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Scarpinato: ‘Di Matteo magistrato serio e coraggioso’

di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari – “L’operato del magistrato Nino Di Matteo? Non credo che abbia bisogno di alcun accreditamento da parte mia. E’ uno dei magistrati più seri e più coraggiosi che ho potuto conoscere nella mia storia professionale. Non ha gestito i colloqui investigativi con Scarantino e non ha gestito la prima fase delle indagini. Ha operato una valutazione dei verbali di confronto tra Scarantino, Cancemi, Mario Santo Di Matteo e La Barbera. Quegli stessi confronti sono stati valutati anche nei giudizi successivi dalla Corte di Cassazione. Valutazioni che sono state differenti per varie corti. Oggi abbiamo la chiave di lettura per capire certe cose rispetto ad allora. Ma siamo nel campo dell’opinabile”. Con queste parole il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato è intervenuto ieri pomeriggio presso la Libreria Feltrinelli, durante un incontro-dibattito organizzato dal presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, e che ha visto anche la partecipazione della figlia del giudice Borsellino, Fiammetta, e del giornalista Salvo Toscano in qualità di moderatore. Un incontro di due ore in cui sono stati sviscerati diversi aspetti del depistaggio sulla strage di via d’Amelio, partendo dalla relazione presentata dalla Commissione regionale antimafia dello scorso dicembre, in cui emerge anche il ruolo anomalo che i Servizi segreti hanno avuto nelle primissime indagini sull’attentato. Nel suo intervento il Procuratore generale di Palermo ha evidenziato proprio come vi sia “una continuità storica” per cui certi apparati entrano in campo in certe vicende conducendo tecniche di depistaggio pressoché identiche e che passa dalla sottrazione di documenti essenziali alla fabbricazione di falsi testimoni e di falsi collaboratori.
Ma Scarpinato rispondendo alle domande del pubblico ha ricordato le difficoltà dei primi anni di indagine per cui, nonostante i confronti tra il falso pentito della Guadagna e i boss mafiosi, al tempo non era possibile avere la completa certezza che solo la versione di Scarantino fosse quella falsa.
“Scarantino affermava che Cancemi aveva i baffi – ha rammentato il Procuratore generale – e Cancemi diceva di no. Poi ci sono stati due collaboratori di giustizia ulteriori che confermavano che Cancemi si faceva crescere i baffi. Sempre nel confronto Cancemi (ex capomandamento di Porta Nuova, oggi deceduto, ndr) diceva di non aver partecipato alla strage di via d’Amelio mentre successivamente confessò di aver fatto dei pedinamenti a Borsellino. C’era poi Mario Santo Di Matteo il quale veniva invitato dalla moglie a non parlare della strage di via d’Amelio e lo stesso Scarantino chiamava in causa per la fase esecutiva della strage le stesse persone che saranno poi indicate da Gaspare Spatuzza.
Oggi abbiamo tutte le chiavi però se noi ci mettiamo in quel periodo storico non possiamo dubitare, alla luce della prova che hanno dato di sé magistrati come Di Matteo, che c’è stata una buona fede”. Un discorso che in quel momento è stato interrotto seccamente dalla Borsellino nonostante l’elencazione di fatti che venivano messi in fila con dovizia di particolari.
In precedenza però Scarpinato era già stato protagonista di un lungo intervento che ha toccato vari punti. Guardando agli anni delle stragi il Procuratore generale di Palermo ha parlato di “perdita dell’innocenza culturale” rispetto a certi fatti. “Quando il 15 gennaio 1993 venne arrestato Riina e noi stavamo eseguendo la perquisizione del covo con il collega Patronaggio che fu fermato in mezzo alle scale dai carabinieri del Ros di Mori, si decise di non fare la perquisizione fu detto dai carabinieri ‘noi garantiamo che in quella casa non passa uno spillo. Riina è stato arrestato ad un chilometro dall’abitazione e nessuno è al corrente che noi abbiamo individuato il luogo dove viveva. Quando Bagarella ed altri entrano noi li arrestiamo’. C’era l’assicurazione di un servizio di sorveglianza assoluto. E noi ci abbiamo creduto. Poi abbiamo saputo che un attimo dopo fu smontato tutto ed entrarono le persone in quella casa svuotandola. In quel momento io ho perduto la mia innocenza culturale e noi non potevamo immaginare che fosse possibile qualcosa di questo genere. Così come non potevano mai immaginare i colleghi di Caltanissetta che Arnaldo La Barbera fosse un uomo dei servizi segreti. Noi oggi lo sappiamo. Ed ho l’esperienza per arrivare a certe conclusioni a cui non sarei mai arrivato nel 1992. Per me questo è un trauma. Ed immagino che anche per Paolo sia stato un trauma capire certe cose che nessuno di noi, che abbiamo studiato anche legge, al tempo aveva capito. Vedere la faccia dello Stato, vedere l’altra faccia occulta del potere, vedere la criminalità del potere rendendoti improvvisamente conto che Riina e Provenzano sono nulla rispetto a questo. E per noi è sgomento”.

