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Repici: ”Borsellino non trattò rapporto mafia-appalti nelle ultime settimane di vita”

29 Febbraio 2024  – “Paolo Borsellino nelle ultime settimane di vita il rapporto mafia-appalti non lo trattò. Punto”. E’ una conclusione perentoria quella dell’avvocato Fabio Repici, sentito ieri in Commissione antimafia (presieduta da Chiara Colosimo) assieme a Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, Paolo Borsellino.

Il legale ha evidenziato il dato dopo aver letto gli atti desecretati dalla stessa Commissione parlamentare. “Quando leggevo gli atti delle acquisizioni fatte presso la casa e presso l’ufficio del dottor Paolo Borsellino davo per scontato, visto che si sostiene secondo me in modo del tutto infondato che Paolo Borsellino avesse particolarmente accesa attenzione su quel rapporto negli ultimi tempi della sua vita, che o a casa o nel suo ufficio una copia del rapporto mafia-appalti si sarebbe trovata. Però non c’era. Poiché sicuramente non c’era neanche nella borsa, quindi non fu sottratto insieme all’agenda rossa che invece fu sottratta, do per assodato che Paolo Borsellino nelle ultime settimane di vita il rapporto mafia-appalti non lo trattò”.
In questa nuova deposizione Fabio Repici era chiamato a rispondere alle domande dei commissari.


La trattativa con Ciancimino e l’omertà del Ros

Nella narrazione degli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno un momento chiave che dimostrerebbe proprio l’interesse di Borsellino per quel rapporto sarebbe l’incontro che il giudice ebbe con entrambi il 25 giugno 1992 alla caserma Carini di Palermo. Ma Repici ha smontato anche quella ricostruzione.
Per prima cosa è necessario ricordare che, in quella data, era già avvenuto il contatto tra il Ros ed il sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Un contatto di cui erano già stati informati ambienti politici, ma non l’autorità giudiziaria (cosa contraria ai doveri di un ufficiale di Polizia giudiziaria, ndr).
Loro “ebbero un silenzio omertoso sull’incontro avuto il 25 giugno, in via riservata, con il giudice Borsellino. Quell’incontro era stato da lui voluto per cercare di capire se fosse stato il capitano De Donno il redattore del documento anonimo passato alla storia come il documento del ‘Corvo bis’, come raccontato dall’allora maresciallo Canale che è l’unico testimone disinteressato della vicenda. Una cosa è certa, Mori e De Donno per anni mantennero il silenzio su quell’incontro“.
I due ufficiali del Ros, ha proseguito Repici, “tacquero davanti all’autorità giudiziaria, ma soprattutto a Paolo Borsellino tacquero della trattativa avviata con Vito Ciancimino, emissario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Perché la questione è molto rilevante? Per due motivi. Il primo è che noi sappiamo per certo che, analogo riserbo, Mori e De Donno non mantennero con esponenti politici, anzi direi con esponenti del governo perché noi sappiamo, perché lo ha testimoniato davanti ai giudici, l’allora direttrice generale degli affari penali, la dottoressa Liliana Ferraro, cioè il magistrato che succedette a Giovanni Falcone in quel ruolo dopo la strage di Capaci e sappiamo dalla dottoressa Ferraro che il 28 giugno informò il dottor Borsellino, incontrandolo all’aeroporto di Fiumicino, che aveva appreso dal capitano de Donno, mandatole dal colonnello Mori, che i due avevano avviato la trattativa con Vito Ciancimino”.

