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Nell’ultima lettera di Paolo Borsellino, le infiltrazioni della mafia nello Stato

La busta della lettera indirizzata dai liceali di Padova a Paolo Borsellino
La busta della lettera indirizzata dai liceali di Padova a Paolo Borsellino

Una mattina del luglio 1992 il giudice Borsellino si era alzato molto presto, per scrivere a un Liceo di Padova e “fottere il mondo con due ore di anticipo”

di Gruppo fraterno sostegno ad Agnese Borsellino e Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso

A poche ore dalla morte, il magistrato palermitano aveva cercato di rispondere ad una lettera che gli avevano inviato mesi prima degli studenti di un liceo veneto. Qui pubblichiamo in esclusiva, grazie all’aiuto fornito dal figlio Manfredi Borsellino, il testo integrale di quella corrispondenza che include questo passaggio: “Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”.
Paolo Borsellino a New York nel giugno del 1989
Paolo Borsellino a New York nel giugno del 1989

La ricerca storica del Gruppo fraterno sostegno ad Agnese Borsellino e Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso questa volta si è indirizzata ad un evento del gennaio 1992 che il 19 luglio dello stesso anno consegnò alla storia italiana: “L’ultima lettera di Paolo Borsellino”.

La mattina del 19 luglio 1992 il giudice Borsellino si trovava nella sua casa di Palermo. Si era alzato molto presto, come faceva ormai  da tempo, per  fottere il mondo con due ore di anticipo…”.

Si recò nello studio, aprì un cassetto della scrivania e prese una busta. Conteneva una lettera che gli era pervenuta al palazzo di giustizia il 24 febbraio precedente. Era stata inviata da una studentessa del liceo Alvise Cornaro di Padova. Con la missiva, in un certo senso, si  manifestava,  simpaticamente, un certo disappunto a  Paolo Borsellino perché non aveva partecipato ad un evento tenutosi presso lo stesso Liceo il 24 gennaio di quell’anno.

In quei mesi tante volte si era riproposto di scrivere ma gli eventi e i fatti accaduti avevano avuto il sopravvento; i suoi pensieri erano stati altri… (come spiegherà lo stesso nella risposta).

Ma era arrivato il momento di rispondere. Tra l’altro si trattava di ragazzi che gli ponevano delle domande in merito al suo lavoro; volevano conoscere il fenomeno mafioso e le innovazioni normative che erano state introdotte da poco.

E lui non se la sentiva di deluderli. Per Paolo Borsellino i giovani potevano costituire la vera forma di rivoluzione nel contrasto alla criminalità organizzata.

Lesse  ancora una volta la lettera.

                                                                                           Padova 3 febbraio 1992

“Gentile” dottor Borsellino,

le scrivo per manifestarle il disappunto degli studenti del Liceo Cornaro, e il mio personale, per la Sua mancata partecipazione all’assemblea da noi organizzata e che si è tenuta Venerdì 24 gennaio. Il disappunto è nato non tanto perché Lei non abbia voluto partecipare al nostro dibattito (benché noi si ritenga che Lei sarebbe stato un interlocutore di eccellente livello), ma perché Lei non ha ritenuto opportuno di dover perdere 5 ( dicasi 5) minuti del Suo tempo per avvertirci in qualche modo della Sua assenza. Lei invece ha preferito trincerarsi dietro una centralino telefonico che per una settimana incessantemente ripetuto << Il dottore Borsellino non c’è richiami più tardi>>  e svanire in  nebbie più fitte di quelle che avvolgono la Val Padana. Forse avremmo dovuto capire che questa Sua irreperibilità sottointendeva un rifiuto ma noi l’abbiamo interpretata come un segno del Suo essere impegnato in attività certamente più importanti della nostra ed  abbiamo sperato fino all’ultimo momento, di averla fra noi.

Malgrado la Sua assenza, l’assemblea ha avuto un buon successo per la partecipazione e l’interesse degli studenti, interesse che non sì è però esaurito con questo incontro ma che vuol trovare modi e forme per continuare un dialogo, rivelatosi interessantissimo, con gli interlocutori che abbiamo già avuto( il dottor Ayala, i ragazzi del “Pungolo”, il direttore de “Il Mattino di Padova” dottor De Luca) e con altri che speriamo di trovare. Quindi, non rassegnati al Suo silenzio, speriamo si “penta” e cominci a “parlare”.

Le alleghiamo perciò un questionario, sperando di ricevere una risposta che  ricambi la simpatia da noi dimostratale nel non rassegnarci a lasciar cadere il dialogo con Lei.