Depistaggi di Stato e mandanti esterni
“C’è un filo conduttore, una continuità storica nel depistare le stragi della storia d’Italia – ha detto Scarpinato entrando ancora di più nello specifico nel suo intervento -. La strage di piazza Fontana, la strage di Bologna, la strage di Brescia. Via d’Amelio. Coinvolgono tutti gli uomini dello Stato, dei Servizi. I metodi sono sempre uguali. Non parliamo del singolo funzionario corrotto, per depistaggi del genere occorrono interi apparati. E dietro c’è una verità che deve restare segreta, una verità che dice che non è solo una strage di mafia, questo emerge da varie risultanze processuali. È vero che Paolo Borsellino doveva morire per il Maxi, ma qualcuno di esterno alla mafia ha chiesto a Riina di anticipare i tempi e l’esecuzione della strage, compromettendo gli interessi dell’organizzazione stessa. L’8 giugno ‘92 era stato inserito il 41bis, il 9 agosto scadevano i termini, i fatidici 60 giorni perché non entrasse mai in vigore quel decreto legge”.
Il Procuratore generale ha richiamato alla mente le dichiarazioni di Cancemi, componente della Cupola, il quale aveva raccontato della riunione organizzata da Riina in cui il Capo dei capi manifestò “l’improvvisa urgenza di uccidere Borsellino”. “La conferma di quel che dice Cancemi arriva dallo stesso Riina – ha aggiunto il magistrato – Intercettato in carcere con Lorusso, parlando di via d’Amelio, fa riferimento a un certo ‘chiddu arrivò ad accelerare la strage’ dicendogli che va fatta ‘subito subito’ e che quando lui risponde con un ‘ci penso io’, ‘chiddu’ aggiunge che va fatta ‘dopodomani’. E chi è questo ‘chiddu’ che chiede a Riina di anticipare l’esecuzione della strage? Il sospetto è che questo qualcuno si impone con Riina, fornisce il supporto logistico per la strage ed interviene per depistare”.
Ancora ha sottolineato i contenuti dell’intercettazione tra il pentito Mario Santo Di Matteo e la moglie, Franca Castellese, nel dicembre 1993 (“Qualche mese prima il marito aveva anticipato che avrebbe fatto delle rivelazioni sulla strage di via d’Amelio, poi fu rapito il figlio, Giuseppe, da falsi agenti Dia. La moglie in quel dialogo del 14 dicembre, tra continui singhiozzi, prega il marito di non parlare degli infiltrati della polizia nella strage di via d’Amelio. E Di Matteo non parlerà mai di questo fatto”).