Dell’interlocuzione avuta con Ciancimino furono informati anche l’allora presidente della commissione parlamentare antimafia Luciano Violante e la segretaria generale della presidenza del consiglio di allora, l’avvocata Fernanda Contri.
In varie interviste Mori ha recentemente giustificato il silenzio con la Procura di Palermo perché non si potevano fidare del Procuratore capo Giammanco.
Ma perché non riferire questa circostanza anche a Borsellino? Non si fidavano neanche di lui?
Logica vuole che la risposta sia da ricercare nella possibile reazione del giudice.
Quale sarebbe stata la reazione di un magistrato, ancor di più Paolo Borsellino, davanti a degli ufficiali dei Carabinieri che gli dicono: ‘sai, per risolvere il problema del muro contro muro (sono le parole utilizzate da Mario Mori in una deposizione a Firenze, ndr). Vediamo di trovare un accordo’? Io invito voi a rispondere. Quale sarebbe stata la risposta di Paolo Borsellino a una evocazione di un accordo con Totò Rina e Bernardo Provenzano?”. A queste semplici domande secondo il legale di Salvatore Borsellino vi sarebbe un’unica risposta: “Mori e De Donno tacquero davanti all’autorità giudiziaria, perché era difficilmente giustificabile il loro comportamento” così come “il silenzio tenuto nei confronti di Paolo Borsellino“. Va anche ricordato che “il tema mafia-appalti verrà spinto come ipotetica causale della strage di via D’Amelio solo a partire dall’ottobre del 1997.

Le parole di Salvatore Borsellino

Intervenendo in video collegamento Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ha testimoniato come “dopo la strage di Capaci, Paolo sapeva che sarebbe toccato a lui, ne era assolutamente certo. Tanto che tentava di allontanare affettivamente i figli per farli abituare alla sua assenza. Io lo sentii per telefono il venerdì prima della strage per chiedergli di andare via da Palermo – ha ricordato – e lui si alterò rispondendomi ‘Io non accetterò mai di fuggire, presterò fede fino all’ultimo al giuramento fatto allo Stato’. Mio fratello era molto riservato sul suo lavoro“. Il fratello di Borsellino ha anche parlato dell’agenda rossa, sparita il 19 luglio 1992. “Io ho visto più volte l’agenda anche nell’ultima occasione in cui ci siamo visti, nel Capodanno ’92. La custodiva gelosamente, la nascondeva anche ai suoi familiari: in Puglia una volta uscendo dall’albergo si accorse di non averla con sè, si agitò moltissimo e rientrò precipitosamente per recuperarla. Non l’ho mai visto – ha aggiunto – direttamente farlo, ma so che sull’agenda rossa scriveva sempre, annotava tutto quello che non poteva essere verbalizzato ed atteneva alle sue indagini“.

Borsellino cercava elementi sulla strage di Capaci

Ma quali erano i pensieri fissi di Borsellino negli ultimi giorni della sua vita. E’ noto che in quel periodo raccoglieva le testimonianze dei collaboratori di giustizia Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, ma il chiodo fisso era la ricerca della verità sulla morte di Giovanni Falcone. Sul punto Repici ha ricordato anche un’altra testimonianza, ovvero quella del magistrato Davide Monti. È stato accertato che si incontrò con Borsellino il giorno prima della strage di via d’Amelio. Monti fu sentito come testimone nel processo Borsellino – Bis e riferì di un incontro avvenuto intorno alle 20 a Palermo in cui si sarebbe parlato di tre circostanze rilevanti: “La prima – ha detto Repici – era che effettivamente alla procura di Palermo in quel momento” c’era “una spaccatura della quale riteneva responsabile il procuratore Giammanco” al quale addebitava non solo una “generale malagestione dell’ufficio“, ma anche il “trattamento persecutorio che Giammanco aveva riservato all’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone” negli ultimi due anni della sua permanenza alla procura di Palermo.
Nell’incontro con Monti Borsellino raccontò anche che Giammanco aveva “sostanzialmente costretto” Falcone “a andare via dalla procura di Palermo e che aveva continuato a condurre l’ufficio requirente palermitano in modalità” che lui non apprezzava.
Ma anziché arrivare ad uno “scontro” Borsellino cercò di arrivare comunque a “risultati utili e spiegò che la cosa che gli premeva di più in quel momento era cercare elementi di ricostruzione sulla strage di Capaci“.
Un dato, questo, che esclude in via definitiva la mirabolante ipotesi secondo la quale Borsellino si sarebbe occupato con ‘interesse bruciante’ del dossier mafia e appalti.