La prego di voler inviare le risposte a:

Liceo Scientifico Statale ” A. Cornaro”

Via Canestrini 78/3

35127 PADOVA

Tel 049

Tel 049

Distinti Saluti              

                            Per il comitato promotore

                                            XXXXXXXXX

1) Come è perché è diventato giudice?

2) Cosa sono La Dia e la DNA

3) Che differenza c’è tra mafia, camorra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita?

4) Quali sono stati i rapporti tra mafia italiana e mafia americana?

5) Quali sono i suoi compiti alla Procura di Palermo?

6) Cosa replica a chi l’accusa di “professionismo dell’antimafia”?

7) Come ha influito nei rapporti con la Sua famiglia il Suo essere un giudice del pool antimafia?

8) Cosa ha provato quando nell’ 85 ha dovuto lasciare Palermo? E cosa quando ho dovuto pagare il conto per il suo soggiorno a l’Asinara?

9) Che tipo di collaborazione vorreste da noi giovani? Questo è tutto. Mi scuso per il disturbo che le arrechiamo e mi auguro di non farle perdere troppo tempo.

 

E il giudice, “pentito”, si accinse a rispondere, ma non facendo caso al tipo di grafia, né al tipo di foglio usato, diede per scontato che ad inviargliela fosse stata una Professoressa del Liceo Cornaro.

“Gentilissima”  Professoressa,

uso le virgolette perchè le ha usate lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo Liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.

      Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non fosse altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.

      Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/******, utenza alla quale rispondo direttamente.

      Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.

      Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.

      Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.

      Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati.

      Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.

Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

      1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.

      Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni ereditarie etc.

      Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.

Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.

      Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

      2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.

      La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.

      Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

      3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato.

      Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.

      E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).

      La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.

      Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.

      Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

4).

Paolo Borsellino a Palermo il 20 giugno del 1992 ad un mese dalla morte di Giovanni Falcone

Non riuscì a terminarla, si fermò al punto 4,  probabilmente si era ripromesso di proseguirla nel pomeriggio tardi di quella domenica al rientro dalla visita cardiaca che avrebbe dovuto far fare alla madre.

Poi, purtroppo, le cose andarono diversamente…

Il contenuto della risposta che stava approntando il giudice fu reso pubblico per la prima volta il 24 novembre 1992. Quel giorno all’Università La Sapienza di Roma, nella facoltà di Giurisprudenza, venne intitolata l’aula 1 ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  E, un emozionatissimo e commosso, Manfredi Borsellino ne lesse il contenuto.

Noi abbiamo voluto ricostruire anche il fatto, e capire come, e perché, si arrivò a quella  lettera di risposta del Giudice.

La storia

Nel gennaio 1992 il Liceo Alvise Cornaro di Padova aveva contattato il dottor Pietro Vento, direttore del “Pungolo” di Trapani.  Il Pungolo era un periodico di giovani siciliani fondato dallo stesso direttore negli anni Ottanta;  e si era distinto, con centinaia di collaboratori, quale punto di riferimento nell’analisi delle contraddizioni sociali del territorio e nella denuncia del potere mafioso e di ogni forma di corruzione in Sicilia e nel Mezzogiorno. L’elenco delle personalità del mondo della cultura e delle istituzioni che  collaborarono con “Il Pungolo”era lunghissimo; fra i tanti: i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, i Presidenti Sandro Pertini e Sergio Mattarella, gli scrittori Alberto Moravia e Leonardo Sciascia. Pietro Vento chiamò Paolo Borsellino preannunciandogli che sarebbe stato contattato da un Liceo di Padova, cosa che poi, per vari disguidi, non avvenne. L’evento, che si tenne comunque,  fu organizzato come assemblea straordinaria  studentesca presso il Supercinema della città veneta. Vi parteciparono, come relatori: il responsabile del Pungolo, Pietro Vento, i giornalisti Francesca Severi, Beppe Spada e Rino Cavasino, il Giudice Ayala e il direttore de “Il Mattino di Padova”, Maurizio De Luca.

L’articolo apparso su Il Mattino di Padova
L’articolo apparso su Il Mattino di Padova

Quel venerdì di gennaio, quei liceali di Padova posero -inconsapevolmente- le basi per “ l’ultimo scritto” del Giudice Paolo Borsellino. Una lettera che al suo interno conteneva la testimonianza umana e professionale  di una vita.

Frasi importanti che facevano trapelare l’umanità, l’umiltà e  gli alti valori morali di tutta la sua esistenza. Righe memorabili che ancora oggi ci fanno riflettere.

