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Il ministro Alfano e la scorta del giudice Di Matteo

L’inganno è peggiore del tradimento
di Giorgio Bongiovanni – 23 dicembre 2013

Rispetto allo scorso 27 maggio, quando abbiamo scritto un primo articolo in merito alle carenti misure di protezione riservate al giudice Antonino Di Matteo facendo riferimento alle lettere anonime ricevute dallo stesso pm e dalla Dda di Palermo in cui si avvisava di possibili attentati nei suoi riguardi, diverse cose sono cambiate. E’ stato infatti alzato il livello di protezione del pm di punta del processo sulla trattativa Stato-mafia portandolo da 2 a 1, ovvero il massimo sistema di protezione esistente. Ciò è stato possibile grazie all’intervento della Procura generale, diretta da Roberto Scarpinato, che si è subito attivata per la sicurezza dello stesso Di Matteo affinché venisse potenziata la scorta anche nel numero degli uomini presenti. Rispetto a quelle “minacce letterarie” il clima è decisamente diventato più rovente da quando, dal carcere Opera di Milano, il capo della mafia, Salvatore Riina, ha iniziato ad esternare il proprio odio contro il sostituto procuratore di Palermo, esprimendo una vera “condanna a morte”. Riina infatti, tra tantissime cose terribili ed inquietanti, minaccia alcuni magistrati di Palermo e di Caltanissetta e nomina ripetutamente il nome di Nino Di Matteo, quasi in maniera ossessiva. “Di Matteo deve morire – dice il “capo dei capi” – E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire”, “A questo ci devo far fare la stessa fine degli altri”, “Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare. Corleone non dimentica”, ecc…ecc…

