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Stato-mafia, in scena la difesa dei carabinieri

L’avv. Basilio Milio, a sinistra; Mario Mori e Giuseppe De Donno, a destra

di Aaron Pettinari

Dal “processo farsa” ai “teoremi”

Il processo? “Non è fondato su alcuna prova”. L’operato dei carabinieri? “Questo processo non mira ad accertare reati, perché i carabinieri non hanno commesso alcun reato. Questo processo ha il solo scopo di mascariare Mario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno“.
L’avvocato Basilio Milio, legale assieme ad Enzo Musco dei due carabinieri Mario Mori ed Antonio Subranni, imputati al processo trattativa Stato-mafia, ha iniziato così la sua arringa difensiva di fronte alla Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto.
Più volte sono stati letti stralci della sentenza di assoluzione di primo grado del processo Mori-Obinu, dove gli ufficiali erano accusati di favoreggiamento a Cosa nostra per il mancato arresto del boss Bernardo Provenzano a Mezzojuso, nel 1995. Sentenza in cui le prime 800 pagine (su un totale di 1300) vengono dedicate a quello che fu trattato come un possibile movente. L’iniziativa di Mori e De Donno, di contattare Vito Ciancimino, viene definita addirittura lodevole in risposta alle conclusioni dell’accusa ma anche di quelle della parte civile dei Familiari delle Vittime dei Georgofili, rappresentata da Danilo Ammannato, che aveva definito Mori “moralmente responsabile della strage di Firenze”.
Ovviamente tra le “lodi”, omesse nella ricostruzione della difesa dei militari, le considerazioni presenti tanto nella sentenza Mori-Obinu quanto in quella Mori-De Caprio, che rappresentano le “zone d’ombra” sull’operato di questi. Nelle motivazioni di secondo grado dei giudici della Quinta sezione della corte d’Appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale (a latere Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco), è scritto che “le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall’incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell’operato dei due e lasciano diverse zone d’ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare”. Ovviamente l’obiettivo di Milio è quello di smontare l’impianto accusatorio per cui i pm sono arrivati a chiedere la condanna per l’ex capo del Ros Antonio Subranni (12 anni), il suo vice del tempo Mario Mori (15 anni) e l’allora capitano Giuseppe De Donno (12 anni).

“Che sia solo un tentativo di infangare i carabinieri – ha aggiunto l’avvocato Milio – lo dimostra la richiesta di pena fatta dai pm, alludo ai 15 anni chiesti per Mori, solo di un anno inferiore a quella proposta per il boss Leoluca Bagarella. E più alta anche di quella richiesta per Calogero Mannino, ritenuto secondo la tesi accusatoria, il motore della trattativa”. Mannino, giudicato separatamente è stato assolto in primo grado con il rito abbreviato.
“Vi dimostrerò – ha proseguito il legale – che si tratta di una vera persecuzione, un tentativo di ricostruire non la verità ma la storia secondo una versione politico-ideologica”. Secondo il difensore, addirittura, “il papello è un documento falso, un documento anonimo partorito dalla fantasia di Massimo Ciancimino”.
Poco importa se i periti hanno dimostrato che nel documento, scritto a mano contenente, secondo l’accusa, le richieste avanzate da Cosa nostra allo Stato per avviare la trattativa tra pezzi delle istituzioni e la mafia, non vi è traccia di manomissione.
Il legale cerca di sminuire le dichiarazioni di Michele Riccio, spiegando che la Corte presieduta da Fontana al processo Mori aveva disposto la trasmissione degli atti alla Procura per valutare l’eventuale sussistenza del reato di falsa testimonianza (posizione archiviata) omettendo che lo stesso era stato fatto in secondo grado per quanto riguarda i testi Mauro Olivieri, Francesco RandazzoPinuccio CalviGiuseppe ManganoRoberto Longu e Sergio De Caprio (meglio noto come “Ultimo”). Tutti coinvolti nell’incredibile vicenda di Terme Vigliatore, sul mancato blitz per l’arresto di Nitto Santapaola. Una vicenda che rientra, secondo l’accusa, in un modus operandi contro le regole da parte del Ros.