Le testimonianze di Agnese Borsellino

Repici ha anche ricordato altri elementi, come la testimonianza di Agnese Borsellino, la vedova del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. Lei ritenne solo nel 2009 doveroso riferire ai magistrati, dei quali si fidava, tutto ciò che le aveva confidato, prima di morire il marito Paolo Borsellino. Perché, ha spiegato Repici, dopo la strage la “sua principale premura era quella di tutelare la sicurezza dei propri figli“.
Cosa raccontò? Che il marito le disse di una “trattativa in corso fra parti infedeli dello Stato e Cosa Nostra”, ma non solo. Ha parlato di Castel Utveggio, così come di Antonio Subranni ‘punciutu’ e dell’aria di morte respirata al Palazzo del Viminale. “Abbiamo appreso tutto da lei – ha detto Repici – I figli di Borsellino, nel processo dissero che la madre era la persona più lucida dei familiari di Paolo Borsellino nel raccontare quelle cose. Poi anche il dottor Diego Cavaliero riferì di aver appreso da Agnese Borsellino della confidenza sul generale Subranni che l’era stata fatta da Paolo Borsellino e aveva precisato quale fu il senso delle parole di Agnese Borsellino” ovvero “che Paolo Borsellino aveva ritenuto aveva certezza della veridicità di quelle parole”.


Elementi esterni a Cosa nostra

Altro tema affrontato nella deposizione, che nella parte finale è stata anche secretata, l’avvocato ha anche parlato dell’esistenza di soggetti che hanno concorso con Cosa Nostra” nell’esecuzione della strage di via d’Amelio.
Come spiegato da Repici, ci sono “risultanze processuali, direi abbastanza corpose” che attestano l’esistenza di un dialogo tra i membri dell’organizzazione mafiosa ed elementi esterni.
Le conclusioni dei giudici sono state corroborate dalle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia come Antonino Giuffrè, braccio destro principale di Bernardo Provenzano e componente della Commissione di Cosa Nostra in quanto capo mandamento di Caccamo.
Giuffrè – ha riportato Repici – riferì che Cosa Nostra e Totò Riina in particolare, e anche Bernardo Provenzano, prima di procedere all’attività stragista del 1992, operò quelli che egli definì dei ‘sondaggi’, cioè delle interlocuzioni, nei confronti di ambienti che egli definì in varie tipologie: ambienti imprenditoriali, ambienti politici e ambienti massonici; con i quali Cosa Nostra si confrontò sulla utilità e sulle conseguenze che dalla realizzazione delle stragi ci sarebbero derivate“.

Nell’esprimersi in questo modo – ha aggiunto il legale – Giuffrè spiegò che quella fase, diciamo, quella strategia di Cosa Nostra, adesione a progetti stragisti, rientrava in una necessità di ricomporre equilibri con gli ambienti del potere che con il crollo della Prima Repubblica erano sostanzialmente da riformulare“.
Oltre a Giuffré anche Salvatore Cancemi, reggente del mandamento di Porta Nuova, “fece riferimento a contatti con esponenti esterni a Cosa nostra. Arrivò anche a fare dei nomi, come è noto, alla indicazione di un sostanzialmente progetto politico” che comprendeva l’individuazione di “altri interlocutori con i quali poter convivere felicemente“.
E poi ancora, Giovanni Brusca, che apprese dallo stesso Salvatore Riina dell’esistenza di “interlocutori esterni” ai quali aveva “rivolto le richieste per patteggiare un nuovo contratto di convivenza fra Cosa Nostra e le sfere del potere: il cosiddetto papello“.
Di incisiva importanza è stata anche la testimonianza di Gaspare Spatuzza, killer di fiducia dei Graviano, il quale riferì della “presenza di un soggetto esterno” nel garage dove venne imbottita di tritolo la Fiat 126 usata per la strage di via d’Amelio.
Spatuzza che, come ha raccontato Repici, “fece in forma solo dubitativa” un riconoscimento disposto dall’autorità giudiziaria indicando un soggetto che era l’allora vice capo del SISDE di Palermo. Una vicenda chiusa, che resta comunque agli atti. Elementi che allargano l’orizzonte su cui la Commissione antimafia dovrebbe effettuare degli approfondimenti. Perché la ricerca della verità non passa dalla frammentazione dei fatti, ma da una visione completa a 360°. E questa è una sfida tutta da giocare.

Aaron Pettinari e Luca Grossi (AntimafiaDuemila)

 

 

 

 

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