I confronti e le strane coincidenze Spatuzza-Scarantino

Scarpinato ha anche smontato le polemiche sul caso dei verbali di confronto tra Scarantino, Cancemi, La Barbera e Di Matteo: “Quei verbali sono stati depositati in tutti i processi. Nel ‘Borsellino uno’ sono stati depositati in appello, quindi prima che il processo avesse la sua conclusione in Cassazione. Ciò significa che i giudici hanno avuto la possibilità di valutare quei verbali. Nonostante quei verbali di confronto si è arrivati alla condanna di Profeta; Orofino è stato assolto nel concorso in strage ma non per il favoreggiamento; Pietro Scotto non è stato condannato nonostante la figlia di Rita Borsellino ed il marito avessero riconosciuto in lui l’operaio che qualche giorno prima era andato ad armeggiare sui fili del telefono in via d’Amelio. Ancora era accaduto che nel Borsellino bis i giudici di primo grado hanno ritenuto Scarantino inattendibile mentre la Corte d’appello, nonostante quei verbali di confronto, ha ribaltato il giudizio. Quindi ci sono 80 magistrati che hanno fatto valutazioni differenti sugli stessi verbali di confronto”.
L’analisi del magistrato palermitano è poi continuata evidenziando quelle dichiarazioni pressoché identiche riferite da falsi pentiti e collaboratori di giustizia. Il segno chiaro di come il “pupo” era stato ben vestito dai depistatori rendendo ancora più difficile e complesso l’accertamento della verità. “E’ accaduta una cosa diabolica. Scarantino e Spatuzza indicano le stesse persone come partecipi della fase cruciale della strage. Scarantino dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c’erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza. Quest’ultimo dice anche che presente era un uomo che non apparteneva a Cosa nostra. Secondo le regole della mafia quando un uomo d’onore commette un reato con un altro uomo d’onore devono essere presentati a vicenda, in caso contrario si tratta di un soggetto esterno. Ebbene abbiamo Andriotta che riferisce che Scarantino in carcere gli aveva detto che era presente anche un uomo che non era di Cosa nostra, uno specialista di esplosivi italiano. Quindi abbiamo magistrati che si trovano a dover valutar una persona che dirà cose costruite a tavolino con informazioni sulla fase esecutiva che coincidono con le stesse che dirà Spatuzza”.
Altre difficoltà si aggiungono quando vengono compiuti dei sopralluoghi con un altro dei falsi pentiti, Candura, che viene accusato di aver rubato la macchina. “Lui – ha ricordato il Pg – indica il luogo dove si trovava la macchina e quel luogo corrisponde a quanto fu detto dalla signora Valenti a cui l’auto fu rubata. Molti anni dopo Spatuzza dice di aver trovato la macchina in un altro posto. E la Valenti cambierà la sua versione. Inoltre Spatuzza, in un colloquo investigativo del 26 maggio 1998, dirà che la macchina è stata rubata da persone della Guadagna e che poi è stata ‘riarrubata'”.

