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La lettera di Di Matteo ai colleghi

Ecco la lettera che Nino Di Matteo ha inviato ai colleghi prima del voto per l’elezione al Csm.

Gentile collega,
sento il bisogno di scrivere questa lettera per spiegare le ragioni e i sentimenti che mi hanno convinto a presentare la candidatura per le prossime elezioni suppletive per il C.S.M.
Una scelta che, credimi, in tanti anni di carriera non avevo mai neppure semplicemente ipotizzato e che, invece, ora abbraccio con entusiasmo e consapevolezza della sua importanza.
Sono entrato in magistratura nel 1991. Appartenevo a quella schiera di giovani siciliani che aveva coltivato quel sogno sulla scia della speranza e della voglia di riscatto che l’azione del primo “pool antimafia” di Palermo aveva suscitato in molti giovani.
Ho vissuto l’uditorio (nella fase del “tirocinio mirato” alla Procura di Palermo) proprio nel periodo delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Per me, e tanti altri, quei ricordi drammatici, la vita e la morte dei colleghi, rappresentano un “segno indelebile” che non possiamo e non vogliamo cancellare.
Dal settembre del 1992 ad oggi ho sempre svolto funzioni di Pubblico ministero, occupandomi di inchieste e processi di mafia. Prima alla D.D.A. di Caltanissetta, poi per diciotto anni a Palermo, e dal giugno del 2017 alla Procura Nazionale Antimafia. Quasi una vita. Centinaia di processi di mafia “ordinaria”, quelli sulle stragi (Chinnici, Falcone, Borsellino), gli omicidi del Giudice Saetta e di Rosario Livatino, i processi su mafia e politica a Palermo e quelli, ancora più complessi e insidiosi, sui rapporti occulti tra Cosa nostra e le istituzioni e sulla trattativa Stato-Mafia. Ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà e gli ostacoli che ciascuno di noi inevitabilmente incontra quando pretende di esercitare veramente il controllo di legalità anche sull’esercizio de la gestione del “Potere”.
Ho pagato, e continuo a pagare, sul piano personale un prezzo molto alto per le misure di protezione alle quali (dal 1993 ad oggi, con modalità sempre più stringenti e soffocanti) sono sottoposto.
Nonostante tutto questo, resto profondamente innamorato della toga che indosso.
Continuo a pensare che la magistratura ha rappresentato, nella storia del nostro Paese, l’agente più efficace contro, pericolose ed assai complesse, derive criminali e l’avamposto più illuminato del tentativo di dare effettiva applicazione alla nostra Costituzione. Ne dobbiamo essere fieri e consapevoli, per resistere, oggi più che mai, alla mai dichiarata, ma esistente e pervasiva, volontà di molti altri di limitare la nostra autonomia e renderci collaterali e serventi ai grandi poteri politici, economici e finanziari.
Per combattere questa decisiva battaglia non dobbiamo aver paura della verità e dobbiamo riconoscere le nostre colpe.
Personalmente (negli ultimi anni in particolare) ho percepito, in maniera sempre più evidente, pericolosi segnali di cambiamento e di resa. Come se un insidioso cancro si stesse lentamente diffondendo rischiando di divorare l’intero corpo.
I sintomi sono tanti: la crescente burocratizzazione (legata al prevaler della logica dei numeri e delle “carte a posto”), il carrierismo sfrenato, l’impropria spiccata gerarchizzazione degli Uffici in spregio al principio costituzionale che disegna un sistema di “potere diffuso”; la tendenza al collateralismo che si manifesta nel privilegiare troppo spesso scelte dettate dalla “opportunità politica” piuttosto che dalla doverosità giudiziaria; l’evidente, ed ormai irreversibile, degenerazione del “correntismo”; il consolidamento di vere e proprie “cordate” di potere anche al di fuori delle correnti tradizionali. L’appartenenza che diventa strumento per fare carriera o trovare protezione nei momenti di difficoltà.
Lo “scandalo” che è scaturito dalla pubblicazione degli atti dell’inchiesta di Perugia ci mortifica ma non ci può sorprendere. Non dobbiamo essere ipocriti. E’ una fotografia, amara e tuttavia parziale, di un sistema che conoscevamo e che avremmo dovuto denunciare e contrastare da tempo. Non lo abbiamo fatto e per questo abbiamo toccato il fondo nella considerazione dell’opinione pubblica; in molti di noi si annida oggi il tarlo della rassegnazione. Ma questo può e deve essere il momento, l’ultima irripetibile occasione, di un vero cambiamento. Di una reazione che, in tutta la sua urgenza, è imposta dalla necessità di evitare che altri, anche a colpi di riforme ordinamentali, realizzino il loro scopo di trasformarci per sempre in obbedienti burocrati, forti con i deboli e timorosi e inerti con i forti.
La svolta che si impone deve partire da un corretto e coraggioso quotidiano esercizio delle funzioni di autogoverno. Il C.S.M. deve, una volta e per sempre, abbandonare le logiche dell’appartenenza, della clientela, della mediazione con la politica, della camera di compensazione di favori ed equilibri di potere e finalmente riappropriarsi della sua alta e nobile funzione di baluardo della indipendenza della magistratura nel suo complesso e di ciascun magistrato. A partire dai più giovani, dai tanti “fuori sistema” che quotidianamente sui più disparati fronti giudiziari si espongono, camminando “senza rete” su un filo sospeso, per amministrare giustizia in nome del Popolo.
Se venissi eletto, con sincera umiltà e grande determinazione, cercherei di improntare la mia attività all’ascolto, allo studio, all’approfondimento di ogni questione secondo scienza e coscienza.
Vorrei fare il “Giudice” senza tenere in alcun conto pressioni, condizionamenti, opportunismi personali o di gruppo.
Vorrei, se eletto, spendere tutte le mie forze e mettere a disposizione il mio bagaglio di esperienza, per aiutare ciascuno di noi a recuperare l’entusiasmo, gli ideali e i sogni di quanto, entrando in magistratura, eravamo già consapevoli dell’immenso privilegio di servire, con la toga indosso, il nostro Paese e la nostra democrazia.
Un saluto affettuoso

Antonino Di Matteo

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