Giustificata trattativa
Nelle parole di Milio ritorna la giustificazione di Mori e De Donno per quel contatto con Vito Ciancimino, già detta al processo di Firenze, partendo dal presupposto che riguardava appartenenti alla “polizia giudiziaria” ed una “fonte” con lo scopo di “farlo collaborare”. Peccato che, come scritto nella sentenza di Firenze, “l’iniziativa del Ros (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, un vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una «trattativa»; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione (trattativa Ciancimino, nda)”. Ed infatti quel dialogo, che a detta del Ros era volto ad evitare altre stragi e ad arrestare latitanti, effettivamente portò all’arresto di Riina (anche se è automatico chiedersi a che prezzo visto che la mancata perquisizione del Covo resta una delle pagine più buie della storia) ma non impedì gli attentati.
Milio, che nel corso dell’udienza ha ricordato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sull’unitarietà di pensiero tra Riina e Provenzano ha dimenticato quelle di un collaboratore di giustizia di rilievo come Nino Giuffré il quale disse che al momento della cattura di Riina ‘Provenzano commentò che sono dei sacrifici che vanno fatti agli dei’”, ha sostenuto che nell’operato dei suoi assistiti non vi è “la minaccia” oggetto dell’imputazione di attentato a corpo politico dello Stato.
Ma il pm Roberto Tartaglia durante la requisitoria parlando del ruolo di mediazione ha spiegato come “anche nel reato contestato con l’art.338 c’è una minaccia e una intimidazione. Quella minaccia è volta a una richiesta che non sarà il contributo per i carcerati, ma c’è una richiesta finalizzata. Abbiamo soggetti istituzionali che intervengono per interrompere quella intimidazione per far cessare l’azione repressiva. La Cassazione pone tre condizioni per dimostrare quando il mediatore risponde di dolo e quando no. La prima: il mediatore se non vuole essere punito deve aver agito su richiesta della persona offesa e non agendo autonomamente o su input di terze persone. La seconda: il mediatore per non essere punito deve aver agito nell’interesse esclusivo della persona offesa. La terza è l’effetto delle prime due: la cassazione dice che il mediatore agisce nell’interesse della persona offesa ma con modalità di tale protezione per chi ha commesso quelle condotte che hanno messo in guardia gli autori dei reati, proteggendo gli autori del reato e creando un cono d’ombra. Questo si chiama concorso in reato di estorsione”. “Nessuna di queste condizioni è rispettata da Mori, De Donno, Subranni e Dell’Utri” aveva poi concluso.

Ancora una volta la “dissociazione”
Nel corso della sua arringa Milio ha evidenziato come alcuni punti del papello siano poi stati raggiunti negli anni successivi ma non dai Governi “eventualmente” minacciati che vedono alcuni soggetti imputati al processo.
“La chiusura delle supercarceri e la legge sui collaboratori di giustizia furono portate a compimento dal governo Prodi” ha detto provocatoriamente il legale alludendo che contro i membri di quel governo non è stato contestato alcun reato. E per l’ennesima volta la difesa di Mori ha voluto citare le dichiarazioni dell’attuale Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, per tentare di dimostrare l’apertura dello stesso Scarpinato nei confronti della “dissociazione” (altro punto del papello). Ma i fatti raccontano ben altro. Perché Scarpinato intervenne all’assemblea nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati del 20 giugno ‘92, in piena stagione stragista con ben altre determinazioni. In quella occasione l’ex pm del processo Andreotti era stato incaricato di redigere un documento contenente proposte di riforma a livello giudiziario. Per quanto riguardava la legislazione sui collaboratori di giustizia Scarpinato aveva proposto una legge “che sul modello di quelle emanate per i terroristi pentiti o dissociati preveda una causa di non punibilità per tutti i reati, esclusi quelli di sangue, commessi o la cui permanenza sia iniziata entro una data comunque anteriore all’entrata in vigore della legge per gli appartenenti a Cosa Nostra o comunque all’associazione di tipo mafioso, i quali entro 3 anni dissociandosi dagli altri affiliati intraprendano la collaborazione con la giustizia operandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione e la cattura degli elementi alla medesima associazione”. Altro che stravolgimenti dei fatti per “mascariare” gli imputati da parte dei pm. Il processo è stato rinviato a domani dove proseguirà l’arringa del legale.

Da: www.antimafiaduemila.com

1 marzo 2018

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