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Al via il corso di formazione per docenti piemontesi sulle mafie

a cura di Franco Plataroti – docente Liceo Artistico Statale “Renato Cottini”

Giovedì 13 febbraio, al liceo Renato Cottini di Torino, è andata in onda la prima puntata del corso di formazione per docenti piemontesi sul fenomeno delle mafie e sui loro rapporti con lo Stato e la società civile. Relazionano Maria Bergadano e Lorenzo Amadio, volontari, attivisti del gruppo torinese ‘Paolo Borsellino’ del Movimento delle Agende Rosse, creato dal fratello di Paolo, come ama definirsi, Salvatore Borsellino. È Maria Bergadano a introdurre i docenti nell’argomento del giorno. Parlata pacata e misurata, la relatrice affronta la questione del Maxi processo, inquadrandola nella cornice politico-economica italiana e internazionale del tempo e puntellandola con il riferimento ad alcuni episodi che attraversarono, in Italia, gli anni Ottanta, dalla strage di Ustica a quella di Bologna (di recente tornata alla ribalta con le sue ombre inquietanti che si allungano sulla P2 e l’eversione nera e, ancora, sui servizi segreti deviati dello Stato), dall’attentato a Giovanni Paolo II alla scomparsa di Emanuela Orlandi. È già nella rievocazione delle stragi nostrane che affiora, per rimanervi come sottofondo unificante delle due relazioni, il tema dell’infedeltà di alcune componenti dello Stato nei confronti dello Stato stesso.

L’attenzione dei docenti viene, quindi, condotta nelle “cose loro”, quelle della mafia si intende, ossia dentro la mattanza legata alla cosiddetta ‘seconda guerra di mafia’, quella che prende forma nei primi anni Ottanta, legata allo spostamento degli interessi criminali in direzione del traffico di stupefacenti e giocata sul conflitto tra i Corleonesi e le famiglie rivali dei Bontate, degli Inzerillo, dei Buscetta ecc. E mentre le dinamiche interne a Cosa Nostra determinano lo spostamento degli equilibri a favore dei Riina, dei Provenzano contro i rivali, il giudice Rocco Chinnici, ricorda Maria, dà vita a un metodo di lavoro che rappresenta il nucleo originario del futuro Pool antimafia: l’idea di fondo era quella di centralizzare le indagini, di condividere le informazioni tra magistrati, affidando l’attività giudiziaria a un gruppo di magistrati volti al contrasto dell’organizzazione mafiosa, in grado, di costruire una memoria di tale azione di contrasto.

Ed è da questa combinazione di giudici ‘illuminati’, come li definisce la relatrice pensando, in particolare, a quel Giovanni Falcone che imbocca la strada degli accertamenti finanziari, e di forze dell’ordine guidate da personalità di grande finezza investigativa e senso dello Stato (Zucchetto, Montana, Cassarà, per fare dei nomi) che prende forma un’azione di contrasto alla mafia di grande incisività. Azione che si incontra, nei famosi cento giorni, con l’attività del generale Dalla Chiesa e che proprio nella graduale, inesorabile eliminazione dei protagonisti di quella stagione vede la conferma della bontà dello sforzo contro le cosche mafiose. Pio La Torre, prima (aprile 1982), poi Dalla Chiesa, settembre 1982, con il non irrilevante problema della sparizione delle sue carte dalla borsa di pelle che teneva sempre con sé, così come vuota risultò la cassaforte di Villa Pajno, residenza privata del prefetto, popolata da ombre la notte del suo omicidio. Del resto, in questo paese, è noto che gli oggetti si volatilizzino, che la memoria – quella che Chinnici pose a fondamento del proprio metodo giudiziario e investigativo – sia flebile. Non perse la propria memoria il pc di Falcone? E non si eclissarono le carte contenute nell’armadio dell’abitazione privata dell’agente di polizia Nino D’Agostino (ucciso, con la moglie, nel 1989)? E non s’involò anche l’agenda rossa di Paolo Borsellino?

