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Il processo nascosto

Tutte le anomalie di cui sono stato testimone mi hanno fatto capire che Provenzano non volevano catturarlo perché aveva un compito ben preciso». A parlare è un ufficiale dei Carabinieri in pensione, il colonnello Michele Riccio. Il particolare è stato rivelato ieri nel corso di un processo che dal luglio scorso si svolge a Palermo: un processo importante di cui poco o nulla è stato finora detto. Un «processo nascosto». Proviamo a capire perché.

Sul banco degli imputati siedono due pezzi da novanta delle forze dell’ordine: il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Il primo, ex-capo del Ros dei carabinieri e del Sisde, oggi dirige l’ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell’Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell’ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo.
La notizia era stata data al colonnello Riccio – che è il principale testimone dell’accusa – da Luigi Ilardo, un uomo d’onore della famiglia nissena dei Madonia che all’inizio del 1994 aveva deciso di collaborare con la giustizia ed era diventato un infiltrato «sotto copertura». Agiva, cioè, per conto dello Stato. Il colonnello aveva subito riferito l’informazione a Mori il quale – è questa una delle più gravi accuse specifiche contro l’ex capo del Ros – «non mi permise di usare un segnalatore da mettere addosso a Ilardo in modo tale da scoprire dove si teneva il summit e arrestare Provenzano».
Questi i fatti di cui si discute nel «processo nascosto». Fatti gravissimi che costituiscono un capitolo della storia mai chiarita del cosiddetto «papello», la trattativa tra Stato e Cosa Nostra. È infatti a quella trattativa che Riccio allude quando parla del «compito ben preciso» di Provenzano. Ma i temi più scabrosi sono altri ancora. Ed è là che probabilmente va cercata la causa dell’occultamento mediatico di questo processo: i rapporti tra Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio.
Ilardo ne parlò poco dopo l’avvio della sua collaborazione – cominciata nel gennaio del 1994 sotto il nome di copertura “Oriente” – ma, sostiene Riccio, questa categoria di confidenze fu subito messa da parte. Accantonata. E fu Mario Mori, all’epoca colonnello, a chiederlo. Di certo, il 10 maggio del 1996, alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione, Luigi Ilardo fu assassinato. Un colpo micidiale per la lotta contro Cosa Nostra. L’infiltrato aveva già dato ampia prova di essere affidabile. I suoi racconti avevano tra l’altro permesso la decapitazione dei vertici mafiosi delle province di Catania, Caltanissetta e Agrigento. Inoltre aveva fotografato in diretta l’organigramma di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, permettendo l’individuazione dei favoreggiatori della latitanza di Provenzano. Aveva persino iniziato a scambiare con lui alcune lettere, i famosi pizzini. È stato infatti Ilardo il primo a parlare dell’efficiente mezzo di comunicazione del padrino.Per il colonnello Riccio la morte del “suo” infiltrato fu la conferma definitiva che Cosa Nostra aveva la possibilità di conoscere le mosse degli investigatori. Doveva esserci stata una fuga di notizie dall’interno. Solo una decina di persone sapevano di Ilardo. Queste considerazioni si sommarono al disappunto per il mancato arresto di Provenzano. Riccio decise di informare la magistratura.

Scrisse un rapporto che venne inviato alle procure di Palermo, Catania, Caltanissetta e Messina. Le indagini non furono sviluppate. Non accadde nulla. Anzi qualcosa di importante successe. Ma allo stesso colonnello Riccio.
Il 7 giugno 1997 fu arrestato assieme ai suoi più stretti collaboratori per una brutta storia di droga. La procura di Genova lo accusò di aver gestito illegalmente alcune infiltrazioni nei cartelli del narcotraffico. Una strana storia: per alcune di quelle operazioni Riccio era stato insignito della medaglia al valore della DEA americana e aveva ricevuto ben tre encomi.
Tornato in libertà, Riccio riprese, ancora con maggior convinzione e rabbia di prima, a segnalare le confidenze ricevute da Ilardo. Nel 1998 i giudici di Firenze lo sentirono a proposito delle stragi del ’93 e della trattativa intercorsa nel 1992 tra Vito Ciancimino e Mario Mori. Poco dopo, la Procura di Catania mise nero su bianco i suoi dubbi sul generale Mori e sull’operato dei Ros. Quindi Riccio fu chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri. In quell’occasione, per la prima volta parlò in pubblico di tentativi volti a tenere fuori i politici dalle inchieste: «L’avvocato Taormina mi chiese di affermare che Ilardo non aveva mai fatto il nome di Dell’Utri come persona vicina alla mafia». Respinse l’invito ma, sostiene, ricevette altre pesanti pressioni.
Il 31 ottobre del 2001 ripetè i suoi racconti alla procura di Palermo. Il generale Mori reagì con una denuncia per calunnia. I giudici, però, credettero alla versione del colonnello e il 14 aprile ottennero il rinvio a giudizio per Mori e Obinu. Siamo a oggi. Al processo nascosto.

L’Unità, 10 gennaio 2009

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