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Allo svincolo di Capaci lo Stato si è perso

Proprio in questi giorni, ventotto anni fa, mentre Paolo Borsellino andava a morire, pezzi delle istituzioni trattavano con la mafia.

di  Serena Verrecchia

Memoria ampollosa e retorica del ricordo, questi sono gli strumenti con cui ci hanno sempre raccontato la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Frammenti di evanescenza commemorativa da accarezzare giusto il tempo che impiega un trand topic a essere schiacciato e surclassato da quello successivo.

Funziona così la memoria di questo Paese: un esercizio ridondante e artificioso, parole gonfie come panni stesi al sole e lasciati ad asciugare.

E invece quelle stragi rappresentano la matrice da cui ha preso vita la seconda Repubblica, una pagina sporca di sangue che accompagna il trapasso storico dal vecchio sistema politico al nuovo (o al meno vecchio, a seconda dei punti di vista).

La strage di Capaci, costata la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, si inserisce appieno nella strategia stragista messa a punto da Totò Riina già a partire dal dicembre del 1991. L’obiettivo di Riina, come testimoniato dai collaboratori di giustizia e confermato dalle stesse intercettazioni in carcere del capo dei capi, era quello di eliminare da un lato quei politici che non avevano saputo “aggiustare” le sentenze del maxi-processo, dall’altro quegli uomini simbolo della lotta alla mafia che, con il loro lavoro, avevano messo in piedi il più grande processo della storia a Cosa nostra. Dopo l’uccisione di Salvo Lima, dunque, l’obiettivo numero uno era Falcone.

Autostrada divelta, auto in fiamme e lenzuoli bianchi sui corpi straziati sono le prime immagini che arrivano da Capaci.

Ma un’altra immagine che colpisce – e che è rimasta bene impressa nella memoria di chi quei giorni li ha vissuti da protagonista – è quella del giudice Paolo Borsellino, che cammina tutto solo nell’atrio in cui hanno sistemato la bara di Falcone, di sua moglie e degli agenti morti insieme a lui. Perché il 23 maggio 1992 è il giorno in cui è morto Falcone. Ma è anche il giorno in cui ha iniziato a morire Paolo Borsellino.

I 57 giorni che vanno da Capaci a via D’Amelio sono una ferita che ancora sanguina. Ci vorrebbe un’immensa garza a tamponare, un po’ di spazio bianco ad attutire i due botti.

Tre strade si snodano dallo svincolo di Capaci. Strade che lungo il percorso si intersecano costantemente tra di loro.

Una è quella percorsa dallo Stato, su cui rimbalza l’urto del tritolo che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone. Il 25 maggio, giorno in cui si celebrano i funerali delle vittime della strage, il Parlamento elegge come nono Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il botto di Capaci ha fatto saltare l’elezione di Giulio Andreotti.

L’8 giugno, il governo firma il decreto Scotti-Martelli sul 41 bis, poi dimenticato dal Parlamento e ratificato solo dopo la strage di via D’Amelio. Alla fine del mese, si insedia il governo Amato, con il ministro Scotti sostituito agli Interni da quel Nicola Mancino che non ricordava di aver stretto la mano a Paolo Borsellino nel giorno del suo insediamento al Viminale.

Una seconda strada è quella attraversata, in parallelo, dal ROS dei Carabinieri ed è quella che mette in moto la famosa trattativa Stato-mafia. Il primo incontro tra Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino avviene già alla fine di maggio del 1992. Il ROS, pressato dalle insistenti richieste dell’onorevole Mannino – che teme di fare la stessa fine di Salvo Lima – e preoccupato dalla deriva stragista appena intrapresa da Cosa nostra con la strage di Capaci, tenta di agganciare Vito Ciancimino per avviare una trattativa con i vertici mafiosi. L’ex sindaco di Palermo incontra De Donno e il generale Mori già nella seconda settimana di giugno e, secondo quanto raccontato da Massimo Ciancimino, a fine mese arriva il famoso “papello” con le richieste di Riina.

C’è poi una terza strada, che attraversa Capaci e conduce dritta fino a via D’Amelio. È la strada di un condannato a morte che cerca di raccogliere i cocci e mettere insieme i pezzi. Paolo Borsellino vive i suoi ultimi 57 giorni di vita con la morte alle calcagna. La sua è una lotta contro il tempo. I ritmi di lavoro diventano forsennati, il giudice sa di avere i giorni contati. A Roma sta interrogando il pentito Gaspare Mutolo, a Palermo è costretto a scontrarsi in più di un’occasione con il procuratore capo Giammanco.

Si interessa al rapporto Mafia-appalti, viene proposto come capo della Superprocura nazionale antimafia. Il 25 giugno, in occasione di una manifestazione organizzata da MicroMega, rivela di essere venuto a conoscenza di particolari importanti sulla morte di Falcone che dovrà riferire all’autorità giudiziaria di Caltanissetta, allora competente per le indagini sulla strage. Lo stesso giorno, qualche ora prima, Paolo Borsellino ha incontrato Mori e De Donno.

Cosa avesse scoperto il giudice sulla strage di Capaci non lo sapremo mai.

Da Caltanissetta la chiamata non è mai arrivata.

E il 19 luglio 1992, un’autobomba mette fine anche alla sua corsa. Con lui, quel giorno muoiono anche gli agenti Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.

In questo spazio di tempo, dal 23 maggio al 19 luglio, non solo si consuma la vita di Paolo Borsellino, ma si scrive una delle pagine più inquietanti della nostra storia repubblicana.

Una pagina da cui scaturiscono tutta una serie di vicende ugualmente sconvolgenti – i depistaggi su via D’Amelio, le stragi del 1993, l’arresto di Riina, la mancata perquisizione del covo, la latitanza di Bernardo Provenzano, l’avvicendamento ai vertici del DAP, la mancata proroga dei provvedimenti sul 41bis, il fallito attentato all’Olimpico, il decreto Biondi del 1994 e così via.

Proprio in questi giorni, ventotto anni fa, mentre Paolo Borsellino andava a morire, pezzi delle istituzioni trattavano con la mafia.

Allo svincolo di Capaci, con il sangue dei morti ancora fresco sull’asfalto, lo Stato si è irrimediabilmente perso. 

Avrebbe dovuto tirare dritto e seguire l’unica strada possibile: quella che Paolo Borsellino ha percorso nella più agghiacciante solitudine.

E invece ha preferito seguire gli snodi secondari, le strade più buie, costringendoci a pagare ancora oggi le conseguenze di quella (davvero) scellerata trattativa.

 

Tratto da: www.wordnews.it

 

 

 

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