poi, colloquiando riservatamente con Saverio Montalbano, dirigente in quel momento del commissariato San Lorenzo, lo avvertì che quel delitto (il duplice omicidio Agostino-Castelluccio) era stato commesso «contro di me» (Falcone) e «contro di te» (Montalbano).

La sconcertante vicenda riferita ai giudici da Nunzia Agostino (se non si fossero fermati, la memoria del poliziotto ucciso sarebbe stata infangata con vere e proprie calunnie, perfino quella di addebitargli in qualche modo il più abietto dei crimini, l’uccisione di un bambino, come Claudio Domino) dopo poco è divenuta oggetto di stomachevoli mistificazioni, con striscianti allusioni fatte circolare per accreditare quella spropositata infamia (che era stata all’evidenza solo un messaggio minatorio) secondo cui l’agente Agostino sarebbe stato niente di meno che il killer di Claudio Domino (vagheggiata nel 1993, quando ancora nulla era emerso in sede giudiziaria su quel delitto).

Un simile vento calunnioso, per quanto sconsiderato e risibile, è montato fino ai giorni scorsi, con stolidi pronunciamenti sui social network fomentati da chi, anche adesso come quando ammanniva veleni contro Falcone dandogli dell’insabbiatore e del simulatore di attentati, opera più vigliaccamente nell’ombra.

Eppure non è pensabile che taluni non sappiano che alcuni collaboratori di giustizi, come Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato, almeno dal 1996 abbiano riferito ai magistrati quanto a loro conoscenza sullo spaventoso assassinio del piccolo Claudio Domino.

Sul web si trovano abbondanti notizie, con i dettagli, ad esempio, del racconto di Ferrante, reo confesso di aver ucciso su incarico di Giovanni Brusca il responsabile dell’omicidio Domino, tale Salvatore Graffagnino, dopo averlo sequestrato e avergli carpito il nome del tossicodipendente (anch’egli poi ucciso) che su ordine di Graffagnino aveva sparato al bambino, “colpevole” agli occhi di Graffagnino di esser stato testimone di qualcosa che non doveva vedere. Addirittura, si trova un articolo comparso su «la Repubblica» il 30 ottobre 2001, nel quale si legge che perfino la motivazione di una sentenza della Corte d’assise di Palermo, quarta sezione, che condannò il boss Salvatore Graziano per l’omicidio di Giuseppe e Gabriele Graffagnino, figlio e nipote di Salvatore, convalidò il racconto di Ferrante e pure di Onorato sull’omicidio Domino.

Su quelle dichiarazioni di Ferrante e di Onorato nessuno, in sede giudiziaria o altrove, ha mai sollevato dubbi. I due collaboratori di giustizia non sono mai stati lontanamente sospettati di calunnia o autocalunnia.

In definitiva, si ha il nome della persona che con ogni probabilità ha deciso l’assassinio di un bambino di undici anni. Come detto, quel nome è Salvatore Graffagnino. Non lo si è potuto processare perché, per l’appunto, Cosa Nostra arrivò prima della giustizia. L’omicidio di Claudio Domino aveva violato nel modo più reboante possibile l’ordine dei vertici di Cosa Nostra di evitare la commissione di omicidi a Palermo durante la celebrazione del dibattimento del maxiprocesso. Per questo, la mafia palermitana avviò subito le proprie investigazioni e individuò Graffagnino, liquidandolo a un mese dalla morte di Claudio Domino col metodo silenzioso della lupara bianca.

Altro che buio misterioso sull’assassinio di quel bambino, innocente come tutti i bambini e doppiamente innocente perché la sua colpa fu solo di aver visto qualcosa di indicibile.

Ma, allora, com’è possibile obliterare tutti questi elementi, riconosciuti veritieri perfino da una sentenza, e scagliare tutto quel fango sulla figura di Nino Agostino? Alla fine si torna sempre lì: il 1989 dell’Addaura, del duplice omicidio Agostino-Castelluccio e di tanti altri accadimenti fondamentali è stato il presupposto indefettibile delle stragi del 1992, in una Palermo in cui secondo una autorevole testimonianza in quegli anni nella Polizia di Stato il trenta per cento dei suoi esponenti militava in quota Sisde. E il polverone che per trent’anni aveva reso nebulosa ogni speranza di verità e giustizia sembra non poter mai cessare, come per una coazione a ripetere che strumentalizza ogni evenienza, giungendo a colpire, con una impensabile manovra a tenaglia, la memoria di vittime della violenza della mafia (di quella mafia parastatale che ormai ben conosciamo) anche con i veleni dell’anti-anti-mafia.

Fabio Repici (www.stampalibera.it)

 

 

 

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