Alla luce di queste esternazioni le istituzioni non hanno potuto far altro che intervenire. Il ministro degli Interni, Angelino Alfano, in una delle pochissime cose buone fatte negli ultimi anni, si è recato a Palermo riunendo il Comitato tecnico per la sicurezza e dopo un confronto con il Prefetto ed altre autorità ha deciso di potenziare i servizi di sicurezza per i magistrati della trattativa Stato-mafia (oltre al sostituto procuratore Antonino Di Matteo, anche al procuratore aggiunto Vittorio Teresi, ed i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia). Non solo. Rispondendo ad esplicita domanda del nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, ha detto pubblicamente che il bomb jammer, il dispositivo antibomba che annulla le frequenze dei radiocomandi, “è stato reso disponibile” per la macchina del magistrato antimafia.
Una presa di posizione importante, che restituisce l’immagine di uno Stato che tenta, seppur a parole, di schierarsi a difesa dei propri servitori più fedeli.
E lo stesso si può dire sul redivivo Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha atteso una settimana prima di destarsi dal sonno ed intervenire, pur senza mai nominare Di Matteo ed i magistrati del pool che stanno portando avanti l’inchiesta sulla trattativa, esprimendo la propria solidarietà.“Le insidie vengono da molte parti: vengono nel modo più brutale dalla criminalità mafiosa, dalle sue minacce ai magistrati e alla convivenza civile – ha detto – Ai servitori della legge impegnati con coraggio su quel fronte, va la nostra piena, limpida, concreta solidarietà”. Mentre il “Sinedrio dei magistrati”, il Csm (Consiglio superiore della magistratura), si è recato a Palermo per esprimere la propria solidarietà ai magistrati e con ridicola disinvoltura si è “dimenticato” di invitare alla riunione del Plenum Di Matteo e gli altri magistrati minacciati (condannati a morte) da Riina. E’ andata quindi in scena la solita ipocrisia del Csm, pur restando speranzosi che lo stesso archivi l’assurda inchiesta disciplinare ai danni del sostituto procuratore Di Matteo, come chiesto dal pg della Corte di Cassazione Ciani, ed anzi aprisse un fascicolo che tuteli il magistrato.
Del resto di ipocrisie e menzogne nelle ultime settimane ne abbiamo viste parecchie. Basti pensare a quanto affermato dal ministro Alfano che, aggrappandosi al messaggio del Capo dello Stato, ha nuovamente rilanciato: “Ai quattro magistrati attualmente sotto tutela assicuriamo che nessun dettaglio sarà trascurato e che il livello di protezione sarà mantenuto altissimo. Lo Stato garantirà tutti i mezzi di cui dispone, la tecnologia di cui dispone l’intero Paese per mettere al sicuro la loro vita. I boss devono sapere che, se proveranno a far uscire informazioni o ordini dal carcere, lo Stato non avrà nessuna timidezza, e per impedirlo ed è pronto a rendere più dura la normativa sul 41 bis”.
Parole, soltanto parole, al momento, alcune dette anche dimostrando ignoranza. Sì, perché forse il ministro Alfano ignora che Salvatore Riina non ha affatto violato il regime carcerario del 41 bis. Forse non sa che quel suo “compagno di camminata”, Alberto Lorusso, dialogava con lui in maniera legittima in quanto è lo Stato stesso a riconoscere la socializzazione durante l’ora d’aria. Inoltre, almeno nei primi dialoghi, è lecito pensare che non vi fosse alcun intento di Riina di far uscire notizie di condanna a morte sui magistrati in quanto è lecito supporre che nulla sapesse delle intercettazioni, predisposte dalla Procura di Palermo, che lo riguardavano. E’ altrettanto lecito supporre che Riina sapesse di essere intercettato secondo una macchinazione infernale e nefasta, messa in atto dai servizi segreti che hanno partecipato alla trattativa Stato-mafia, così come era avvenuto per le stragi di Capaci e via d’Amelio. Un piano che si applica attraverso “l’infiltrato” Lorusso, che avrebbe spinto e provocato a “Totò u’ curtu” fino a condannare a morte direttamente Di Matteo. Così, se da una parte è reale il timore di Riina per il processo sulla trattativa in quanto questo procedimento può far emergere nei suoi riguardi una verità devastante, ovvero quella di essere considerato agli occhi del mondo di Cosa nostra come uno “sbirro” che ha trattato con uomini dello Stato, dall’altra c’è la paura di quest’ultimi.
Si tratta di uomini potenti, vecchi e nuovi, che hanno trattato, e continuano ancora oggi a trattare, con la mafia che temono di veder uscire il proprio nome al processo in corso o nell’inchiesta segretissima che lo stesso Di Matteo e gli altri membri del pool stanno portando avanti proprio sulla “trattativa Stato-mafia”. E anche questi potrebbero avere interesse ad un’eliminazione del pm antimafia.
E’ possibile che il pm Di Matteo e gli altri durante l’indagine individuino personaggi insospettabili che possono aver partecipato alle stragi, che possano aver trattato con Riina e che questi soggetti, attraverso parte della magistratura,  parte delle forze dell’ordine, della politica, della massoneria e della grande finanza, abbiano la volontà di fermare il magistrato? Certo che lo è.
Un’altra possibilità può anche essere che, a sua insaputa, il Riina sia stato stimolato a parlare con un personaggio come Lorusso, magari vicino ad ambienti dei servizi, in modo da far attribuire alla mafia un eventuale attentato contro Antonino Di Matteo. Un quadro che, comunque la si voglia mettere, permetterebbe ancora una volta a certi personaggi dal volto coperto di scamparla.
Viste queste premesse e l’escalation di minacce ed intimidazioni, (poi divenute “condanna a morte”) nei confronti di Di Matteo ecco che andiamo a dimostrare l’assoluta inefficacia delle misure di sicurezza fin qui previste per salvare la vita del magistrato. 
Le auto in dotazione al magistrato palermitano sono quattro. La prima auto blindata è la cosiddetta “staffetta” ovvero il mezzo di bonifica su cui viaggiano due militari. Quindi c’è una “Gip” superblindata ma con centinaia di migliaia di chilometri percorsi. Un mezzo che pare abbia anche difficoltà di movimento.
A questa si aggiunge la macchina concessa dalla Procura, la cui blindatura è inadeguata e tutt’altro che impenetrabile. Basta che gli attentatori si muniscano con mitragliatrici potentissime come l’M16,  l’AK-47 o la mitraglietta israeliana Uzi, e sparino ripetutamente nello stesso punto della macchina blindata, stracciandola come “carta velina” ed uccidendo chi vi si trova all’interno. Infine vi è una quarta macchina, fino a qualche tempo fa anch’essa piuttosto datata negli anni e solo di recente sostituita con un mezzo più nuovo ma comunque non sufficiente nella blindatura per la sicurezza del magistrato.
Ebbene, dove dovrebbe salire Antonino Di Matteo? Sulla “Gip” blindata dove il motore rischia di ingolfarsi in ogni momento o nell’auto “colabrodo”?
Ciò significa che il ministro Alfano quando dice che “Lo Stato garantirà tutti i mezzi di cui dispone, la tecnologia di cui dispone l’intero Paese per mettere al sicuro la loro vita”, non dice la verità, così come mente quando dice che il dispositivo bomb jammer è stato reso disponibile, senza dire pubblicamente che vi erano in realtà test da ultimare. Una menzogna anche questa in quanto, come è noto negli ambienti istituzionali, il bomb jammer è già in dotazione alle auto di scorta al Presidente della Repubblica ed al Premier. Perché non si provvede ancora ad assegnarne uno al pm antimafia?
Non abbiamo nulla da dire sul numero di uomini che è stato assegnato al pm Di Matteo (9 carabinieri di cui 3 appartenenti al Gis, il gruppo investigativo speciale di Roma) ma se questi poi non vengono supportati con i mezzi giusti ecco che tutto diventa inutile. Inoltre, visto che lo Stato non sembra avere la liquidità per comprare mezzi nuovi alla Procura di Palermo cosa ne dice il ministro Alfano di scambiare la sua auto blindata con quella di Di Matteo, dato che ultimamente sembra tanto preoccuparsi per la sua incolumità?