L’agenda rossa e ciò che Borsellino sapeva

Secondo Scarpinato è evidente che Paolo Borsellino era a conoscenza di elementi riguardanti la strage di Capaci: “Borsellino voleva essere sentito dai magistrati di Caltanissetta e in quel periodo aveva raccolto dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Mutolo, che avrebbe dovuto continuare a sentire. Nell’agenda rossa aveva appuntato quelle cose che lo avevano sconvolto, quelle rivelazioni sulla complicità di uomini appartenenti allo Stato, di collusioni, di omicidi con i mafiosi. Un metodo che anche Falcone aveva di appuntare nei diari quello che veniva detto da certi collaboratori che in un primo momento non volevano verbalizzare. Sappiamo anche che in quel periodo Borsellino si sentiva osservato dai Servizi segreti. Ecco perché non basta la strage. Una strage di cui i servizi vengono informati appena un minuto dopo mentre la Polizia, cinque minuti dopo non sa ancora nulla. C’è la testimonianza del sovrintendente Grofalo che arriva sul posto e vede un uomo che cerca la borsa di Borsellino disinteressandosi dei feriti. Quell’uomo si qualifica come uno dei Servizi segreti. E vide anche altri cinque uomini in giacca e cravatta. Ecco che si realizza il depistaggio. La seconda parte del depistaggio si verifica dopo quando c’è la necessità di dare una risposta alla rivolta popolare della gente che inaspettatamente reagisce contro il Capo della Polizia Parisi ed il Presidente della Repubblica ai funerali degli agenti di scorta”. “Il Procuratore della Repubblica Tinebra – ha proseguito Scarpinato – fa qualcosa che era vietato dalla legge, su segnalazione del Capo della Polizia Parisi, investendo il numero tre del Sisde nelle indagini. E questo avviene nel tempo in cui, segretamente, stavamo indagando a Palermo su Bruno Contrada. Qualche anno dopo Tinebra, da dirigente del Dap, darà vita al Protocollo farfalla, un protocollo che stabilisce come gli agenti di polizia penitenziaria, anziché comunicare le notizie di reato alla magistratura, dovranno comunicare direttamente con i Servizi di sicurezza”. Questo susseguirsi di azioni irregolari, secondo Scarpinato, troveranno una sponda in un grave deficit istituzionale. “Di fronte al dato evidente per cui una Procura come quella di Palermo e quella di Caltanissetta avevano opinioni diverse su Scarantino, era necessario l’intervento della Procura nazionale antimafia di allora che però non intervenì. E se non si trova un accordo di fronte alla discordanza di opinioni la Procura nazionale ha anche il potere di avocare. Questo deficit istituzionale ha impedito di prendere una decisione”. Quindi Scarpinato ha concluso dicendo che oggi “ci sono delle persone che sanno cosa è successo. Come i fratelli Graviano. Perché non parlano? Evidentemente hanno qualcosa da temere. Ci sono stati episodi inquietanti come l’omicidio Buzzi, estremista di destra che aveva deciso di iniziare a collaborare per la strage di Brescia e che è stato strangolato in carcere. O la morte di Luigi Ilardo, che a lungo ha operato come infiltrato facendo arrestare diversi capimafia, incontrando addirittura Provenzano e aveva anticipato che avrebbe svelato ai magistrati i retroscena politici della strage di Capaci e via d’Amelio e verrà ucciso pochi giorni prima di iniziare a collaborare con la giustizia. E ricordo anche lo strano suicidio di Antonino Gioè, un soggetto che partecipò alle stragi e che era depositario di tanti segreti. Si disse che stava per iniziare a collaborare, prima di morire scrisse una lettera in cui faceva riferimento anche ai servizi segreti. Questo significa che c’è una realtà che non è ancora emersa e che non sappiamo se emergerà in quanto ci sono documenti distrutti e chi sa continua a non parlare. Resta la continuità storica. Se le stragi degli anni Settanta e Ottanta sono avvenute all’interno di un’Italia che si trovava all’interno della contrapposizione Usa-Russia portando annesse motivazioni politiche cosa è accaduto nel 1992? Forse poiché gli scheletri del passato, con il coinvolgimento di apparati istituzionali in omicidi e stragi potevano venire fuori, è accaduto che la storia del passato ha schiacciato la storia del presente”.
Nel corso del suo intervento Fiammetta Borsellino è tornata a chiedere risposte alle domande esposte in questi mesi: “Il 19 luglio mi era stato assicurato dal Ministro della Giustizia Bonafede che si sarebbe fatto promotore dell’apertura degli archivi del Sisde”.
Del depistaggio ha anche parlato il Presidente della Commissione regionale antimafia Claudio Fava: “C’è una responsabilità politica, anche se penalmente non rilevante. Perché la ricostruzione della storia e dei fatti non può essere relegata alla magistratura. Tutti questi pezzi del mosaico ci mostrano tutta la complessità dei fatti. L’indagine mette insieme gli elementi che ci permettono di ricostruire la vicenda. Dalle indagini affidate contro la legge al Sisde di Contrada fino alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. Fava ha fatto un particolare riferimento alle indagini affidate dal Procuratore Tinebra a Bruno Contrada, ovvero ai servizi segreti: “Il Sisde non poteva svolgere quelle indagini, e nessuno si è posto il problema. Tra l’altro in quello stesso momento Contrada era indagato a Palermo. Chi sapeva del coinvolgimento del Sisde? Lo sapevano tutti dal Presidente del Consiglio dei ministri in giù. Perché è possibile che Bruno Contrada a titolo amicale e personale abbia ricevuto un mandato da altri per gestire in maniera clandestina un’indagine di questo tipo ma qui siamo di fronte al contrario. All’una di notte del 20 luglio, poco dopo lo scoppio dell’autobomba in via d’Amelio, viene recapitato un fax alla direzione centrale del Sisde in cui c’è una richiesta formale di massima collaborazione del Sisde all’indagine. Una formalizzazione che coinvolge i vertici dello stesso Servizio di sicurezza, il vicedirettore operativo del SISDE, Prefetto Fausto Gianni, con altri funzionari, il caporeparto operativo, il capo della divisione criminalità organizzata, il dottore De Biase, il dottore Sirleo, tre o quattro funzionari, il dottore De Sena, che era il capo dell’UCI, dell’Unità Centrale Informativa. Tutti vennero a Palermo per discutere con Tinebra dell’attività d’indagine. E’ un fatto che questo avviene e che così viene violata la legge”. Fava ha poi aggiunto: “C’è chi ha depistato per tenere bassa la palla per far credere che ad ammazzare Borsellino fossero solo le cosche mafiose per fargli pagare il maxi processo. Chi ha organizzato il depistaggio si è mosso prima del Fax dell’una di notte. E’ entrato nell’ufficio di Paolo Borsellino, nella sua casa di campagna e si occupa anche di far sparire l’agenda rossa dal luogo della strage”. Perché su un punto si può essere assolutamente tutti d’accordo: a trafugare dalla borsa l’agenda di Paolo Borsellino non furono uomini di mafia. Ed è da questo dato, investigando sui mandanti esterni, che la ricerca della verità sulla strage deve ripartire.

Fonte: AMDuemila

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