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Chi fa vincere la mafia

Chi fa vincere la mafia

 
di Gian Carlo Caselli

Più di un secolo fa, nel suo saggio Che cosa è la mafia Gaetano Mosca scriveva: «È strano notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia (…) raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla mafia vogliono indicare». Un vecchio vizio, tutto italiano, che per fortuna contempla vistose e importanti eccezioni. Tra queste – indubbiamente – le ricerche e gli studi di Nicola Tranfaglia, ormai patrimonio consolidato per tutti coloro che di mafia vogliano sapere qualcosa di più serio rispetto alle… fiction televisive di moda.
 
L’ ultima fatica di Nicola Tranfaglia (preziosa come le precedenti) si intitola Perché la mafia ha vinto. In realtà si tratta di una storia della mafia che ci aiuta a capire meglio che cos’è la mafia oggi, nel terzo millennio, a quindici anni dalle tremende stragi palermitane del 1992. L’autore sa bene che sempre più si deve parlare di «mafie», anziché di «mafia», perché accanto alle mafie «tradizionali» (Cosa Nostra siciliana, ‘Ndrangheta calabrese, Camorra napoletana e Sacra corona unita pugliese) il nostro Paese, aduso ad «esportare» anche il crimine organizzato, si trova nell’inedita situazione di dover ospitare nuove mafie d’importazione (russa, albanese, cinese, nigeriana ecc.), che in questi ultimi anni si sono insediate nel territorio e che talora interagiscono con le più antiche organizzazioni mafiose nazionali. Mentre il processo di globalizzazione finanziaria ha inevitabilmente influito sulle più recenti forme di manifestazione dell’economia criminale, imponendo una più spiccata interazione fra le varie organizzazioni mafiose del mondo, i cui interessi e capitali illeciti si incontrano nel mercato globale del grande riciclaggio internazionale, con evidenti intrecci fra la macrocriminalità del riciclaggio e parte consistente di quel potere finanziario – più o meno «grigio» – che ormai opera, spesso senza adeguati controlli, nell’intero ambito planetario.
Oggi, pertanto, la base di partenza di qualunque ragionamento sulle mafie è che esse, pur nella radicale continuità con se stesse, pur mantenendo (in molti casi) un evidente radicamento localistico, sono ormai in grado di condurre attività illecite in una dimensione globale e reticolare. Così da costituire una vera e propria impresa multinazionale, che produce ricchezza attraverso mille traffici e affari illeciti, cui si affiancano imprese legali di copertura o riciclaggio.
Ma non volendo – né potendo – scrivere un’enciclopedia sterminata, Tranfaglia ha giustamente scelto di limitarsi a seguire un «filo centrale», incentrandolo su «Cosa Nostra» ed in particolare sui suoi rapporti con le classi dirigenti del Paese. Constatando innanzitutto come questa organizzazione criminale sia oggi capace – forse più che nel passato – di mimetizzarsi e scomparire. La mafia siciliana, infatti, dopo avere attuato ed esibito con le stragi del 1992 una violenta e spietata strategia d’attacco frontale allo Stato, ha dovuto subire un’efficace reazione (latitanti arrestati come mai in precedenza, per numero e caratura criminale, tra cui gli autori materiali di quelle stragi; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi requisiti). E ha subìto anche la stagione dei processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con pesantissime condanne. Ed ecco che la mafia, duramente colpita, sceglie di attuare una sorta di «strategia della tregua» finalizzata, fra l’altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Niente più stragi, niente più omicidi eclatanti; regna lo spirito di mediazione anziché la logica dello scontro aperto. Bernardo Provenzano, regista di questa nuova stagione, adotta la tecnica del «cono d’ombra», con l’obiettivo, appunto, di rendere invisibile l’organizzazione, di inabissarla. Si fa ricorso alle armi soltanto come extrema ratio e si riduce, di conseguenza, il numero dei regolamenti di conti interni. Quando si elimina qualcuno, il suo cadavere viene fatto sparire (le cosiddette «lupare bianche»), così da rendere più difficile la percezione dell’entità della violenza omicida messa in atto. La mafia di Provengano è sempre più una mafia degli affari: l’intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo serve a presentarsi come volano di un’economia che altrimenti – si vuol far credere – resterebbe inerte e improduttiva. In questo modo Cosa Nostra cerca di dissimulare il suo volto più feroce, per recuperare e sviluppare spazi di intervento e per rafforzare i meccanismi di accumulazione di capitale illecito. Con una peculiarità che complica le cose perché, secondo tradizione, essa tende anche a proporsi come soggetto politico-sociale capace di controllare l’economia e di esercitare una funzione di (apparente) sviluppo, anche sostituendo o integrando le competenze pubbliche.
La strategia con la quale la mafia ha affrontato il nuovo millennio è quindi meno sanguinaria, ma più insidiosa, perché favorisce l’affievolirsi dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo «statistico» dei fatti di sangue conosciuti. Ma è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-sociale e di intrecciare nuove relazioni anche sul versante dell’intermediazione fra popolazione meridionale e luoghi decisionali della cosa pubblica. È allora che essa amplia la propria sfera di intervento, mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici (a partire da quelli elettorali) nelle zone sottoposte al suo controllo.
È a partire da questi dati che Tranfaglia arriva alla conclusione che «la mafia ha vinto».

Testo tratto dalla prefazione
di Gian Carlo Caselli al libro
di Nicola Tranfaglia
Perché la mafia ha vinto
(Utet, pagine 170, euro 12,75)

 
Pubblicato in L’Unità, 21 marzo 2008
 
 
 

 

 

 

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