Soluzione del problema
Per la sicurezza di Di Matteo occorrerebbero tre auto corazzate, dello stesso modello e dello stesso colore di carrozzeria in modo da non permettere a nessuno di sapere su quale mezzo stia viaggiando il giudice. Solo così si ridurrebbe fino al 33% la possibilità alla mafia, o a chiunque volesse compiere un attentato, di ucciderlo. Ovviamente su quei mezzi servirebbe anche il sistema bomb jammer e la dotazione dei vetri oscurati. E inoltre un elicottero che vigila dall’alto, avendo un’ampia visione di ciò che si muove intorno al corteo della auto blindate.
Cosa aspetta il ministro Alfano per intervenire in questo senso? Occorrono i consigli di un modesto giornalista e di una modesta redazione giornalistica? Non riesce il ministero degli Interni, dotato di ben sei forze armate (polizia, carabinieri, guardia di finanza, esercito, marina, aeronautica) a propria disposizione, a capire quelle che sono le necessità primarie per garantire la difesa del giudice in questo momento più in pericolo in Italia?
Per quale motivo al giudice Di Matteo non sono stati assegnati mezzi nuovi? Cosa ne pensano a riguardo tutti i pm colleghi di Antonino Di Matteo?
Personalmente siamo convinti che la condanna a morte di Riina nei confronti di Di Matteo e degli altri magistrati sia già in atto ma che questo non riguardi solo Cosa nostra. Siamo infatti convinti che soggetti potentissimi, istituzionali, para istituzionali ed extra istituzionali, vogliono la morte del magistrato e che Riina diverrà il parafulmine, come egli stesso ha ammesso in passato, delle stragi d’Italia.
Non solo. Nel mirino ci sono, oltre ai giudici del pool trattativa Stato-mafia, anche il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il procuratore di Trapani Marcello Viola ed i magistrati di Caltanissetta, come Lari e Gozzo, che indagano sui mandanti esterni delle stragi del ’92 e su coloro che hanno trattato e che ancora oggi trattano con la mafia, pur di mantenere il potere, anche a costo di compiere un ennesima strage.
Perché la trattativa Stato-mafia non si è consumata solo tra il 1992-1993 ma è anche attuale, dei giorni nostri. Ha ragione l’ex pm Antonio Ingroia, intervenuto venerdì alla manifestazione a difesa dei magistrati, nel dire che “in un momento del genere un attentato mafioso avrebbe l’effetto di stabilizzare il governo delle larghe intese, soprattutto quando c’è un vicepremier che dice di essere dalla parte della magistratura”.
E di fronte a questa condanna a morte cosa faremo noi cittadini per evitarla? Ognuno si passi una mano sulla coscienza.

Fonte: www.antimafiaduemila.com

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