Era un periodo terribile. A 57 giorni dalla strage di Capaci, uno dei suoi  pensieri costanti era la famiglia.  Un legame sempre  più forte e doloroso. La volontà di stare il più possibile con i figli era divenuta più preminente  del solito benché -come aveva raccontato lui stesso ad un amico sacerdote- cercasse di allontanarli da se quasi a predisporre un distacco. Sembrava vi fosse un’inconscia  consapevolezza che potesse succedere l’irreparabile:

Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare..[..]”

E poi frasi sulla sua vita professionale:

La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso”.

Paolo Borsellino non si era piegato alla logica dei “santi in paradiso”, come ebbe a chiamarli.  Non aveva accettato  compromessi. Ma aveva cercato di percorrere la sua strada, anche se in salita, con lo studio. Divenne Giudice. E fino al 1980 si occupò prevalentemente di cause civili, fin quando il 4 maggio del 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile…

Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.

Molto umilmente, affermava di  aver avuto, fino al 1980, “una colpevole indifferenza” verso la criminalità organizzata. Ma poi non si era tirato indietro, non aveva girato la testa dall’altra parte come alcuni suoi colleghi dell’epoca che per paura, iper garantismo o altro, nello stesso maggio del 1980 si erano rifiutati di firmare dei mandati di cattura sul gruppo Spatola-Inzerillo-Gambino che erano stati predisposti  dal Procuratore Gaetano Costa, lasciandolo  di fatto solo a firmare quegli atti,  isolandolo e decretandone, indirettamente,  la vendetta di cosa nostra. Paolo Borsellino aveva deciso di restare in Sicilia e di lottare per la sua terra ed era fermamente convinto che i giovani sarebbero stati la parte   più importante  della società perché avrebbero avuto piena consapevolezza della pericolosità della mafia e l’avrebbero combattuta. E anche per questo si stavano approntando strumenti che poi negli anni sarebbero stati , effettivamente,  l’arma in più contro la criminalità organizzata. Un’arma legislativa che era stata ideata e, fortemente, voluta dal collega Giovanni Falcone;  e con la quale si attuava una vera rivoluzione procedurale:

“ La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
 La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali..[…]”

E tra le frasi scritte quella mattina una resta terribilmente attuale dopo 25 anni. Specie dopo la sentenza del quarto processo sulla strage di via D’Amelio ci porta immediatamente a riflettere:

Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”.

A distanza di più di 25 anni, noi aspettiamo che venga definitivamente trovata  la verità su quell’ eccidio e che sia fatta giustizia. Lo si deve alle vittime, ai loro parenti, a tutti i cittadini italiani perché quella non fu una strage che colpì  un  Magistrato e la sua scorta -Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Walter Cosina e Vincenzo Li Muli, con Antonino Vullo unico sopravvissuto all’eccidio- ma fu una strage contro  tutti gli italiani onesti che restarono orfani di un così grande Uomo.

Borsellino con il figlio Manfredi
Borsellino con il figlio Manfredi

Ringraziamenti.

Agli studenti del Liceo Alvise Cornaro di Padova, che organizzarono l’incontro, di cui non conosciamo i nomi ma vogliamo ringraziare per quel loro lavoro.

Al Dr. Pietro Vento, che appena contattato ci ha raccontato dell’evento del gennaio 1992 e ci ha dato le indicazioni per ricercare l’articolo.

A Luca Favaro, della Segreteria di Direzione de “Il mattino di Padova” che ci ha inviato l’articolo del 25 gennaio 1992.

Al Dr. Massimo Vezzaro, dirigente del Liceo Alvise Cornaro di Padova che ci ha dato un notevole contributo nella ricostruzione.

Ma soprattutto vorremmo ringraziare il Dottor Manfredi Borsellino che ci ha inviato la bozza della lettera incompiuta del padre e quella che era stata inviata dal Liceo, permettendoci di pubblicarle e quindi di poter ricostruire la storia anche leggendo la grafia  originale di suo padre.

Abbiamo omesso alcuni riferimenti che si trovavano sulle stesse lettere per questioni di riservatezza e di privacy.

Qui trovate i pdf con le due lettere:

La lettera dei liceali al giudice Paolo Borsellino: lettera-liceo.docx per La Voce

La lettera con la risposta di Borsellino: lettera-borsellino per La Voce.compressed

tratto da: LaVoceDiNewYork.com

 

Approfondimenti (redazione 19luglio1992.com):

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