Si indaga e si muore, dunque. E sulle ceneri di Rocco Chinnici, ucciso con un’autobomba nel luglio 1983, nasce, organizzato da Antonino Caponnetto, il Pool Antimafia, nel quale entrano, accanto a Falcone e Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. E’ proprio da questo gruppo di lavoro che scaturisce, a seguito della cattura e delle successive dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il ‘Maxi-processo’, non senza che due prestigiose figure della Squadra mobile palermitana quali Montana e Cassarà vengano eliminate due mesi prima di quel 29 settembre 1984 nel quale scatta il blitz di San Michele, retata notturna che conduce in carcere 366 persone. Altre 56 vengono arrestate poche settimane dopo a seguito della collaborazione con la giustizia di Totuccio Contorno.

La relatrice entra, così, nelle vicende del ‘Maxi’, processo che segna uno spartiacque fondamentale tra un prima, l’epoca della ‘mafia che non esiste’, e un dopo, l’epoca della mafia che esiste, è un’organizzazione criminale, unitaria e verticistica, confermando, così, il teorema Buscetta. La verità giudiziaria, ribadita nei tre gradi di giudizio (tra dicembre 1987 e gennaio 1992), conferma l’esistenza del fenomeno mafioso attraverso una mole impressionante di documenti: se si impilano una sull’altra i due milioni di pagine di istruttoria si supera di gran lunga l’altezza della Mole Antonelliana (168 metri, per intenderci) e, se la stessa operazione la si compie con le carte processuali, ci si colloca di trenta metri sopra la Torre di Pisa (56 m.). E Maria snocciola dati e fatti, sottolinea gli ostacoli, enormi, che provarono a intralciare il corso del processo, dal tentativo di spostare in altra sede le udienze alla campagna stampa condotta da alcune testate contro l’inchiesta e i giudici in essa impegnati (leggasi “Il Giornale di Sicilia”), dalle uccisioni di Antonino Saetta (settembre 1988) e Antonino Scopelliti (agosto 1991) che avrebbero dovuto ricoprire, rispettivamente, la carica di Presidente di Corte d’Assise d’appello e di Presidente di Cassazione al ruolo del giudice Corrado Carnevale, l’ammazzasentenze secondo la vulgata, a cui sfugge di mano la presidenza della Corte di Cassazione anche per l’intervento di Falcone, al tempo approdato al Ministero di Grazia e Giustizia, da dove organizza la nuova struttura di contrasto alla mafia (DIA, DNA e direzioni distrettuali antimafia).

Nel gennaio 1992, dunque, la mafia esiste e viene condannata (2665 anni di condanna in primo grado) e, tra parentesi, pare esistere pure il concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è proprio incardinandosi implicitamente su quest’ultimo assunto che la relazione di Lorenzo Amadio si innesta su quella di Maria. Perché ora, poggiando sull’eloquio appassionato dell’oratore, il quadro si colora di altre morti, eccellenti e meno eccellenti, ma tutte inquadrate nel new deal mafioso orchestrato da Riina e soci, ossia la stagione stragista, quella che avrebbe dovuto rispondere, da un lato, all’offensiva dello Stato (da qui le morti di Falcone e Borsellino) e, dall’altro, avrebbe dovuto sganciare i vecchi referenti politici alla ricerca di nuovi interlocutori in grado di affievolire il giro di vite contro la mafia (ne fanno le spese, tra gli altri, Salvo Lima e Ignazio Salvo).

Qui, su questa pista insanguinata, Lorenzo colloca il proprio intreccio narrativo, evocando con tocchi impressionistici un’epoca caratterizzata dalle rivendicazioni della sedicente ‘Falange armata’ – sigla che attraversa una lunga stagione nera della nostra storia degli anni Novanta – e modellando alcuni camei, alcuni ritratti in posa processuale, legati tra loro dallo stesso maledetto filo rosso sangue, ossia i legami tra alcuni segmenti dello Stato e la mafia. Vengono, dentro i rispettivi processi, sbozzate le figure di Bruno Contrada, quella di Giulio Andreotti, al quale, ricorda con tono ironico il relatore, ha reso buon servizio l’avvocato Giulia Bongiorno, gridando ‘assolto, assolto, assolto’ al telefonino, quel giorno dell’ottobre 2004, dinanzi le telecamere nazionali e non, assicurandogli in tal modo una verginità giudiziaria ed etica che, almeno per i fatti sino alla primavera 1980, è inappropriata e falsa, considerato che il ‘divino Giulio’ si è visto prescrivere reati che risultano commessi, ma che sono stati, appunto, prescritti. Il reato è concorso esterno in associazione mafiosa.

Altro che assoluzione, ricorda Lorenzo, si tratta di vicende che vivono in quel drammatico equilibrio tra ‘mezze verità e mezze bugie’ che rendono nebulosa la storia del nostro Paese, storia sulla quale il relatore poggia un’altra figurina plastica e densa di ombre, quella di Marcello Dell’Utri. Il co-fondatore di Forza Italia, rammenta l’oratore, l’anello di congiunzione tra mafia e referenti politici, quei nuovi referenti politici che devono garantire, nella trattativa Stato-mafia già avviata due anni prima, l’ammorbidimento della legislazione contro l’organizzazione mafiosa e al quale avrebbe dovuto essere garantito l’appoggio delle cosche in occasione delle elezioni politiche del maggio 1994.

E la figurina Dell’Utri conduce, appunto, dritti nel cuore della ‘trattativa’, ultimo processo in ordine di tempo e il più detonante, dopo il ‘Maxi’, perché sancisce, per quanto ancora legato a una sentenza di primo grado, i legami sporchi tra apparati dello Stato e mondo mafioso. Al banco degli imputati cinque boss mafiosi, quattro uomini politici e tre esponenti delle forze dell’ordine, al banco quei legami che intercorrevano mentre l’Italia esplodeva a Palermo come a Roma, come a Firenze, come a Milano, mentre Riina veniva arrestato senza che venisse perquisito il suo covo, mentre Provenzano, nuovo interlocutore (più morbido di Totò u curtu), pellegrinava per la penisola sotto probabile copertura dei servizi segreti deviati, mentre il ministro di Grazia e Giustizia Conso non prorogava, a partire dal novembre 1993, 334 decreti di sottoposizione al regime carcerario del 41bis (il carcere duro, per intendersi), mentre Nitto Santapaola, nell’aprile 1993, poteva allontanarsi indisturbato da Terme Vigliatore, nel Messinese, a dispetto della presenza nella zona dei militari del Ros.

Lorenzo giunge al termine, il racconto si carica dell’indignazione che muove da anni l’operato del movimento di cui fa parte, l’acceso sentimento di rabbia nei confronti di una storia nazionale macchiata da macchie scurissime e despistaggi. Non a caso, menziona, tra i tanti, i processi sulla strage di via D’Amelio che, nel caso della sentenza del procedimento penale Borsellino QUATER (aprile 2017), vedono finalmente riconosciuta l’esistenza del depistaggio delle indagini sulle stragi; depistaggio di tipo istituzionale, si intende, organizzato cioè da apparati deviati dello Stato. Mezze verità e mezze bugie. Il relatore rivendica la necessità di un Paese libero dalla menzogna, in cui democrazia e libertà tornino a rifiorire attraverso il recupero della verità, giudiziaria e storica.

Non a caso, il prossimo incontro, il 7 marzo, porterà al liceo Cottini Fabio Repici, l’avvocato difensione dei familiari vittime di mafia, che approfondirà, a proposito di depistaggi e mancate verità e latitanti in giro per l’Italia, il caso di Attilio Manca.

 

 

 

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